Il diritto costituzionale alla salute ed il sistema sanitario

Le due più grandi sventure nella vita sono una cattiva salute e una cattiva coscienza (Lev Tolstoj).

Diritto alla salute e problemi del sistema sanitario
E’ stato detto con efficacia che “il diritto alla salute nel nostro ordinamento, sin dalla sua sanzione costituzionale, si è posto quale luogo di intersezione fra tensioni diverse, che coinvolgono la persona e il suo rapporto con il professionista medico, con l’amministrazione, con la società; che toccano la relazione fra impresa e diritti dei lavoratori; che riguardano le scelte di allocazione delle risorse pubbliche, le decisioni di organizzazione dell’amministrazione, la libertà individuale e la responsabilità.
Per questo si tratta di un diritto che risente più di altri delle trasformazioni sociali, culturali e giuridiche e che stimola un continuo confronto sulla sua natura e sul suo contenuto, che evolve non solo insieme alla scienza che se ne occupa, ma anche e soprattutto insieme alla società in cui si ambienta[1].
Comprendere questi cambiamenti è arduo, spesso si tratta di evoluzioni che avvengono lungo percorsi non sempre lineari, che attraversano fasi diverse e la cui effettività si misura soltanto con il tempo.
Un elemento che, tuttavia, non va trascurato quando ci si interroga sul diritto alla salute e sulle sue trasformazioni è che la formulazione impiegata, quella appunto di “diritto alla salute”, utilizza il termine “salute” come sintesi di una pluralità di elementi il cui risultato finale tuttavia è un oggetto del diritto che non si lascia mai cogliere completamente e che sfugge alla intellezione ed alla realizzazione pratico-effettuale della dinamica del diritto.
In altre parole, se sicuramente si ha diritto a che la propria salute non venga direttamente compromessa da azioni altrui e si ha diritto a servizi che mettano nelle condizioni di proteggere e recuperare la propria salute nel momento in cui questa è compromessa o è in pericolo, non si ha alcun diritto ad ottenere la salute.
Chiovenda sarebbe spiazzato dalla dinamica del diritto alla salute. Per il noto studioso del nostro diritto processuale civile il processo deve dare all’attore “tutto quello e proprio quello che il nostro diritto sostanziale assicura” ma il nostro diritto sostanziale non può assicurare in termini assoluti il superamento dei limiti fisici, corporei, della persona umana.
Il diritto alla salute è una posizione giuridica paradossale alla luce della semplice constatazione che il bios decade.
Questo occorre non dimenticarlo mai, i medici questo lo sanno assai bene, i giudici un po’ meno e non tenere presente questo aspetto problematico del rapporto fra diritto e salute porta all’invadenza delle corti ed alla medicina difensiva.
Viviamo invece in un tempo che tende ad obliare i limiti tradizionali della persona umana, la sua fragilità e caducità, la sua destinalità, la morte come destino dell’uomo, quel destino per cui Heidegger ha definito – certamente in modo un po’ tetro e non del tutto condivisibile – l’ essere come essere per la morte (preferibile è pensare che l’uomo sia per la vita come voleva la Harendt anche se con il limite della caducità dell’esitenza legata al mistero del tempo).
Diritto e salute sono infatti due termini che descrivono cose diverse: l’uno una situazione soggettiva a contenuto giuridico; l’altro uno stato, una condizione della persona, la cui pienezza è tutelata e promossa, ma che non può essere del tutto assicurata dal diritto che ad essa si riferisce. Lo stato in cui consiste è oggetto del diritto, ma non è e non può essere prodotto del diritto.
Al tempo stesso, tuttavia, il concetto di salute e il suo significato incidono sul diritto e contribuiscono a definirne i tratti in forma di limiti e pretese.
La salute tuttavia – pur nella coscienza del destino del bios – non può più essere intesa unicamente come integrità corporea dell’individuo, ma va ripensata come dimensione che include il benessere psichico, e quindi anche sociale della persona, è acquisizione che da un punto di vista socio-culturale data dalla metà del secolo scorso.
A questo proposito è inevitabile ricordare la nota nozione di salute indicata dall’Organizzazione mondiale della sanità fin dal momento della sua istituzione nel 1948 come «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non soltanto assenza di malattia».
Di tale idea di salute troviamo però la prima effettiva concretizzazione nel nostro ordinamento solo a partire dalla fine degli anni ’70. In questo senso vanno le previsioni della legge che istituisce il Servizio sanitario nazionale e che sancisce la necessaria tutela della salute psichica oltre che fisica dell’individuo, nel rispetto della sua libertà e dignità; nella medesima direzione si dirige la coeva legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, prevedendo la possibilità di ricorrere a questa pratica medica qualora si profili un serio pericolo per la salute non solo fisica, ma anche psichica della donna, in relazione al suo stato di salute o alle sue condizioni economiche, sociali e familiari.
L’allargamento del quadro dei profili del benessere in cui si sostanzia l’idea di salute apre la strada anche all’inclusione in essa della dimensione identitaria e individuale del soggetto, aspetto che ha rappresentato un altro tassello importantissimo dell’evoluzione del concetto.
L’avvio di tale processo può rintracciarsi nella legge in materia di transessualismo, che ha consentito una “lesione” dell’integrità corporea attraverso interventi chirurgici irreversibili volti all’adeguamento dei caratteri sessuali alla percezione di sé che ha la persona. In questa occasione, forse per la prima volta, il nostro ordinamento è stato posto direttamente di fronte alla questione della indefinibilità della salute in modo oggettivo e della necessità di un confronto diretto con l’individuo, per costruire assieme a chi ne è portatore il contenuto del “suo” diritto alla salute.
La Corte costituzionale, nel respingere la questione di legittimità sollevata, fra l’altro, con riferimento al fatto che la legge consentiva un atto di disposizione del proprio corpo non giustificato dall’esigenza di rimuovere una malattia, osservava in un passaggio argomentativo come il transessuale, attraverso l’intervento chirurgico, vedesse riconosciuta la propria identità, conquistando «uno stato di benessere in cui consiste la salute». La saldatura fra identità e salute apre la strada al superamento dell’idea di un benessere coincidente con l’integrità psico-corporea, nella direzione di una possibile ricostruzione della salute, e del conseguente diritto, tale da includere profili diversi, legati alla individualità del paziente e alla sua personale visione di sé e soprattutto intacca per la prima volta il dominio del corpo sulla persona.
Come è stato detto[2], “Si tratta di un primo piccolo passo di un percorso che richiede molto tempo per essere portato a termine. Il corpo resta comunque a lungo sovrano nell’idea di salute, continua a parlare con una voce che sovrasta quella della persona, una voce fatta di segni, sintomi ed esigenze biologiche, con la quale dialoga direttamente con il medico, che lo interroga e lo sonda in cerca di risposte. Il paziente osserva questa relazione, quasi dall’esterno, come qualcosa che si svolge in un luogo a lui inaccessibile, in cui si parla una lingua diversa, incomprensibile”.

La reticenza del medico a spiegare le sue azioni al paziente, che per molto tempo continua a caratterizzare il rapporto di cura, esprime proprio il persistere della prevalenza della dimensione corporea a scapito di quella identitaria.
Mai sarà vano ribadire, sul piano culturale e sociale, l’importanza dell’anamnesi tradizionale, l’approccio umanistico alla professione, la capacità di ascolto del medico, fermo restando il progresso irrinunciabile conseguito dalla sempre più raffinata diagnostica strumentale, che, tuttavia, viene meglio utilizzata, anche dal punto di vista economico delle spese relative, quando responsabilmente collegata alla considerazione complessiva del paziente.
Quante azioni risarcitorie possono essere evitate con una più attenta considerazione della persona che non è semplicemente un corpo da investigare ma un soggetto di diritto con il quale il medico deve avviare un percorso terapeutico che è fondato su una alleanza che richiede ascolto ed ha per fine la maturazione da parte del paziente o dei suoi familiari di una sua coscienza della malattia.
Con le leggi degli anni novanta ed i loro provvedimenti attuativi (Legge 4 maggio 1990, n. 107; d.lgs. 17 marzo 1995, n. 230; d.m. 15 luglio 1997 ) si realizza in Italia un pieno riconoscimento giuridico della necessità di un’adeguata previa informazione come requisito di validità del consenso prestato all’atto medico.
L’opera della giurisprudenza consente di riempire di contenuto molte delle pretese collegate al diritto all’espressione del proprio consenso, precisando i requisiti della necessaria informazione preventiva, le modalità della relazione, l’insufficienza, in alcun casi, della semplice sottoscrizione di moduli generici, ecc.
I giudici hanno così anche il merito di consolidare, se pure non senza incertezze e contraddizioni, un sistema di diritti legati al rapporto in cui si svolge la relazione di cura, mettendo in discussione la soggezione del paziente al curante e il “potere” di quest’ultimo, non solo nel riconoscimento del benessere in cui consiste la salute, ma anche nella definizione dei trattamenti in cui si sostanzia la pretesa di cura.
Questo importante processo, nel rileggere attraverso il linguaggio del diritto diversi aspetti dell’esperienza della persona nel rapporto curativo, trasforma progressivamente la relazione medico-paziente. L’immagine paternalistica del medico che si occupa della salute dell’individuo, assumendo unilateralmente in scienza e coscienza le scelte terapeutiche nell’esercizio di una potestà che si giustifica intrinsecamente per la finalità che la ispira, lascia spazio a quella del professionista che applica le proprie conoscenze ed abilità in una dialettica continua con la persona curata, che chiede di essere ascoltata, di conoscere e di partecipare alla definizione del percorso terapeutico.
Si tratta di una svolta importante, che fornisce maggiore pienezza al diritto alla salute, e rappresenta un significativo tassello nella realizzazione del progetto costituzionale di sviluppo della persona anche attraverso la salute. Al tempo stesso è anche un momento di rottura, che infrange uno schema consolidato e delinea scenari nuovi in cui si profilano significative opportunità, ma anche pericoli.
La conquista della pienezza dei diritti del paziente nel rapporto di cura, soprattutto in una prima fase, si “scarica” integralmente nella relazione duale fra curante e curato. L’organizzazione amministrativa reagisce con lentezza e nella sua inerzialità lascia il medico solo di fronte alle nuove richieste della società e dell’ordinamento.
Il medico è lasciato solo dall’organizzazione amministrativa.
Non dissimile processo riguarda il giudice, con le nuove forme della responsabilità civile, calate in realtà organizzative connotate da congestione ed inefficienza e quindi fonte ed occasione di responsabilità e conflittualità.
Sembra quasi che la politica manifesti una difficoltà crescente nel governo dei processi di organizzazione del lavoro e dei servizi pubblici (sanità e giustizia) e non riuscendo ad assicurare che gli apparati curino con efficienza gli interessi per cui sono istituiti allarghi le maglie della responsabilità degli operatori con il risultato paradossale di rallentarne l’azione.
Una società dominata dall’art. 2043 del cod. civ. e dal paradigma della responsabilità è una società che ha sostituito alla cura dell’interesse la sua monetizzazione e che preferisce dare per scontato il conflitto piuttosto che puntare su giochi cooperativi.
So che i medici spesso si lamentano dei rigori della giurisprudenza civile in tema di responsabilità professionale, ma vorrei qui ribadire che i giudici sono in qualche modo investiti dallo stesso nefasto processo, che è insito nella crisi dei servizi dello Stato sociale o del benessere (servizio sanitario, accesso alla giustizia.
La risposta è puntare, sul piano culturale, come società complessivamente intesa sulla cura dell’interesse, sull’effettivo svolgimento del servizio, non sulla patologia dell’illecito civile o penale istituti che dovrebbero svolgere una funzione residuale.
Questo orizzonte incentrato sulla ripresa della logica del servizio su basi di solidarietà sociale, come giudice amministrativo, chiamato in concrete vicende ad assicurare l’effettività del valore del buon andamento dell’amministrazione, mi sembra importante ricordarlo.
Ma la realtà non va nel senso che sarebbe auspicabile.
Le conseguenze negative della crescente conflittualità sociale e giudiziaria in materia di salute sono note. I dati che riguardano la fine del secolo scorso e il primo decennio di quello attuale mettono in evidenza come il numero di denunce per responsabilità professionale medica si sia più che triplicato, con una concomitante forte crescita del costo dei risarcimenti.
Che si tratti di un aumento di conflittualità “pura”, segno del crescere di una tensione che non ha altri luoghi di emersione, appare evidente dall’esito delle controversie: il 95% dei procedimenti penali si conclude con un proscioglimento, mentre in sede civile le richieste di risarcimento vengono accolte solo nel 34% dei casi.
In corrispondenza di ciò si fa strada l’approccio cosiddetto di medicina difensiva, che descrive tutte quelle pratiche poste in essere per scongiurare un addebito di responsabilità da parte dei professionisti medici e che intacca gravemente l’appropriatezza nell’impiego dei mezzi di accertamento diagnostico e di trattamento medico.
A tradire l’approccio difensivo è anche la resistenza di molti medici a rispondere positivamente alle richieste di quei pazienti che intendono legittimamente rinunciare alle cure in corso in una fase terminale della propria vita. Anche qui il medico, solo di fronte al paziente che chiede l’interruzione di un trattamento vitale, spesso preferisce non esporsi, non rischiare di essere chiamato poi a dover dar conto di una morte per ritardare la quale non è stato fatto tutto il possibile.
Altre difficoltà emergono in connessione alla crisi economica.
Si tratta del c.d. mito della quadratura dei conti (nel dibattito pubblico spesso legato ai parametri europei di controllo della finanza pubblica), una lettura puramente aziendalistica del diritto sanitario, che tende a diffondersi fra aziendalisti ed economisti non specializzati, tale per cui il Servizio Sanitario Nazionale dovrebbe avere tale equilibrio come principale obiettivo da raggiungere e non come un vincolo da rispettare.

Emerge che la crescente attenzione, pur giustificata, nei confronti dei problemi di efficienza delle imprese sanitarie e della c.d. industria della salute possa mettere in ombra e fare apparire meno importante e rilevante la riflessione sul contributo che il sistema sanitario deve dare al miglioramento dei livelli di salute della collettività ed alla capacità di rispondere ai mutevoli bisogni della popolazione.
Un eccesso di attenzione al problema dell’efficienza del servizio mette in ombra la questione veramente centrale della sua efficacia, quest’ultimo tema si lega al tema della valutazione delle perfomance che il diritto amministrativo degli ultimi anni ha dimenticato per preferire un approccio basato sulla prevenzione della corruzione, approccio contenuto nelle leggi anticorruzione alle quali è legata la soppressione degli organismi che originariamente si dovevano preoccupare, in vari ambiti gestionali, dell’elaborazione degli indici misuratori delle performance.
Mi chiedo se non debba riprendersi il filo delle valutazioni dell’efficienza, senza trascurare gli approcci legati all’azione di contrasto, in termini general-preventivi, della corruzione amministrativa.
D’altra parte nelle valutazioni di efficienza, da riprendersi, senza trascurare i vincoli di bilancio, occorre, nel sistema sanitario, guardarsi dalla pur diffusa e criticabile convinzione che sia possibile applicare alla sanità modelli di analisi, valutazione e controllo che sono propri di altri settori produttivi, sperimentati nelle realtà delle imprese private di produzione e scambio di beni.
Del pari ingenuo è l’approccio che pensa di importare nel settore sanitario capacità manageriali acquisite in settori diversi da quelli della produzione di beni e servizi destinati alla persona umana.
Il servizio sanitario presenta delle peculiarità e complessità tali da rendere difficile la trasposizione di teorie, modelli e strategie, sicché occorre che gli economisti si specializzino nel settore dell’economia sanitaria ossia conoscano l’oggetto peculiare dell’impresa il cui modello vanno a studiare a fini regolativi.
Nel servizio sanitario centrale è la destinazione del servizio alla persona umana.
Ulteriore dato importante è che il servizio per essere universale e connotato da dominanza pubblicistica – fatto che non comporta per nulla l’esclusione o la marginalizzazione della c.d. sanità privata ma solo la costruzione di modelli di funzionalizzazione della stessa all’interesse pubblico – deve essere , prevalentemente , a carico della fiscalità generale e non dei singoli assistiti che, occorre non dimenticarlo, sono persone che si trovano in peculiari difficoltà e stati di bisogno, legati alla presenza della malattia.
Resta fermo e vero che l’approccio economico può contribuire sensibilmente al progresso dell’organizzazione e delle pratiche del settore sanitario ed è comunque indispensabile in un periodo connotato dal progressivo contenimento della spesa sanitaria e da profondi processi di trasformazione della pubblica amministrazione.
Resta ferma altresì la fatica delle decisioni quotidiane da prendere nel sistema.
Ogni operatore sanitario lo sa: quanto tempo dedicare ai propri pazienti e quanto agli informatori farmaceutici, quanto all’anamnesi e quanto agli accertamenti diagnostici, quanto all’attesa degli eventi di fronte ad una patologia cronica e quanto all’intervento immediato e di che tipo, quanto tempo dedicare all’aggiornamento professionale e quanto ai convegni, quanto privilegiare prodotti monouso e quanto prodotti riutilizzabili ed, in questo secondo caso, con quali cautele igienico-sanitarie.
Tutte valutazioni complesse, relative alla preparazione professionale ed all’approccio terapeutico, rese ancor più tali dalla natura probabilistica della indagine sui nessi causali tipica del lavoro medico-diagnostico e terapeutico.
Il settore sanitario è uno dei settori più complessi dell’intera economia, per livelli di specializzazione, innovazione scientifica, incertezza ed imprevedibilità, asimmetrie informative e da ultimo, per la posta in gioco la salute umana.
Ciò spiega la inevitabile presenza del diritto – e del diritto amministrativo in particolare – in questa materia.
Molte di queste tematiche tuttavia riguardano la deontologia medica.
Nonostante questo, in chiave generale, esse hanno anche una cornice giuridica nella quale devono essere inscritte.
Ciò che si vuol dire e che sono altresì possibili risposte (o quantomeno abbozzi di risposte) a questi complessi problemi che si sono appena accennati proprio a partire dalla Costituzione, risposte basate sull’approfondimento della nozione tecnico-giuridica di diritto alla salute.

Il diritto alla salute
A fronte di questi fenomeni va, in sostanza, sempre ricordato che il diritto alla salute costituisce un diritto fondamentale, inviolabile, avente un nucleo minimo collegato alla dignità umana.
La realizzazione di tale diritto, costituzionalmente tutelato, richiede una cooperazione sul piano culturale fra diversi attori sociali, ivi compreso il mondo della giurisdizione, che deve farsi più consapevole delle specifiche difficoltà, anche organizzative, delle professioni sanitarie ed altresì sul piano politico e sociale, un continuo affinamento delle scelte organizzative e gestionali, che sappia mantenere alti i livelli del servizio erogato pur in una realtà di risorse finanziarie scarse ed ormai decrescenti.
Una conferma circa la natura fondamentale di tale diritto si trova nell’orientamento della Suprema Corte di Cassazione (sezione lavoro; ordinanza, 03-04-2019, n. 9272), secondo cui l’erogazione gratuita di una terapia a carico del servizio sanitario nazionale presuppone che il giudice di merito abbia verificato l’appropriatezza e l’efficacia della terapia.
Per la Cassazione, “In tema di cure tempestive non erogabili dal servizio pubblico, il diritto alla fruizione di prestazioni sanitarie a carico del servizio sanitario nazionale deve essere riconosciuto contemperando l’elevato livello di protezione della salute umana, garantito dalla Costituzione e dall’art. 35 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, con i condizionamenti derivanti dalle risorse finanziarie di cui lo Stato dispone per organizzare il servizio sanitario in favore di un numero quanto più ampio possibile di fruitori, dovendo dunque essere accertato sulla base dei seguenti criteri: a) le prestazioni richieste devono presentare, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, a livello individuale o collettivo, validate da parte della comunità scientifica; b) l’appropriatezza, che impone che vi sia corrispondenza tra la patologia e il trattamento secondo un criterio di stretta necessità, tale da conseguire il migliore risultato terapeutico con la minore incidenza sulla qualità della vita del paziente; c) l’economicità nell’impiego delle risorse, che richiede di valutare la presenza di altre forme di assistenza, meno costose ma di efficacia comparabile, volte a soddisfare le medesime esigenze ed erogabili dalle strutture pubbliche o convenzionate (nella specie, la Suprema corte ha confermato la sentenza che aveva escluso il diritto del ricorrente all’erogazione gratuita della terapia Dikul, o Ric, una terapia d riabilitazione motoria inventata da un trapezista vittima di problemi neurodegenerativi, basandosi sulle risultanze peritali, le quali avevano escluso sia la presenza di evidenze scientifiche atte a comprovare una maggiore efficacia oggettiva di tale metodo riabilitativo rispetto ai trattamenti Asl, sia che tale metodo avesse in concreto apportato al ricorrente benefici apprezzabilmente migliori rispetto a quelli ottenibili dal servizio sanitario nazionale).

Ossia la realtà vitale della necessità di cure prevale sulla forma giuridica delle procedure di diritto amministrativo, previste per l’erogazione della prestazione sanitaria, anche a fini di contenimento della spesa e di analisi costi-benefici.
Ciò conferma altresì la natura di diritto soggettivo perfetto della situazione soggettiva di cui è titolare l’individuo bisognoso di cure nei confronti della pubblica amministrazione tenuta ad erogare il servizio.
Natura già riconosciuta dalle sezioni unite che, in più occasioni[3] hanno affermato che la controversia promossa da un privato nei confronti di una Asl, al fine di ottenere il rimborso delle spese terapeutiche sostenute, senza la preventiva autorizzazione, presso strutture sanitarie, anche private, nazionali o estere, è devoluta al giudice ordinario proprio in virtù di tale natura.
In motivazione la Suprema corte, definendo la consistenza della situazione soggettiva in discorso, ne individua il nucleo irriducibile nel «diritto alla salute come ambito inviolabile della dignità umana», precisando che esso va coniugato «ragionevolmente» con esigenze concernenti la sfera della collettività derivanti dalle risorse finanziarie disponibili per organizzare il servizio sanitario. Tale ragionevole coniugazione è ricavata dalla corte dai principî affermati nella giurisprudenza costituzionale secondo cui, da un lato, la tutela del diritto alla salute, nel suo aspetto di pretesa all’erogazione di prestazioni, «non può non subire i condizionamenti che lo stesso legislatore incontra nel distribuire le risorse finanziarie delle quali dispone» e, dall’altro, le «esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana»[4].
Il necessario temperamento con altri interessi, pure costituzionalmente protetti, non può valere, pertanto, a privare il primario e fondamentale diritto alla salute della consistenza di diritto soggettivo perfetto, per cui del tutto irrilevanti sono la mancanza di preventiva autorizzazione da parte dell’autorità amministrativa e l’eventuale discrezionalità tecnica nell’apprezzamento dei motivi di urgenza[5].
Questo concetto merita di essere opportunamente stigmatizzato, poiché la formulazione compiutane nella giurisprudenza, sia costituzionale sia di legittimità, lascia al prudente apprezzamento del giudice del merito la calibratura concreta, nei singoli casi, del contemperamento fra l’elevato livello di protezione spettante al diritto alla salute e i condizionamenti derivanti dalle risorse finanziarie disponibili per garantire il servizio ad un’ampia platea di fruitori.
Nel caso esaminato dalla decisione che si riporta, il giudice del merito ha fatto prevalere i condizionamenti di ordine finanziario, basandosi su risultanze peritali che escludevano una maggiore efficacia oggettiva del metodo riabilitativo prescelto dal titolare del diritto alla salute, tanto per l’assenza di evidenze scientifiche, quanto in considerazione del fatto concreto che la scelta del titolare del diritto non avesse apportato benefici apprezzabilmente migliori rispetto a quelli ottenibili se si fosse sottoposto ai trattamenti erogati dall’Asl.
La calibratura del livello di protezione del diritto alla salute, pertanto, non è avvenuta semplicemente allo stato delle evidenze scientifiche, quali potevano essere apprezzate al momento della scelta compiuta dall’interessato[6], ma sulla base di una valutazione peritale degli esiti delle cure e, quindi, posteriormente rispetto a quella scelta e senza considerarne il profilo in termini di legittima aspettativa e affidamento del titolare del diritto[7], aspetto criticabile ma di non poco conto nel momento in cui si ritiene irrilevante la preventiva autorizzazione da parte dell’autorità amministrativa.
Il tema è indubbiamente complesso, potendosi ritrovare in ogni singolo caso concreto sfaccettature peculiari e discrasie suscettive di rendere inefficiente l’ausilio dei criteri, riassunti nella massima in epigrafe, cui il giudice di merito deve riferirsi per stabilire se la tutela del diritto alla salute debba estendersi al rimborso delle spese affrontate per trattamenti sanitari non erogati dal servizio sanitario nazionale.
Tuttavia va osservato che la definizione univocamente accettata, nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità, del diritto alla salute come «ambito inviolabile della dignità umana»[8] rende imprescindibile una ponderazione ermeneutica che, nel sillogismo della decisione giudiziale, faccia ergere tale diritto a premessa maggiore, che si collega a quella minore, costituita dalle disponibilità finanziarie, attraverso un enunciato che valorizzi comunque la funzione servente di queste ultime rispetto al diritto[9].
La rimessione al giudice di merito, oltre tutto con l’inevitabile intervento di ausiliari tecnici, della valutazione in concreto della spettanza o meno del diritto al rimborso delle spese per cure tempestive non erogabili dal servizio sanitario nazionale, presuppone che, ai fini della ricerca della giusta soluzione nel singolo caso, vengano tenuti nel dovuto conto, non solo i dati tecnici attingibili attraverso l’opera degli ausiliari del giudice (evidenze scientifiche sulla validità delle cure, nonché effetto che le stesse hanno prodotto, comparato con quello che si sarebbe ottenuto optando per altre cure erogate dal servizio sanitario), ma anche le motivazioni soggettive, apprezzabili unicamente dal giudice senza intermediazioni tecniche, della scelta compiuta dal titolare del diritto alla salute.
Fino a che punto tali motivazioni soggettive possano rilevare è tuttavia problematico: rileverà l’esame della concreta situazione sociale e psicologica, valutabile in termini obiettivi, nella quale si trova il soggetto che deve effettuare la scelta terapeutica, non la sua disposizione d’animo puramente soggettiva.
Diversamente, senza una considerazione concreta del soggetto destinatario della cura, verrebbe meno il presidio costituzionale che la giurisprudenza di legittimità riconosce a tale diritto definendolo ambito inviolabile della dignità umana.

La giurisprudenza costituzionale
La giurisprudenza, e non solo costituzionale, come sottolineato in dottrina[10], ha letteralmente aperto una nuova stagione di consolidamento del diritto alla salute a partire dalla fine degli anni Settanta.
In particolare, con la sentenza n. 88 del 1979 la Corte costituzionale ha ben evidenziato, come ben ritenuto da Alpa, quale sia il contenuto del bene afferente alla salute e tutelato dall’art. 32 Cost., “non solo come interesse della collettività, ma anche e soprattutto come diritto fondamentale dell’individuo”, che “si configura come un diritto primario ed assoluto, pienamente operante anche nei rapporti tra privati”, da ricomprendere “tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione”[11].
Siffatta autentica riformulazione, o meglio rivalutazione del diritto in questione, deve essere connessa contestualmente al riconoscimento della diretta risarcibilità del «danno alla salute», “considerato in modo autonomo rispetto alle conseguenze economiche del fatto lesivo”.
Infatti, nella pronuncia surriferita, si afferma che non potendosi dubitare della «sussistenza dell’illecito, con conseguente obbligo della riparazione, in caso di violazione del diritto stesso», ne deriva che « la indennizzabilità non può essere limitata alle conseguenze della violazione incidenti sull’attitudine a produrre reddito, ma deve comprendere anche gli effetti della lesione al diritto, considerato come posizione soggettiva autonoma indipendentemente da ogni altra circostanza e conseguenza ».

Ora, pur ritenendo che gli orientamenti giurisprudenziali citati siano apprezzabili, in tema di risarcibilità del danno biologico e di distinzione tra esso ed il danno morale, è opportuno ricordare che non sono mancate autorevoli opinioni dottrinarie critiche su questa giurisprudenza e meritevoli di essere richiamate.
Massimo Luciani ha notato, ad esempio, che nella giurisprudenza costituzionale in materia non mancano contraddizioni[12].
Infatti, “mentre la sentenza n. 88 del 1979 aveva affermato la diretta risarcibilità del danno alla salute … la sent. n. 202 del 1981 … muovendo da una lettura assolutamente riduttiva dell’art. 32 cost … ricollegò ancora una volta il ristoro del danno subito alle conseguenze di ordine patrimoniale”.
L’autore citato ricorda anche le sent. n. 132 del 1985, 184 del 1986 e 561 del 1987.
In ogni caso, con lenta evoluzione si giunse al risultato per cui quando vengono in considerazione situazioni soggettive costituzionalmente garantite, come specificamente quella inerente alla salute, è da escludersi una scelta discrezionale del legislatore circa l’adozione di trattamenti differenziati per la tutela risarcitoria di situazioni differenti.
Infatti, la garanzia costituzionale del diritto alla salute come fondamentale non può non implicare l’obbligo del legislatore di apprestare una piena tutela risarcitoria.
Sulla base di tale argomentazione la Corte sarebbe giunta ad individuare una piena autonomia del c.d. danno biologico riconducendo la sua tutela al combinato disposto degli arti. 2043 c. c. e 32 Cost. conseguenze d’ordine patrimoniale”.
Ora, la sent. n. 184/1986 “è il primo significativo passo in questo senso… La Corte afferma che il risarcimento del danno biologico si fonda non sull’art. 2059 c. c., ma sull’art. 2043 c. c. in combinato disposto con l’art. 32 Cost. (nello stesso senso, poi, sent. n. 561 del 1987). Il risarcimento ex art. 2043 c. c. è peraltro considerato dalla Corte la più modesta delle provvidenze a tutela di un diritto così fondamentale come la salute, sicché l’eliminazione o la limitazione della tutela risarcitoria si risolverebbe in pregiudizio del diritto, pregiudizio assai grave, perché il danno alla salute incide direttamente sulla capacità del danneggiato di compiere le “attività realizzatrici della persona umana” garantite dalla Costituzione”.
E’ importante sottolineare ancora il ruolo che la Corte costituzionale è chiamata a svolgere nel controllo sulla attuazione della Costituzione da parte del legislatore ordinario.
E ancora in tal ambito essa ha ribadito nella successiva sent. n. 356 del 1991, che “la considerazione della salute come bene e valore personale, in quanto tale garantito dalla Costituzione come diritto fondamentale dell’individuo, nella sua globalità e non solo quale produttore di reddito, impone invece di prendere in considerazione il danno biologico, ai fini del risarcimento, in relazione alla integralità dei suoi riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività, le situazioni e i rapporti in cui la persona esplica se stessa nella propria vita: non soltanto, quindi, con riferimento alla sfera produttiva, ma anche con riferimento alla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva e ad ogni altro ambito e modo in cui il soggetto svolge la sua personalità, e cioè a tutte “le attività realizzatrici della persona umana”.
È opportuno anche non tralasciare che la Cassazione ha evidenziato la poliedricità del contenuto del danno biologico, pure se con una giurisprudenza non sempre costante: il danno infatti può riguardare tanto la sfera personale del danneggiato quanto quella interpersonale, estesa cioè alle relazioni della persona offesa con i terzi.
In alcune sentenze più recenti la Corte costituzionale, pronunciandosi su alcune questioni aventi ad oggetto norme del testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, ha ulteriormente specificato “il principio costituzionale della integrale e non limitabile tutela risarcitoria del diritto alla salute.”
In tali pronunce il Giudice delle leggi ha, infatti, sottolineato la non coincidenza tra la garanzia costituzionale del diritto alla salute, che si risolve nella tutela del danno biologico in sé considerato, e la copertura assicurativa prevista dal sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
Del resto, tale copertura assicurativa, pur non avendo ad oggetto esclusivamente il danno patrimoniale in senso stretto, non giunge a garantire il risarcimento del danno biologico nella sua integralità, poiché le indennità previste dalla legge «sono collegate e commisurate esclusivamente ai riflessi che la menomazione psico- fisica ha sulla attitudine al lavoro dell’assicurato, mentre nessun rilievo assumono gli svantaggi, le privazioni e gli ostacoli che la menomazione comporta con riferimento agli altri ambiti … in cui il soggetto svolge la sua personalità nella propria vita»[13].

Le posizioni giuridiche tutelate: la salute come libertà
L’art. 32 della Costituzione recita, come è noto e come già ricordato, “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Ordunque, da codesta disposizione costituzionale si sono enucleate, nel corso della evoluzione giurisprudenziale e dottrinale, una serie notevole di situazioni giuridiche soggettive, tra loro neppure omogenee.
Ognun vede come tale disposizione abbia costituito “la copertura costituzionale di diversi diritti” che vanno raggruppati (o ricondotti) sotto l’etichetta «diritto alla salute».
Proprio la eterogeneità delle situazioni giuridiche soggettive, “la complessità delle loro fisionomie”, nonché “la differenza dei beni oggetto di quelle”, impongono un’analisi dettagliata.
Ora, dall’articolata struttura del «diritto alla salute» si evince – come accennammo nella prima parte – “un nucleo di diritti a prestazioni positive” e “un nucleo di diritti di libertà”.
Prima di svolgere ulteriori approfondimenti sulle singole situazioni giuridiche, vale la pena ricordare brevemente le differenze sostanziali fra le due differenti strutture normative, poiché in ragione di queste ultime le prime troveranno un diverso regime di tutela (e di limiti).
I diritti di libertà (non importa, per le ragioni espresse nella prima parte, la loro diversa origine) hanno lo scopo di «costruire» attorno al loro titolare una “sfera di intangibilità”, comprendono, cioè, una serie di situazioni giuridiche che la scienza del diritto definisce «finali».
Pur dovendo sul tema ancora ricordare che la dottrina negli ultimi decenni ha cercato di ridefinire la locuzione “libertà negative”, riferita ai diritti di libertà, chiedendosi se sia ancora utilizzabile “in un ordinamento democratico-liberale a connotato sociale come il nostro”.
Orbene, affinché il titolare del lato attivo del rapporto giuridico goda delle facoltà insite nel singolo diritto di libertà non si rende necessaria alcuna “cooperazione” dal lato passivo del rapporto giuridico stesso.

A ben vedere, questi diritti si qualificano, “secondo una feconda definizione di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, come diritti assoluti, diritti erga omnes. L’assolutezza di un diritto non sta, anche se di rango costituzionale, nella illimitatezza, atteso che diritti illimitati non esistono. Piuttosto si configura come una “situazione giuridica di vantaggio”.
Da tale caratteristica deriva il divieto di interferenza, con il godimento del diritto e dei poteri e le facoltà che derivano dalla sua titolarità, in capo a tutti i soggetti diversi dal titolare attivo del rapporto giuridico (tale divieto è enucleabile da una da una serie di disposizioni penalistiche a tutela della vita e della integrità fisica).
Essi si pongono a difesa, appunto, delle situazioni “finali”, tali in quanto non necessitano dell’attività di nessun altro soggetto per il loro godimento. Il lato attivo di tali diritti si rivolge indistintamente verso tutto ciò che gli è terzo. Le vicende del danno biologico sono indicate in proposito.
Ora, si deve precisare che ciò è vero esclusivamente sul piano del diritto sostanziale, e non sul lato processuale, volto ad assicurare effettiva protezione alla salute come attributo essenziale della persona ed oggetto di libertà, visto che la violazione di tale sfare o semplicemente la sua minaccia richiede sempre per reazione l’attività strumentale del pubblico potere, anzitutto dell’autorità giudiziaria.
Quindi il bene oggetto del tipo di diritti in questione, contemplata dal diritto sostanziale, non può prescindere dall’effettiva tutela, se necessario, per il tramite delle norme del diritto processuale (civile e penale).
Di contro i diritti a prestazione si presentano, secondo la precedente distinzione, strutturalmente diversi, ossia come relativi.
I rapporti giuridici costruiti su tali diritti presentano, per così dire, un lato passivo circoscritto in quanto sono fatti valere esclusivamente nei confronti di soggetti determinati, ai quali si chiede sempre una prestazione (ad es. la pubblica amministrazione). Nella struttura di tali diritti, proprio per l’oggetto che tutelano, non emerge una posizione finale per il titolare del lato attivo del rapporto, ma sempre “una aspettativa”, che per essere soddisfatta necessita della “cooperazione attiva del o dei soggetti individuati dalla norma”.
Per il tramite del quadro concettuale delineato è possibile procedere all’analisi delle singole fattispecie giuridiche, la cui copertura costituzionale è garantita dall’art. 32.
Ora, deve anzitutto notarsi che l’intensa attività ricostruttiva ed ermeneutica, a partire dagli anni settanta, ha ottenuto come risultato l’enucleazione dall’art. 32 di molteplici fattispecie inseribili in quell’alveo che abbiamo definito «libertà di salute».
Questo grazie ad una riflessione giuridica che, pur soffermandosi “sugli ambiti settoriali della sua tutela”, ha sviluppato, alla luce dei principi fondamentali” della Costituzione, non “una prospettiva di conservazione ma di promozione delle condizioni oggettive suscettibili di consentire, attraverso la tutela della salute, l’esplicazione della personalità umana”.
Orbene, ciascuna delle diverse fattispecie concrete è meritevole di autonoma valutazione ai fini di una più esaustiva considerazione della libertà in esame.
Autonoma valutazione che andrà condotta in ordine alle caratteristiche di ogni caso concreto ed in relazione al permanente interesse a non essere costretto od impedito da altri in un certo settore della vita materiale, valutazione che non potrà compiersi se non in relazione all’incidenza del principio personalista sulla fattispecie concreta, per cui alla fine rilevano come costitutive della salute come libertà le essenziali categorie costitutive della persona.
La problematica della tutela della persona umana è una delle più affascinanti dell’universo giuridico. Qui, infatti, il giurista si fa necessariamente filosofo e sociologo alla ricerca di ciò che contrassegna l’essere umano nella sua essenzialità esistenziale e nelle sue mutevoli e plurime relazioni sociali e comunitarie.
E, per contro, il filosofo e il sociologo si fanno necessariamente giuristi, dovendo praticare quell’arte propriamente giuridica che è la ricerca del bilanciamento tra interessi e valori, dovendo risolvere conflitti alla ricerca di un equilibrio che consenta di non perdere la persona umana in totalitarismi o assolutizzazioni ideologici prima ancora che politici[14].
Questo in presenza di due linee di tendenza.
Da un lato, v’è l’evidenza della accelerazione delle trasformazioni subite dai fenomeni sociali non solo sul piano – del tutto scontato – della scoperta scientifica e dell’innovazione tecnologica, ma anche su quello dei giudizi socio-valoriali correnti nel magma sociale.
Dall’altro lato, e forse anche come conseguenza della caratteristica ora segnalata, la presenza di forti e numerose contraddizioni che si aprono nel tessuto sociale e dunque anche nell’assetto di tutela della persona umana.
La portata reale, effettiva della tutela non dipende solo dalle previsioni incriminatrici esistenti ma anche dall’applicazione-interpretazione che di esse fa la giurisprudenza. Così, ovviamente, anche per la tutela della persona umana e della salute. Ebbene, pare incontestabile che in quest’area la giurisprudenza inclini verso una tendenza fortemente espansiva della tutela della persona, specie in rapporto al versante della responsabilità colposa. Il fenomeno è particolarmente evidente negli ambiti della responsabilità per violazioni della sicurezza del lavoro, della responsabilità per reati stradali e, in una certa misura, anche per la responsabilità medica.
È evidente allora che la distinzione tra le differenti libertà «riconosciute positivamente può farsi solo in base alla loro «proiezione o direzione», cioè, ancora una volta, secondo il contenuto concreto che le caratterizza.
Si parla anche di processi interpretativi di precomprensione che condizionano la giurisprudenza, in relazione alla crescente centralità riconosciuta alla salute ed alla persona umana.
Di conseguenza, “anche per la libertà di salute … occorre individuare quale sia il “settore della vita materiale” rispetto al quale il soggetto vanti un interesse all’astensione altrui”.
Perciò, “l’analisi dell’evoluzione della nozione di salute e delle relative forme di tutela, ha già evidenziato la progressiva estensione, in via interpretativa, del bene-salute ad ambiti ulteriori rispetto alla mera assenza di malattia, nonché il superamento della visione “produttivistica” o “economicistica” che ne aveva inizialmente orientato le forme di promozione e tutela da parte dei pubblici poteri”.
Questo, per portare un esempio, pure con specifica attenzione al superamento della “c.d. monetarizzazione del rischio relativo alla salute” sui luoghi di lavoro, “fondata sull’erogazione di una prestazione compensativa e su un’operatività limitata ai rapporti con l’ente previdenziale”.
Quanto alla sicurezza e salute del lavoratore, si può ipotizzare che qui venga in gioco – sullo sfondo – un valore sovrastante la stessa vita e incolumità e dotato di una sua forte vocazione “totalitaria”: ciò che pare spinga verso una tutela in qualche modo “incondizionata” è il valore della dignità che è sempre messo in gioco nel rapporto di lavoro subordinato e che tende a sottrarsi ad ogni possibile bilanciamento con confliggenti interessi economico-produttivi attinenti all’impresa. Quanto, poi, alla materia stradale e medica, il discorso sulla inconsapevole precomprensione che spinge la giurisprudenza alla dilatazione della tutela, si fa ancor più sottile e ipotetico.

Occorre interrogarsi profondamente sulla cultura del rifiuto del rischio inerente certe attività che porta ad una dilatazione del diritto della responsabilità civile e penale, in stretta connessione con la pretesa di tutelare la salute (come libertà) a tutta oltranza.
A tali fondate perplessità sulla cultura di rifiuto del rischio deve riportarsi il ripetuto tentativo di limitazione della tutela risarcitoria e della responsabilità medica prima col decreto Balduzzi e poi con la riforma Gelli-Bianco (all’opposto una tutela differenziata volta ad espandere la responsabilità in misura forse non sempre proporzionata si è avuta con la recente disciplina in tema di circolazione stradale).
Ma, al di là di questo, v’è un nesso fra salute ed altre situazioni soggettive che rileva per comprendere la valenza di tale concezione della libertà di salute.
Si tratta di focalizzare in che modo si atteggi quella nozione di salute, nel momento in cui venga assunta come contenuto di un diritto di libertà e quali implicazioni comporti quest’ultimo, anche con riguardo ai suoi nessi con altre situazioni giuridiche soggettive.
A tal riguardo deve notarsi che l’ambito materiale della salute, il suo oggetto, deve essere individuato ricorrendo non solo e non tanto ad un “concetto statico”, ovvero “la salute come «stato di salute» del soggetto in un determinato momento”, ma soprattutto, come si è surriferito, ad uno «dinamico», cioè “la salute come un processo in continuo divenire”.
Peraltro, si è visto che il concetto di «tutela della salute» si è esteso al punto da ricomprendere, ormai in modo prevalente, misure di natura preventiva.
Ognun vede come tale impostazione faccia naturalmente leva su un concetto affatto «dinamico» del bene in parola.
Infatti, questa distinzione muove dai diversi modi in cui può «guardarsi» il bene salute “ritenuto meritevole di tutela”, ferma restando l’unitarietà della nozione in sempre mutevole rapporto con la sfera materiale ad essa sottesa.
Beninteso, tale precisazione non scalfisce assolutamente la struttura della libertà di salute, che continua a configurarsi, proprio in quanto libertà, come “una posizione giuridica soggettiva statica”; è il suo contenuto a specificarsi in relazione ad una realtà materiale in divenire, non la struttura del diritto.
Ora, la considerazione del profilo statico della salute non deve far intendere che “la salute sia, sul piano esistenziale e contenutistico, «cristallizzata», intrinsecamente statica, dunque “inidonea ad esprimere quei “processi” che si sono ricondotti al profilo dinamico della salute ma solo che essa, in taluni casi, viene presa in considerazione dall’ordinamento in modo puntuale, così da essere il parametro rispetto al quale poter valutare le eventuali alterazioni, in melius o in peius, della condizione del soggetto, alterazioni che andranno valutate in un’ottica di complessivo bilanciamento delle situazioni giuridiche di volta in volta presenti nella fattispecie.
Quando, viceversa, è preso in considerazione l’aspetto dinamico della salute, “viene in rilievo una condizione di equilibrio psicofisico che può peggiorare, rimanere tale o migliorare, con riguardo a quella che è la percezione del soggetto o la valutazione tecnica offerta dalla scienza medica”.
Perciò, “rispetto all’intera sfera materiale così considerata, può di conseguenza ritenersi che il godimento della corrispondente libertà riguarda tanto il conservare quanto che il modificare la propria salute”.
Orbene, la libertà di salute, per il suo titolare attivo, corrisponde alla pretesa “a che tutti si astengano dal limitare o condizionare la propria condizione psicofisica attuale ed il suo divenire, senza la frapposizione di ostacoli nelle scelte che riguardano il se e il come godere della propria salute” (con prevalenza quindi dell’aspetto statico della predetta libertà); mentre “per il titolare del lato passivo (che coincide con tutto ciò che è estraneo al rapporto giuridico «assoluto») la libertà (di salute) richiede un mero non facere” (con rilevanza allora della sfera materiale , dinamica, della salute medesima soggetta a cambiamento costante nell’inerzia del titolare).
Dunque, va nuovamente precisato che oltre all’aspetto « positivo», insito in ogni libertà come pretesa verso altri ad una condotta di rispetto, anche per nella salute come libertà è presente un aspetto «negativo» e, se si vuole, un profilo per così dire «neutro», che si può esprimere in un contegno d’inerzia del titolare della libertà.
Di conseguenza, il soggetto potrà eventualmente anche astenersi dal realizzare comportamenti attivi tesi alla prevenzione e alla conservazione del proprio stato di salute, come la cura di malattie o il miglioramento del proprio benessere psicofisico.
In altre parole, il godimento di siffatta libertà può esprimersi anche “nel mettere a repentaglio il proprio stato di salute”, così come nel rifiutare il perseguimento terapeutico di un diverso «livello» di salute, seppur nei limiti (come si vedrà) posti dalla stessa disciplina costituzionale.

Salute ed integrità fisica
Ora, occorre far luce su altro importante argomento, relativo alle relazioni fra le “nozioni di salute e di integrità fisica”, non tralasciando “che solo la prima è menzionata espressamente nel testo costituzionale, mentre la seconda è tutelata dalla legislazione ordinaria, ed in particolare dalle norme dei codici civile e penale che vi fanno esplicito o implicito riferimento” (ad es. le norme che puniscono penalmente il delitto di lesioni personali).
A ben vedere, le espressioni «salute» e «integrità fisica» non sottendono significati identici, ciò è dimostrato dalla circostanza per cui a fronte di una, più volte evidenziata, evoluzione del contenuto della prima sta un pressoché invariato contenuto della seconda.
Infatti, “la salute non può esaurirsi nell’integrità fisica” (essendo qualcosa di più ce la ricomprende) e all’inverso la tutela dell’integrità fisica non sempre è favorevole al diritto alla salute (come nel caso degli interventi demolitivi).
Ad esempio, l’integrità fisica, a differenza della salute, “non comprende l’aspetto psichico”, poiché risulta affatto “inidonea ad esprimere fenomeni e condizioni, concernenti il complessivo equilibrio psicofisico della persona, che non trovino diretta causa od effetto nella sfera corporea          del soggetto”.
Ci si deve guardare – in conclusione – dalla identificazione del diritto alla salute con il diritto all’integrità fisica.
Il diritto alla salute è qualcosa di più.
Purtuttavia, “escludere la completa identificazione tra salute e integrità, non può condurre a ritenere che la salute “esuli dalla nozione di integrità fisica” e che i loro legami siano, riduttivamente, qualificabili al più in termini di “stretti rapporti di parentela” come fra nozioni del tutto autonome.
Infatti si tratta di nozioni interconnesse e sovrapponibili.
Dunque, “a ben guardare, se è vero che la salute non si esaurisce nell’integrità fisica, e che l’integrità fisica non coincide con la salute (ricevendo tutela anche qualora non entri in gioco la salute del soggetto), è parimenti certo che esistono spazi di parziale sovrapposizione fra le due nozioni, tutte le volte in cui l’integrità rilevi per la salute del soggetto”.

Infatti, “in questi casi, l’integrità fisica rientra nella nozione di salute: il concetto di integrità esprime, cioè, una qualificazione dello stato di salute” “in un dato momento”.
Di conseguenza, è impreciso “escludere completamente il profilo dell’integrità fisica dalla libertà di salute, poiché il godimento di quest’ultima non può circoscriversi ai processi che concernono lo stato di salute della persona, senza che vi sia la contestuale tutela dell’integrità cui lo stato di salute accede”.
Orbene, “la sovrapposizione tra integrità e salute è del resto evidente nei casi in cui la lesione dell’integrità fisica giunga, per intensità o qualità, a modificare la normale funzionalità dell’organismo o ad alterare l’equilibrio psicofisico della persona, anche solo in ragione di una modificazione anatomica”.
Considerazioni e valutazioni sull’ intreccio fra salute ed integrità fisica connotano le scelte di curarsi o di non curarsi.
Esse, infatti, incidono immediatamente sul divenire delle condizioni di salute, ma si riflettono in vario modo sull’integrità fisica della persona.
Vi sono casi, come gli interventi demolitivi, dove l’incidenza sul diritto all’integrità fisica è necessaria proprio al fine di tutelare il diritto alla salute.
Lo stesso può dirsi nel caso, assai più banale, del prelievo ematico.
Particolari problemi sono posti nel caso di prelievi ematici coattivi ordinati dall’A.G. a scopo probatorio nel processo penale o nei processi per l’accertamento della filiazione.
L’integrità fisica è parte del diritto alla salute ma essa è tutelata come diritto alla disposizione del proprio corpo, posizione giuridica di cui possono darsi due letture, una di stampo più liberale, volta a garantire la persona e l’individuo (vietandole atti dannosi ma garantendole uno spazio limitato di libertà di disposizione), l’altra di stampo solidaristico-statualistico (collegata soprattutto all’interesse pubblico a vietare atti di disposizione del proprio corpo), volta a privilegiare interessi collettivi.
Su questo assetto si sovrappone la chiara scelta del costituente che, pur ritenendo la salute interesse della collettività, si spinge a vietare trattamenti sanitari obbligatori, salvi i casi previsti dalla legge che implicano la tutela della stessa salute del soggetto sottoposto al trattamento e non si possono giustificare per ragioni di sicurezza , ordine pubblico, pace sociale; scelta quella legata al divieto di trattamenti sanitari obbligatori che implica poi l’adozione del principio del consenso informato e del diritto a rifiutare le cure.
In tal senso il diritto alla salute diviene parte di un più ampio diritto all’autodeterminazione ed alla dignità della persona, che trova riscontro anche in altre disposizioni costituzionali come l’art. 13 Cost. (che riguarda la libertà personale) e l’art. 23 Cost. (che riguarda le prestazioni imposte).
In questo quadro, “la definizione. del contenuto della libertà di salute può aiutare l’interprete” a far ulteriore chiarezza, ossia ad individuare “quali fattispecie siano riconducibili alla tutela costituzionale dell’art. 32 Cost. e quali, invece, siano da ricomprendere in altre libertà costituzionalmente garantite, ed in particolare nella libertà personale (art. 13 Cost.) e nella libertà morale (art. 23 Cost.)”.
Vi è quindi un’evoluzione giuridica del concetto di salute fra la nozione precostituzionale, codicistica, legata al corpo, e la nozione costituzionale, legata alla persona, in un nesso complesso, che mette al centro l’autodeterminazione del soggetto, la tutela della dignità della persona umana, oggetto di un complesso bilanciamento nella vita di relazione dipendente dai contesti e dalle altrui posizioni giuridiche.
Quando, invece, la libertà di autodeterminazione rimane all’interno dello stesso soggetto, paradossalmente le cose si complicano non poco. E ciò perché è qui che quella libertà mostra tutta la sua volontà di potenza e di espansione fino a diventare una volontà di autodistruzione. E qui si consuma una drammatica contraddizione dei tempi nostri: quel principio personalistico, di cui la libertà di autodeterminazione è suprema espressione, rischia di convertirsi in un nichilismo individualistico secondo il quale la persona – contraddittoriamente – si realizza compiutamente nell’estremo gesto del suo totale annientamento.
Si tratta delle tematiche delicate non tanto del fine vita o del testamento biologico, forme di tutela indispensabili nella modernità giuridica, quanto del tema controverso delle pratiche eutanasiche che merita, al di là degli equilibri raggiunti di recente dalla giurisprudenza costituzionale, un serio e sereno intervento legislativo.
Ma, senza arrivare a tanto ossia ad affrontare il controverso tema dell’eutanasia con posizioni precostituite, c’è senz’altro una condizione esistenziale che impone fin da oggi una considerazione – anche legislativa – differenziata e privilegiata della libertà di autodeterminazione: questa condizione è quella della malattia, del dolore e della sofferenza.
Una condizione che mette in gioco non già l’esclusiva volontà di autoannientamento come espressione massima di libertà, ma che piuttosto richiama in campo un valore primigenio e fondativo della stessa persona umana: la dignità. Dinanzi alla malattia, al dolore e alla sofferenza di una vita che perde i suoi caratteri di umanità, è la dignità a reclamare che la tutela della persona si realizzi con la libertà della rinuncia a vivere. E la dignità, questa sì costituisce un contenuto vero, certo e sommo del principio personalistico, a differenza della indifferenziata volontà di autoannientamento. E, senza voler far dire a Papa Francesco più di quanto volesse dire, meritano di essere ricordate le sue parole in proposito, come sempre rivoluzionarie: «… oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo ma talora non giovano al bene integrale della persona» (16 novembre 2017).
La dignità è una posizione giuridica affine alla salute come libertà.
Basti pensare che v’è un numero crescente di fattispecie penali che non solo sono imperniate esclusivamente sull’offesa alla dignità, ma in cui quest’ultima è anche costruita come offesa alla dignità dell’essere umano come tale, prescindendo dunque dalla presenza di una persona fisica determinata destinataria dell’offesa.
Vengono qui in gioco reati sostanzialmente privi di un contenuto offensivo a beni materiali ma che trovano il loro ubi consistam valoriale esclusivamente nella “negazione” ideale del valore culturale della dignità umana e che mirano a tutelare le tradizionali finalità delle professioni medico-scientifiche, una sorta di umanesimo medico.
Si pensi, ad esempio, ai reati di clonazione umana, di surrogazione della maternità, di traffico d’organi e qui ci si può fermare.

Diritto alla salute come diritto a prestazione
Lo Stato sociale poi al suo centro ha il diritto alla salute come diritto a prestazione sanitaria.
Santi Romano ha elaborato una teoria del diritto a prestazioni amministrative.
Le prestazioni sono il complesso dei fini sociali che gli enti pubblici debbono proporsi con una quantità di istituti uno diverso dall’altro che connotano da sempre la complessità di questa materia.

Il diritto alla salute quando rivolto all’amministrazione si traduce nel diritto alle cure a carico della collettività o comunque a costi limitati per l’utenza.
Ciò impone al legislatore di intervenire per creare un apparato amministrativo che possa rendere effettiva questa situazione giuridica. L’analisi di tale apparato è di solito rinvenibile nella trattatistica specialistica di diritto sanitario[15].
Ciò comporta che la tutela della salute non può essere lasciata al solo mercato privato che non può da solo eliminare le disparità economiche nel godimento delle cure sanitarie.
L’assistenza pubblica tuttavia può essere diretta, ossia può consistere nella creazione di un apparato pubblico in grado di fornire assistenza agli utenti, ovvero indiretta, con l’intervento dei privati , a fianco della struttura pubblica, a carico, totale o parziale della collettività.
A ciò si affianca poi il mercato della libera professione a sua volta costituzionalmente tutelato dall’art. 4 e 35 e dall’art. 41 Cost. come libertà professionale ed economica.
A tenore dell’art. 32 deve intendersi che il sistema sanitario nazionale sia un compito essenziale ed irrinunciabile della pubblica amministrazione, che il sistema sanitario debba essere dominato da finalità pubblicistiche orientate alla tutela della persona umana, che tuttavia la struttura pluralista del nostro Stato ordinamento non possa non affiancare il privato al pubblico, talvolta anche assumendosene gli oneri, come accade nel c.d. privato convenzionato o accreditato.
Ciò si accompagna alla centralità di una consolidata struttura pubblica a partire dalla citata legge n. 833 del 1978 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale.
Prima di allora l’igiene era distinta dalla salute e la salute dall’ambiente e le prestazioni sanitarie erano erogate da una congerie di enti che applicavano disposizioni particolari.
Servizio sanitario nazionale universalistico significa rispetto del diritto di uguaglianza sancito dalla Carta un diritto impensabile senza la corrispondente tutela del diritto alla salute.
Il diritto alla salute in questo quadro è il frutto di un’opera complessa di dialogo fra tutti i formanti dell’ordinamento: legislativo, esecutivo e giudiziario.
Talvolta il legislatore segue il giudice talaltra il bilanciamento continuo degli interessi operato dalla giurisprudenza riceve una spinta innovativa dal legislatore.
La difficoltà di garantire un corretto equilibrio tra i diversi interessi coinvolti nell’erogazione delle prestazioni sanitarie – il diritto dei pazienti ad avere prestazioni qualitativamente e quantitativamente sempre migliori , esercitando il diritto di scegliere il miglior operatore , l’esigenza della pubblica amministrazione di garantire tale diritto, nel rispetto delle disposizioni e dei vincoli di finanza pubblica ed assicurando il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione ed, infine, l’interesse degli operatori sanitari privati di operare in mercato efficiente e contendibile – ha indotto il legislatore a proporre nel tempo modelli diversi di organizzazione dei servizi sanitari tutti caratterizzati d profili critici sia di ordine giuridico che di ordine economico.
Il modello originariamente previsto dalla legge n. 833 del 1978 era integralmente pubblicistico, riservando allo Stato, in via prioritaria e pressoché monopolistica, l’erogazione delle prestazioni sanitarie.
Il modello era il frutto della storia, era la prima volta che si creava un Servizio sanitario Nazionale, ciò non poteva non vedere al centro, le neonate istituzioni sanitarie locali.
Tale modello era rispondente ad una certa concezione dello Stato del benessere, concezione storica ed ideologica, incentrata sul servizio pubblico, gestito in via diretta dalla pubblica amministrazione.
La legge prevedeva un regime convenzionale per la diagnostica strumentale ed i laboratori di analisi, sempre nel caso in cui la struttura pubblica non fosse in grado in un termine certo (tre giorni poi elevati a quattro) di soddisfare la richiesta di prestazione.
Un analogo regime – convenzionale – era previsto per le prestazioni riabilitative.
Il rapporto fra USL e centri privati era basato su una concessione di pubblico servizio[16], l’accesso ai centri privati richiedeva un’autorizzazione della USL.
Il regime concessorio era legato a pianificazioni e programmazioni regionali che miravano ad includere nella rete pubblicistica del SSN tutte le istituzioni sanitarie private in modo progressivo, in una sorta di visione panpubblicistica.
In questo quadro la posizione giuridica soggettiva dell’operatore sanitario privato rispetto alla pubblica amministrazione era un interesse legittimo e lo stesso diritto di scelta del cittadino era depotenziato e reso dipendente dalla volontà della struttura pubblica.
Con il decreto legislativo n. 502 del 1992 si introduce il principio di libera scelta dell’assistito e si passa dal sistema delle convenzioni al sistema dell’accreditamento che è solo un previo accertamento dell’esistenza di requisiti tecnologici, strutturali ed organizzativi minimi per l’esercizio dell’attività sanitaria, per evitare abusi di mercato si definiscono anche i sistemi di remunerazione.
La nuova disciplina configura un sistema concorrenziale, nel quale pubblico e privato erogano le stesse prestazioni, hanno da rispettare i medesimi requisiti minimi e soggiacciono a tariffe eque.
L’accreditamento è stato definito dalla giurisprudenza costituzionale[17] come ‘operazione da parte della p.a. di riconoscimento del possesso da parte di un soggetto privato di determinati specifici requisiti (c.d. standard di qualificazione) che si risolve nell’iscrizione in un elenco dal quale gli assistiti, utenti delle prestazioni sanitarie, possono attingere per ottenerne l’erogazione”.
Vi è un diritto all’accreditamento[18], senza margini discrezionalità per la p.a., al limite presente nell’atto di indirizzo e coordinamento emanato previa intesa in Conferenza Stato Regioni.
L’accreditamento è il presupposto della libera scelta dell’assistito. La struttura accredita è sottoposta al controllo ed alla vigilanza della p.a.
Sono possibili atti di autotutela, che saranno doverosi trattandosi di requisiti minimi.
Il tutto è ricompreso nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Va ricordato altresì che[19] altro è l’autorizzazione al funzionamento e all’esercizio, con la quale si riconosce al servizio o alla struttura la possibilità di operare, fornendo liberamente ( senza oneri per la finanza pubblica ) al cittadino i servizi e le prestazioni dichiarate, altro è l’accreditamento istituzionale con il quale si riconosce ai soggetti autorizzati la possibilità di fornire prestazioni o servizi che possono essere compensati con l’impiego di risorse pubbliche: (pertanto è legittima la nota dell’azienda sanitaria che si è limitata a dare atto che ad una casa di riposo è stata riconosciuta la possibilità di fornire prestazioni o servizi che possono essere compensati con l’impiego di risorse pubbliche in relazione a sessantatré posti letto e che, risultando tutti occupati i detti posti, non era possibile consentire l’utilizzazione di un’ulteriore impegnativa di residenzialità presso la medesima struttura).

L’autorizzazione è un provvedimento abilitativo semplice che ha un unico oggetto: i requisiti igienico-sanitari della struttura[20].
Il sistema del d.lgs. n. 502 del 1992 ha subito riforme volte a contenerne i costi in ragione delle note vicende connesse alla crisi finanziaria e dei debiti sovrani.
Si introducono, sul piano programmatorio, con varie disposizioni in leggi finanziarie (può citarsi, fra le altre disposizioni, l’art. 8 quinquies del d.lgs. n. 229 del 1999), tetti di spesa, e limiti quantitativi e tipologici, alle prestazioni erogabili a carico della finanza pubblica[21].
Il tetto di spesa non è complessivo ma è riferito a ciascuna struttura sanitaria pubblica e privata accreditata.
La libertà di scelta – a questo punto – non è una libertà sull’an e sul contenuto della prestazione ma è conformata dall’atto programmatorio della Regione.
La programmazione limita il libero mercato ai fini della razionalizzazione e del contenimento della spesa pubblica.
La finalità della pianificazione, in conclusione, è prevalentemente finanziaria[22].
Il ritorno della discrezionalità è chiarissimo, ma essa opera sul piano programmatorio generale e non degli atti amministrativi puntuali.
Il D.P.R. 14 gennaio 1997 poi ha tipizzato le strutture sanitarie:

  1. Strutture di ricovero;
  2. strutture specialistiche in regime ambulatoriale ;
  3. strutture in regime residenziale.

Gli accreditamenti sono funzionali alle esigenze programmatorie delle regioni e dello Stato, ne consegue, in ragione della esistenza di scelte politiche di conformazione di questo ambito di mercato, che l’accreditamento diviene nuovamente un interesse legittimo e non un diritto soggettivo[23].
Con il d.lgs. n. 229 del 1999 all’autorizzazione (per l’esercizio di attività sanitarie) ed all’accreditamento (per l’esercizio per conto del SSN) si sono affiancanti gli accordi contrattuali (per l’esercizio a carico del SSN).
Per gli studi odontoiatrici rilevante è la questione dell’individuazione dei requisiti della “particolare complessità” e del “rischio per il paziente” che implicano la sottoposizione alla procedura autorizzativa e che sono requisiti sui quali non sussiste una chiara normativa secondaria, ciò tuttavia non ha impedito alla giurisprudenza di definire la portata dell’obbligo autorizzatorio.
Va ricordato che per T.a.r. Veneto, sez. III, 14-07-2016, n. 822 : “ai sensi dell’art. 8 ter, 2° comma, d.leg. n. 502/1992, sono soggetti ad autorizzazione «gli studi odontoiatrici attrezzati per compiere procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità o che comportino un rischio per la sicurezza del paziente», di talché deve ritenersi legittimo il diniego di autorizzazione adottato nei confronti di uno studio odontoiatrico, qualora venga accertato che l’attività svolta, lungi dall’essere circoscritta alla mera igiene dentale, comprenda lo svolgimento di attività invasive e pericolose in quanto riconducibili alle cure canalari, alle devitalizzazioni, alle estrazioni dentarie e agli interventi di piccola chirurgia ambulatoriale e che lo stesso titolare, ripetutamente sollecitato dalle autorità sanitarie ad adeguare le studio ai requisiti prestazionali e strutturali richiesti dalla normativa di settore, non si sia mai conformato, tenendo atteggiamenti inerti o dilatori.
Per T.a.r. Veneto, sez. III, 25-06-2015, n. 730: “È legittima la diffida all’esercizio di attività sanitaria di studio odontoiatrico, con la presenza di apparecchiatura di radiodiagnostica, senza l’autorizzazione di cui alla l.reg. Veneto n. 22 del 2002, in quanto l’art. 8 ter d.leg. n. 502 del 1992 dispone che sono soggetti ad autorizzazione gli studi odontoiatrici attrezzati per compiere procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità o che comportino un rischio per la sicurezza del paziente, nonché per le strutture esclusivamente dedicate ad attività diagnostiche, svolte anche a favore di soggetti terzi, nel caso di specie la presenza di tale apparecchiatura costituisce un elemento che esclude che lo studio sia dedicato esclusivamente all’igiene orale o alle normali operazioni volte a conservare il buono stato dell’apparato dentale”.
Va ricordata altresì Corte cost., 29-04-2010, n. 150 secondo cui “È incostituzionale l’art. 3 l.reg. Puglia 23 dicembre 2008 n. 45, nella parte in cui esclude il regime dell’autorizzazione per gli studi medici privati o studi odontoiatrici privati, organizzati in forma singola o associata, in quanto studi professionali o gabinetti medici non aperti al pubblico.
Ancora: per Corte cost., 08-07-2010, n. 245, “È incostituzionale l’art. 1, 1º comma, l.reg. Abruzzo 26 settembre 2009 n. 19, nella parte in cui esonera dall’autorizzazione allo svolgimento dell’attività gli studi privati medici e odontoiatrici che non intendono chiedere l’accreditamento istituzionale, in relazione agli art. 8, 4º comma, e 8 ter d.leg. 30 dicembre 1992 n. 502, secondo i quali «gli studi medici e odontoiatrici ove attrezzati per erogare prestazioni di chirurgia ambulatoriale, ovvero procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità o che comportino un rischio per la sicurezza del paziente» devono essere autorizzati, previa verifica del possesso dei requisiti fissati dal d.p.r. 14 gennaio 1997, recante l’atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private, emanato d’intesa con la conferenza Stato-regioni”.
La giurisprudenza ha quindi generalizzato l’obbligo dell’autorizzazione, escludendovi solo studi professionali odontoiatrici nei quali si pratica l’igiene dentale e poco più.

Conclusioni
L’excursus storico ed interpretativo compiuto cerca di dare conto dell’intreccio che in questa materia si verifica fra diritto costituzionale e diritto amministrativo, fra tutela degli assistiti e problematiche dell’organizzazione del servizio, sicché non è possibile comprendere un piano della disciplina senza tener conto dell’altro.
Il diritto alla salute rivela quindi la sua poliedricità e complessità, ma anche la sua centralità nel definire un modello di società insieme liberale e sociale, improntata al mercato ma con una forte presenza della sfera pubblica, rispettosa dei vincoli finanziari ma anche consapevole che un nucleo minimo del diritto fondamentale deve essere difeso a tutta oltranza dall’ordinamento nei suoi diversi livelli di governo e nelle diverse espressioni del potere pubblico (legislativo esecutivo e giudiziario) che concorrono alla sua protezione.

Note

1.  Alessandra Pioggia Di cosa parliamo quando parliamo di diritto alla salute ? Istituzioni del federalismo n. 2 del 2017.

2.  Sempre A. Pioggia, cit.

3.  Cfr. sent. 27 febbraio 2012, n. 2923, Foro it., Rep. 2012, voce Sanità pubblica, n. 437, e 9 marzo 2007, n. 5402, id., 2008, I, 1114, con nota di M. D’AURIA.

4.  Cfr. Corte cost. 31 ottobre 2008, n. 354, id., 2009, I, 351, con nota di richiami.

5.  V. Cass. 16 novembre 1999, n. 782/SU, id., Rep. 1999, voce cit., n. 448; 26 agosto 1999, n. 8939, id., Rep. 2000, voce cit., n. 491; 10 marzo 1999, n. 117/SU, id., Rep. 1999, voce cit., n. 444; 12 giugno 1997, n. 5297, id., 1997, I, 2075, con nota di F. CARINGELLA.

6.  Per riferimenti sul punto, v. Cass. 22 novembre 2011, n. 24569, id., 2012, I, 810, con nota di richiami, intervenuta sui limiti all’erogazione gratuita dei farmaci componenti il c.d. «multitrattamento Di Bella».

7.  Sulla rilevanza della perdita di chance non patrimoniale, nella valutazione del danno da errore diagnostico in ambito sanitario, cfr. Cass. 9 marzo 2018, n. 5641, id., 2018, I, 1579, con nota di R. PARDOLESI e B. TASSONE.

8.  Sulla dignità della persona come criterio di meritevolezza delle prestazioni assistenziali, cfr. Cass. 20 novembre 2018, n. 29919, id., 2019, I, 904, con nota di M. FERRARI.

9.  Sulle problematiche derivanti dalla riduzione della spesa sanitaria delle regioni, in rapporto alle manovre finanziarie dello Stato e alla necessità di garantire i livelli essenziali di assistenza, cfr. Corte cost. 11 gennaio 2019, n. 6, 23 maggio 2018, n. 103, e 16 aprile 2018, n. 79, ibid., 723, con nota di G. D’AURIA.

10.  G. BIANCO Persona umana e salute, Milano- Padova 2018.

11.  V. G. Alpa, Il danno biologico, Padova , 1993,. p. 35.

12.  LUCIANI, Salute, I, Diritto alla salute – Diritto costituzionale, ad vocem, in Enc. giur., XXVII, Roma, 1991.

13.  Corte cost., sent. 56/199l su tali premesse ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1916 c. c. nella parte in cui consente all’assicuratore di avvalersi, nell’esercizio del diritto di surrogazione nei confronti del terzo responsabile, anche delle somme da questi dovute all’assicurato a titolo di risarcimento del danno biologico. v. anche Corte cost., sent. 485/1991 (su cui v. G. Bianco, Corte Costituzionale e danno biologico:incontri vieppiù ravvicinati, in Foro It., 1993, n. 1, cit), cit., con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità degli artt. 10, commi 6 e 7, e 11, commi I e 2, del d. P. R. 1124/1965, nella parte in cui prevede che il lavoratore infortunato o i suoi aventi causa hanno diritto, nei confronti delle persone civilmente responsabili per il reato da cui l’infortunio è derivato, al risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica solo se e solo nella misura in cui il danno risarcibile, complessivamente considerato, superi l’ammontare delle indennità corrisposte dall’INAIL. In tema v. anche Corte cost., sent. 87/1991, cit., in cui la Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, e 74 del d. P. R. 1124/1965 che il Pretore di Torino aveva sollevato nella parte in cui non prevedono il risarcimento del danno biologico patito dal lavoratore nello svolgimento e a causa delle proprie mansioni. Con riguardo ad un caso di “danno biologico da morte”, in cui la Corte ha escluso che, qualora stata morte immediata della persona offesa, possa aversi risarcibilità del danno biologico iure hereditario, dal momento che vita e salute sono beni giuridici diversi, oggetto di diritti distinti, sicché la lesione dell’integrità fisica con esito letale non può considerarsi una semplice sotto ipotesi di lesione alla salute in senso proprio, la quale implica la permanenza in vita del leso con menomazioni invalidanti” v. Corte cost., sent. 372/1994. Analogamente si è espressa la Cass. Con le sentt. nn. 106281/1995 e 4910 del 1996, la quale applicando i principi della Corte cost., ha ribadito come il diritto alla salute e il diritto alla vita siano da considerare «ontologicamente diversi, con la conseguenza che la lesione del secondo non genera una lesione del primo» (Cass. n. 7975/1997). v. pure A. De Cupis, Il diritto alla salute tra Cassazione e Corte Costituzionale, in Giur. Civ, 1980, I, 534 e G. Alpa, Danno biologico e diritto alla salute davanti alla Corte Costituzionale, in Giur. It., 1980, I, 1, 9 ss.).

14.  Cfr. per tali considerazioni PALAZZO F., La tutela della persona umana: dignità, salute, scelte di libertà, https://www.penalecontemporaneo.it/d/6787-la-tutela-della-persona-umana-dignita-salute-scelte-di-liberta).

15.  Cfr. L. Lamberti Diritto Sanitario, Milano 2019.

16.  CdS V n. 813 del 2010.

17.  Corte Cost. n. 416 del 1995.

18.  CdS V n. 4077 del 2008.

19.  Secondo T.a.r. Veneto, sez. III, 06-03-2009, n. 376.

20.  Tar Lombardia Sez. III n. 4246 del 2009.

21.  Per una ricostruzione del sistema della programmazione cfr. Corte Cost. n. 200 del 2005.

22.  CdS Ad. Plen. n. 3 del 2012.

23.  CdS V n. 1989 del 2008.