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Recensione a F. Fubini, L’oro e la patria. Storia di Niccolò Introna, eroe dimenticato, Mondadori, Milano, 2024.

di - 4 Marzo 2024
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Solo un valente giornalista civilmente motivato poteva appassionarsi a una vicenda quale quella di Niccolò Introna, banchiere centrale nell’Italia fascista, sconosciuto ai più. E solo un valente giornalista poteva scrivere di quella vicenda come vissuta da uomini veri, i buoni e i cattivi, nel Paese quale era, fondendo cronaca e storia.

Il pregio autentico del libro è che dalla vita professionale di Introna Fubini trae una valutazione critica della società italiana, che non di rado respinge la competenza e il rigore di persone per bene come Introna. Non bisognerebbe dover essere eroi per fare il proprio lavoro…

Da ex impiegato della Banca d’Italia desumo dal libro, sulla società italiana, la conferma di un mio amaro convincimento, analogo a quello di Fubini. L’ho maturato sin dal caso Baffi-Sarcinelli, che nel marzo del 1979 mi toccò di vivere di persona come loro stretto collaboratore ed estimatore.

In un saggio su La Banca d’Italia. Una istituzione ‘speciale’ ho argomentato che  la ‘specialità’ di Via Nazionale nasce non solo dalla sua qualità tecnica, ma dall’avere essa esercitato l’autonomia di banca centrale in un ambiente economico, culturale, politico o, come dice Fubini, antropologico a quella autonomia refrattario. La mia analisi era concentrata sull’Italia post-bellica, repubblicana. Fubini mostra come la difficoltà fosse non minore nell’Italia fascista.

Dopo i fasti giolittiani, nel primo fascismo la Banca d’Italia di Stringher sopravvisse agli attriti col dè Stefani Ministro delle finanze. Impegnando il suo illustre giurista Gustavo Bonelli Via Nazionale contribuì alla scrittura della legge bancaria del 1926, che le riconobbe il monopolio dell’emissione e formali doveri di supervisione delle banche.

Nella prima metà degli anni Trenta il Governatore Azzolini attuò una politica monetaria almeno nel segno correttamente anticiclica. Ridusse i tassi d’interesse nominali ed espanse la liquidità nella recessione. Avviò la manovra opposta in seguito.         Ma il regime escluse la Banca dalla gestione della crisi industriale e bancaria, dalla sua soluzione attraverso l’IRI, dal facimento della legislazione bancaria del 1936. Nella funzione di vigilanza gli antepose un Comitato di ministri. Cosa ancor più grave, decreti governativi del 1935 tolsero alla Banca d’Italia il potere-dovere di limitare i finanziamenti al Tesoro, quindi di controllare il totale della base monetaria nell’inflazione seguita alle spese statali per l’aggressione all’Etiopia e per le avventure militari successive.

Dato il contesto, il giudizio su Azzolini non è agevole. Chiesi una volta al dottor Baffi. Mi parlò di una figura non eccelsa, ma nemmeno impreparata e fascistissima, dato l’orbace imperante.

Se Azzolini era fascista e non era incompetente, resta il mistero del perché la Banca d’Italia negli anni Trenta venne esautorata. La personalità accentratrice di Beneduce, l’antico avversario prediletto dal Duce, lo spiega solo in parte.

Al di là del regime totalitario la cultura economica e delle istituzioni economiche del fascismo fu e resta mediocre, inferiore a quella, pure tanto discussa, letteraria, filosofica, giuridica, urbanistica.

In positivo, gli economisti della Banca, e non solo loro, devono ad Azzolini il Servizio Studi, che egli volle progettato dall’illustre demografo, Giorgio Mortara, ebreo.

Azzolini protesse molti ebrei, fra cui Joe Nathan, che i fascisti avevano rimosso dal ruolo brillantemente interpretato di rappresentante della Banca d’Italia a Londra.

Forse non è nota la stima del patrimonio degli ebrei soggetti a esproprio effettuata da Antonino Occhiuto, affermatosi poi come uno dei più solidi dirigenti espressi dalla Banca d’Italia. Allorchè nel 1976 si dimise da Vice-direttore generale, perché i democristiani gli avevano preferito Rinaldo Ossola come numero due dell’Istituto, Occhiuto volle lasciare a me copia del calcolo che allora gli venne richiesto. Mi costrinse a leggere davanti a lui le tre cartelle. Gli dissi che la stima mi sembrava una sottostima: “Bravo! – replicò – Ma se per tutelare gli ebrei l’avessi ridotta ulteriormente persino funzionari fascisti digiuni di statistica avrebbero mangiato la foglia!”

Occhiuto mi confessò anche, in un’altra occasione, che Introna era tanto esperto di vigilanza quanto spigoloso, di pessimo carattere. Aveva il pugno di ferro, ma non il guanto di velluto, entrambi necessari a guidare le banche.

Tuttavia il gran contributo di Introna fu proprio nell’aver organizzato, dopo la legge del 1926, la funzione di vigilanza creditizia e in particolare l’attività ispettiva, vincendo la concorrenza del Ministero nelle ispezioni. Era ritenuto dirigente altamente qualificato dagli stessi servizi segreti fascisti.

Quindi fu merito di Azzolini l’aver protetto Introna nel Direttorio dalle reiterate pressioni esterne di chi voleva sostituirlo perché valdese, incorruttibile e anti fascista.

Sul trasferimento dei danari dal conto della Banca d’Italia a favore del figlio del Duce va aggiunto che il danno agli italiani il fascismo lo fece soprattutto con una economia ristagnante, prima, e con la follia anche economica della guerra, poi. Negli anni Trenta la produttività totale dei fattori addirittura diminuì, dello 0,4% l’anno. Nel 1945 oltre al mezzo milione di morti – di cui 85mila civili – il Pil era crollato del 45% rispetto al 1939, ripiombando sul livello di quarant’anni prima. Un disastro!

Sulla responsabilità di Azzolini nell’episodio dell’oro sottratto dai tedeschi condivido il giudizio di Einaudi: “Cosa da ridere!” La ragione a parer mio è che i tedeschi non potevano non sapere dell’oro celato nelle sacrestie della Banca. Roma pullulava di spie, delatori potevano esservi anche dentro la Banca. Inoltre ai tedeschi bastava sottrarre dallo stock delle riserve della Banca dei primi anni Trenta i disavanzi cumulati di bilancia dei pagamenti italiani nel successivo decennio per stimare la rimanenza dei lingotti nel 1944. Se Azzolini non avesse smurato l’oro che era stato nascosto dietro la pressione di Introna, Kappler avrebbe demolito Palazzo Koch, sarebbero stati deportati al Nord gli impiegati che Azzolini era riuscito a trattenere a Roma in attesa degli americani e persino la parte dell’oro di proprietà svizzera sarebbe finita a Berlino.

Einaudi sarà pure stato – come lo definisce Fubini – “volpino” (sic!), “dal passato quasi (!!) ineccepibile” e neofita di banca centrale ma salvò la lira. Col suo prestigio stroncò senza effetti recessivi l’aspettativa di un’inflazione galoppante al 100% l’anno. Nella scelta del successore Einaudi non sbagliò. Introna sfiorava gli ottanta. Soprattutto, non aveva né la preparazione macroeconomica né la conoscenza della struttura produttiva di una economia da ricostruire. Nel 1960 Menichella avrebbe chiuso il suo governatorato con il sistema bancario stabilizzato, i prezzi ingrosso invariati e la produzione cresciuta del 6,6% l’anno, raddoppiata dal 1948: un primato fra i Governatori, dal 1894 a oggi.

Almeno in Banca d’Italia Niccolò Introna non è dimenticato. Non lo sarà da molti altri, se il libro di Fubini avrà la eco che merita.


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