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Ignazio Musu: Alcune osservazioni dopo la lettura della recensione a “Orme di teorie economiche quasi dimenticate. Rilettura di Herman E. Daly, scritti tradotti da Giandomenico Scarpelli”, Carrocci, 2023.

di - 23 Gennaio 2024
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La recensione mette in evidenza l’importanza del contributo dell’economista Herman Daly, scomparso nel 2022, soprattutto all’economia ecologica, un approccio alla relazione tra economia e ambiente naturale più complesso di quello utilizzato per descrivere un sistema economico dall’economia tradizionale, che considera l’ambiente soltanto come fornitore di risorse (minerali, acqua, combustibili fossili, foreste, aree di pesca, terreni destinali all’agricoltura) che entrano, assieme al lavoro e al capitale, tra i fattori di produzione dei beni e dei servizi.

Questo modo unidirezionale di vedere il ruolo dell’ambiente nel sistema economico ignora le implicazioni del fatto che quelle risorse che l’ambiente fornisce all’economia ritornano poi all’ambiente nella forma di rifiuti e di inquinamento generati dai processi di produzione e di consumo, con effetti negativi che contrastano con quelli positivi determinati dall’utilizzo delle risorse naturali nel processo economico.

Se, come Herman Daly e altri dopo di lui hanno proposto, si adotta una visione più completa delle interazioni tra economia e ambiente rispetto a quella tradizionale, diventa importante considerare il sistema economico come un sottoinsieme del sistema ecologico.

Sotto questo profilo, è anche appropriata la critica che Herman Daly ha rivolto alla Commissione delle Nazioni Unite presieduta dal primo ministro norvegese, signora Gro Harlem Brundtland, che, in un citatissimo rapporto del 1987, ha considerato la implicazione del rapporto tra economia e ambiente naturale nello sviluppo economico introducendo il concetto di “sviluppo sostenibile”, definito come “uno sviluppo che soddisfa i bisogni della generazione presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i loro bisogni”.

Questa definizione, infatti, insistendo solo sul criterio della soddisfazione dei bisogni umani nel tempo, non tiene conto dell’esigenza di mantenere la risorse naturali e i processi ecologici necessari per la loro rigenerazione; una definizione più appropriata di sostenibilità dovrebbe anche considerare anche la necessità di mantenere livelli adeguati delle risorse naturali e delle funzioni ecologiche secondo un approccio più eco-centrico, e non solo antropocentrico, che considera il valore intrinseco della natura.

Ma, nell’adottare questo approccio, Herman Daly ha adottato una visione che respinge l’idea stessa di “sviluppo sostenibile”, criticando l’obiettivo dello “sviluppo economico” da lui identificato con “crescita economica” e in particolare crescita del Prodotto Lordo Interno, e adotta invece come obiettivo lo “steady state”.

Daly fonda la sua idea di “steady state” sulla necessità di mantenere costante quello che egli chiama “throughput”, ossia il flusso di materia ed energia che proviene dall’ambiente e che si metabolizza attraverso il sub-sistema economico della produzione e del consumo per poi ritornare all’ambiente come rifiuti.

In fondo Daly, come del resto Nicholas Georgescu Roegen prima di lui, raccomanda di tener conto dei vincoli che provengono dalla applicazione delle leggi della termodinamica: più materia ed energia vengono assorbite dall’economia, e maggiore è la creazione di entropia dei suoi manufatti, meno materia ed energia rimangono per ricostruire le strutture e i servizi degli ecosistemi che sostengono l’economia; l’attività economica, dunque, non può far crescere la materia, può solo trasformarla, e nel trasformarla genera una dispersione di energia.

Ma da ciò Daly fa discendere la necessità di una costanza dell’indicatore universalmente accettato per misurare la crescita, il Prodotto Interno Lordo (PIL); egli ammette, anzi richiede, solo cambiamento qualitativo, nel modo cioè in cui un flusso costante di PIL viene ottenuto.

Questa conclusione però non è necessariamente conseguente all’accettazione delle leggi della termodinamica; perché mai il valore reale, non solo quello monetario, dell’attività economica non potrebbe espandersi massimizzando la riciclabilità dei prodotti e minimizzando l’entropia, e quindi rispettando la costanza del “thorughput”?

Lo stesso Daly, del resto, ha ammesso che un miglioramento qualitativo che risulti nella crescita di un PIL sempre meno “material-intensive” sia da perseguire dove possibile, accettando però che un limite esiste.

La critica di Daly alla crescita economica si fonda su un confronto tra costi e benefici della crescita stessa; grazie all’estensione raggiunta dal sistema economico, i servizi degli ecosistemi e il capitale naturale sono diventati scarsi, e ogni loro ulteriore riduzione costituisce un costo opportunità non ignorabile della crescita economica; Daly sostiene che i benefici aggiuntivi della progressiva trasformazione fisica degli ecosistemi in sistemi dell’economia sono stati superati dal costo-opportunità marginale in termini di servizi degli ecosistemi venuti meno in questa trasformazione.

Che in molti, troppi, casi questo sia avvenuto è innegabile; ma ciò non autorizza a escludere la possibilità di modificazioni strutturali nel modello di crescita tale da evitare che continui ad avvenire; lo stesso Daly ha ammesso che una espansione economica è necessaria per far fronte ai bisogni materiali dei paesi poveri.

La domanda allora diventa: come confrontarsi con la ineludibile domanda di crescita economica che verrà, nei prossimi anni soprattutto, dai paesi in via di sviluppo? La crescita economica è necessaria per superare carenze ancora drammatiche in termini di raggiungimento di “standard” minimi di sufficiente qualità della vita.

Certo, bisogna riconoscere che nei paesi in via di sviluppo la domanda di crescita non è solo guidata dalla esigenza di soddisfare questo obiettivo; essa deriva dalla domanda di raggiungere lo stile di vita della “classe media” dei paesi oggi maturi; e questa domanda di imitazione passiva del modello di crescita già sperimentato dai paesi avanzati costituisce la più grande minaccia alla sostenibilità della crescita stessa.

Rispondere a questa sfida richiede trasformazioni molto complesse dell’attuale modello di sviluppo che riguardano la tecnologia e la struttura della domanda e dei consumi: un obiettivo possibile, ma, come rivela l’esperienza corrente a livello mondiale, in pratica molto difficile.

La situazione ideale sarebbe la combinazione di due fattori: il prevalere del un progresso tecnologico orientato all’ambiente ( del tipo “buono”) e una composizione della domanda e della struttura produttiva che si modifica a favore dei beni e dei processi produttivi caratterizzati da un pressione decrescente sull’ambiente per unità di prodotto; ma la realizzazione di questa combinazione ideale non è automatica; l’interazione tra i vari fattori in gioco può dar luogo a svariate configurazioni del rapporto tra crescita economica e qualità dell’ambiente, e non è automatico che prevalga quella che consente di ottenere crescita economica e al tempo stesso riduzione della pressione assoluta sull’ambiente.

Una crescita del PIL sempre meno “material intensive” non è affatto obiettivo scontato; come ha ben notato Herman Daly, lo sviluppo della produzione immateriale ha sempre una base materiale; a livello globale, la domanda di materialità è determinata: dall’elevato ritmo di sostituzione dei materiali (pc, smart phones, tablets) e dal connesso aumento dell’ “e-waste”; dalla maggiore potenzialità di mobilitazione di trasporto delle merci connessa all’ “e-commerce”); dallo sviluppo di un tipico “servizio” qual è il turismo, con le implicazioni che il movimento delle persone comporta in termini di emissioni e creazione di rifiuti, oltre che di pressione su ambienti di pregio e fragili sia di natura ecologica sia artistica.

Ma la conclusione da trarre non è che la crescita economica è sempre e comunque apportatrice di degrado ambientale, ma che la compatibilità tra questi due obiettivi è possibile, ma non è automatica ed esige delle condizioni, che riguardano i comportamenti e le scelte delle persone, ma anche le istituzioni che incentivano e i valori che ispirano tali comportamenti e tali scelte; e nel determinare il verificarsi di queste condizioni il ruolo delle politiche pubbliche è fondamentale.

Se si tiene conto di questo le conclusioni di Pietro Turrisi sono del tutto accettabili: quelle che rifiutano la tesi che automaticamente la tecnologia risolverà i problemi globali di conflitto tra economia e ambiente a partire dal cambiamento climatico, il riferimento ai richiami di Papa Francesco nelle su due encicliche dedicate al problema, le critiche all’eccessivo ottimismo mostrato nei media internazionali alle conclusioni della COP 28 di Dubai del tutto inadeguate ad affrontare la sfida del cambiamento climatico.

Un ruolo importante per la promozione della necessaria collaborazione internazionale per creare le condizioni per uno sviluppo globale sostenibile e, in fondo, anche per rispondere agli avvertimenti di Herman Daly, potrebbe darla la presidenza italiana del G7; ma è una speranza credibile?


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