Il diritto costituzionale alla salute ed il sistema sanitario
La reticenza del medico a spiegare le sue azioni al paziente, che per molto tempo continua a caratterizzare il rapporto di cura, esprime proprio il persistere della prevalenza della dimensione corporea a scapito di quella identitaria.
Mai sarà vano ribadire, sul piano culturale e sociale, l’importanza dell’anamnesi tradizionale, l’approccio umanistico alla professione, la capacità di ascolto del medico, fermo restando il progresso irrinunciabile conseguito dalla sempre più raffinata diagnostica strumentale, che, tuttavia, viene meglio utilizzata, anche dal punto di vista economico delle spese relative, quando responsabilmente collegata alla considerazione complessiva del paziente.
Quante azioni risarcitorie possono essere evitate con una più attenta considerazione della persona che non è semplicemente un corpo da investigare ma un soggetto di diritto con il quale il medico deve avviare un percorso terapeutico che è fondato su una alleanza che richiede ascolto ed ha per fine la maturazione da parte del paziente o dei suoi familiari di una sua coscienza della malattia.
Con le leggi degli anni novanta ed i loro provvedimenti attuativi (Legge 4 maggio 1990, n. 107; d.lgs. 17 marzo 1995, n. 230; d.m. 15 luglio 1997 ) si realizza in Italia un pieno riconoscimento giuridico della necessità di un’adeguata previa informazione come requisito di validità del consenso prestato all’atto medico.
L’opera della giurisprudenza consente di riempire di contenuto molte delle pretese collegate al diritto all’espressione del proprio consenso, precisando i requisiti della necessaria informazione preventiva, le modalità della relazione, l’insufficienza, in alcun casi, della semplice sottoscrizione di moduli generici, ecc.
I giudici hanno così anche il merito di consolidare, se pure non senza incertezze e contraddizioni, un sistema di diritti legati al rapporto in cui si svolge la relazione di cura, mettendo in discussione la soggezione del paziente al curante e il “potere” di quest’ultimo, non solo nel riconoscimento del benessere in cui consiste la salute, ma anche nella definizione dei trattamenti in cui si sostanzia la pretesa di cura.
Questo importante processo, nel rileggere attraverso il linguaggio del diritto diversi aspetti dell’esperienza della persona nel rapporto curativo, trasforma progressivamente la relazione medico-paziente. L’immagine paternalistica del medico che si occupa della salute dell’individuo, assumendo unilateralmente in scienza e coscienza le scelte terapeutiche nell’esercizio di una potestà che si giustifica intrinsecamente per la finalità che la ispira, lascia spazio a quella del professionista che applica le proprie conoscenze ed abilità in una dialettica continua con la persona curata, che chiede di essere ascoltata, di conoscere e di partecipare alla definizione del percorso terapeutico.
Si tratta di una svolta importante, che fornisce maggiore pienezza al diritto alla salute, e rappresenta un significativo tassello nella realizzazione del progetto costituzionale di sviluppo della persona anche attraverso la salute. Al tempo stesso è anche un momento di rottura, che infrange uno schema consolidato e delinea scenari nuovi in cui si profilano significative opportunità, ma anche pericoli.
La conquista della pienezza dei diritti del paziente nel rapporto di cura, soprattutto in una prima fase, si “scarica” integralmente nella relazione duale fra curante e curato. L’organizzazione amministrativa reagisce con lentezza e nella sua inerzialità lascia il medico solo di fronte alle nuove richieste della società e dell’ordinamento.
Il medico è lasciato solo dall’organizzazione amministrativa.
Non dissimile processo riguarda il giudice, con le nuove forme della responsabilità civile, calate in realtà organizzative connotate da congestione ed inefficienza e quindi fonte ed occasione di responsabilità e conflittualità.
Sembra quasi che la politica manifesti una difficoltà crescente nel governo dei processi di organizzazione del lavoro e dei servizi pubblici (sanità e giustizia) e non riuscendo ad assicurare che gli apparati curino con efficienza gli interessi per cui sono istituiti allarghi le maglie della responsabilità degli operatori con il risultato paradossale di rallentarne l’azione.
Una società dominata dall’art. 2043 del cod. civ. e dal paradigma della responsabilità è una società che ha sostituito alla cura dell’interesse la sua monetizzazione e che preferisce dare per scontato il conflitto piuttosto che puntare su giochi cooperativi.
So che i medici spesso si lamentano dei rigori della giurisprudenza civile in tema di responsabilità professionale, ma vorrei qui ribadire che i giudici sono in qualche modo investiti dallo stesso nefasto processo, che è insito nella crisi dei servizi dello Stato sociale o del benessere (servizio sanitario, accesso alla giustizia.
La risposta è puntare, sul piano culturale, come società complessivamente intesa sulla cura dell’interesse, sull’effettivo svolgimento del servizio, non sulla patologia dell’illecito civile o penale istituti che dovrebbero svolgere una funzione residuale.
Questo orizzonte incentrato sulla ripresa della logica del servizio su basi di solidarietà sociale, come giudice amministrativo, chiamato in concrete vicende ad assicurare l’effettività del valore del buon andamento dell’amministrazione, mi sembra importante ricordarlo.
Ma la realtà non va nel senso che sarebbe auspicabile.
Le conseguenze negative della crescente conflittualità sociale e giudiziaria in materia di salute sono note. I dati che riguardano la fine del secolo scorso e il primo decennio di quello attuale mettono in evidenza come il numero di denunce per responsabilità professionale medica si sia più che triplicato, con una concomitante forte crescita del costo dei risarcimenti.
Che si tratti di un aumento di conflittualità “pura”, segno del crescere di una tensione che non ha altri luoghi di emersione, appare evidente dall’esito delle controversie: il 95% dei procedimenti penali si conclude con un proscioglimento, mentre in sede civile le richieste di risarcimento vengono accolte solo nel 34% dei casi.
In corrispondenza di ciò si fa strada l’approccio cosiddetto di medicina difensiva, che descrive tutte quelle pratiche poste in essere per scongiurare un addebito di responsabilità da parte dei professionisti medici e che intacca gravemente l’appropriatezza nell’impiego dei mezzi di accertamento diagnostico e di trattamento medico.
A tradire l’approccio difensivo è anche la resistenza di molti medici a rispondere positivamente alle richieste di quei pazienti che intendono legittimamente rinunciare alle cure in corso in una fase terminale della propria vita. Anche qui il medico, solo di fronte al paziente che chiede l’interruzione di un trattamento vitale, spesso preferisce non esporsi, non rischiare di essere chiamato poi a dover dar conto di una morte per ritardare la quale non è stato fatto tutto il possibile.
Altre difficoltà emergono in connessione alla crisi economica.
Si tratta del c.d. mito della quadratura dei conti (nel dibattito pubblico spesso legato ai parametri europei di controllo della finanza pubblica), una lettura puramente aziendalistica del diritto sanitario, che tende a diffondersi fra aziendalisti ed economisti non specializzati, tale per cui il Servizio Sanitario Nazionale dovrebbe avere tale equilibrio come principale obiettivo da raggiungere e non come un vincolo da rispettare.