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Diritto di asilo, competenza dell’Unione, responsabilità degli Stati membri: i fallimenti del c.d. sistema “Dublino”

di - 10 Luglio 2015
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Decorso il termine di sei mesi, entro il quale il trasferimento deve essere eseguito, la decisione perde efficacia e la competenza a decidere sulla domanda si traferisce, o si consolida, in capo allo Stato che la ha adottata[33].
I criteri di attribuzione della competenza tra gli Stati sono rigidi ed ordinati gerarchicamente. Ciò comporta che ogni Stato, diverso da quello competente, può rifiutare l’esame del caso e chiedere allo Stato competente di prendere in carico la domanda.
La rigidità delle regole, per l’individuazione dello Stato competente, può essere derogata solo in due circostanze.
La prima è riconducibile alla c.d. clausola di sovranità, sancita dall’art. 17, par. 1 del Regolamento Dublino III, per la quale lo Stato, che riceve la domanda di protezione, può decidere di esaminarla comunque, in base ad una propria valutazione discrezionale. Come chiarito dalla Corte di giustizia nella sentenza Halaf del 30 maggio 2013[34],  lo scopo della clausola è infatti quello di consentire ad ogni Stato di decidere, “in piena sovranità, in base a considerazioni di tipo politico, umanitario o pragmatico di accettare l’esame di una domanda di asilo”[35].
La seconda eccezione è rappresentata dalla c.d. clausola umanitaria. Per la clausola umanitaria, lo Stato membro nel quale è manifestata la volontà di chiedere la protezione internazionale, ancorché competente, può chiedere ad un altro Stato membro di prendere in carico un richiedente per ragioni umanitarie, fondate – in particolare – su motivi familiari o culturali.
La prescrizione di regole oggettive e neutrali per l’allocazione della competenza tra i vari Stati membri parte dalla stessa premessa propria della regola dell’unico Stato competente a decidere sulla domanda di protezione. Il potere di riconoscere la protezione è dell’Unione ed è esercitato in via amministrativa dallo Stato, al quale le norme di rango europeo attribuiscono la competenza sulla base di criteri oggettivi di opportunità (l’interesse del minore, l’interesse all’unità familiare, il ruolo avuto dallo Stato nell’ingresso del richiedente).

I fallimenti del “sistema Dublino”: l’applicazione del principio di non refoulement nei rapporti tra Stati membri. Passando da una analisi, per così dire in vitro, delle norme sulla competenza ad una verifica empirica del funzionamento del sistema, il disallineamento tra la dimensione astrattamente europea e la concreta dimensione statale del sistema comune di asilo emerge da due indizi.
E’ opportuno premettere che, su di un piano generale, il presupposto per lo stesso funzionamento di un sistema, che alloca una funzione tra più soggetti, in questo caso gli Stati,  secondo i più vari criteri, territoriali o funzionali, è quello della assoluta fungibilità tra questi. Tutti i soggetti, ai quali la competenza può essere attribuita sulla base dei criteri enunciati, devono presentare le stesse caratteristiche, agire secondo le stesse regole, assicurare lo stesso risultato.
In assenza di condizioni di omogeneità, un sistema di distribuzione della competenza non può funzionare.
A maggior ragione, non può funzionare nel settore della protezione internazionale. La normativa internazionale, europea e nazionale in materia di asilo sono improntate al principio di non respingimento (non refoulement), sancito espressamente dall’art. 33, comma 1, della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione[36]. Il principio impedisce che il richiedente la protezione internazionale possa essere inviato in un paese in cui rischia di essere perseguitato[37] o nel quale rischia trattamenti inumani o degradanti.
E difatti il regolamento “Dublino” afferma, nei suoi considerando, che il sistema di distribuzione della competenza tra i vari Stati membri si fonda sulla reciproca fiducia tra questi e sulla “presunzione assoluta che tutti gli Stati possano essere considerati Stati sicuri per i paesi terzi”, dal punto di vista delle garanzie procedurali e processuali nell’esame della domanda, come dal punto di vista delle condizioni di accoglienza.
Nella realtà dei fatti, la fase amministrativa di esecuzione della politica comune in materia di asilo, di competenza degli Stati, ha rivelato notevoli disomogeneità. A seconda che le regole sulla competenza investano della domanda l’uno o l’altro stato, le garanzie procedurali e, soprattutto, le stesse condizioni esistenziali del richiedente variano notevolmente, a volte intollerabilmente.
Sulla base dei dati e delle informazioni fornite da organizzazioni non governative internazionali, e anche dalla Commissione per la valutazione del sistema di Dublino, la giurisprudenza delle Corti europee ha dovuto prendere atto di questa situazione.
Per la giurisprudenza delle Corti europee, lo Stato membro, cui è stata rivolta la domanda di protezione, incorre in una violazione dell’art. 3 della CEDU e degli artt. 78 TFUE  e 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che sanciscono il principio di non refoulement[38], quando dispone il trasferimento del richiedente la protezione internazionale nello Stato membro competente, secondo le regole di Dublino, pur non potendo ignorare, ovvero essendo in condizione di conoscere, le carenze sistemiche delle procedure di asilo o delle condizioni di accoglienza che quello Stato presenta.
La massima è stata enunciata prima dalla Corte europea dei diritti dell’uomo[39] e poi la Corte di giustizia[40]. I giudici europei hanno condannato, rispettivamente, il Belgio ed il Regno Unito per avere questi Paesi disposto il trasferimento del richiedente la protezione in Grecia, pur sapendo, o dovendo sapere, ”che non vi era alcuna garanzia che la domanda sarebbe stata esaminata seriamente dalle autorità greche e con piena cognizione di causa delle condizioni detentive ed esistenziali costitutive di trattamenti degradanti”.  Anche il sistema italiano di asilo, assolto in un primo caso[41], è poi stato censurato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo[42]. Una sentenza dell’11 novembre 2014 ne denuncia i limiti, sia pure sotto il profilo circoscritto di non essere in grado di garantire condizioni adeguate a soggetti minori particolarmente vulnerabili e di non garantire la conservazione dell’unità familiare.

Note

33.  Art. 29.2 “Se il trasferimento non avviene nel termine di sei mesi, lo Stato membro competente è liberato dall’obbligo di prendere o riprendere in carico l’interessato e la competenza è trasferita allo Stato membro richiedente”. In Italia il ricorso avverso la decisione che individua lo Stato competente e dispone il trasferimento del richiedente non ha un automatico effetto sospensivo. Pertanto, in tutti i casi in cui la sospensione non è concessa dal giudice, il rischio che il provvedimento di trasferimento perda efficacia, nel corso del giudizio, e che il processo si chiuda con una pronuncia di improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse, è concreto, come confermato dal numero elevato delle pronunce di questo tenore del giudice amministrativo. De iure condendo, il legislatore dovrebbe porre rimedio al pericolo che il provvedimento di trasferimento esaurisca il suo termine massimo di efficacia prima della decisione sul ricorso, in merito alla individuazione dello stato competente. La lungaggine del procedimento, e della fase giurisdizionale di decisione sull’eventuale ricorso, è inoltre “costosa” per gli obblighi di assistenza che gravano sullo Stato in pendenza del procedimento di esame della domanda di protezione. Sarebbe sicuramente opportuno prevedere una corsia estremamente accelerata per i processi di impugnazione dei decreti declinatori della competenza e di trasferimento del richiedente verso lo Stato competente.

34.  Vedi Corte di giustizia, 30 maggio 2013, Zuheyr Frayeeh Halaf c. Darzhavna agentsia zu bezhantsite pri Ministerskia savet, C-528/11.

35.  Vedi Corte di giustizia, Halaf,  cit. § 37.

36.  Ma già prima della promulgazione della Carta dei diritti fondamentali del 2000, il principio era ritenuto vigente in Europa non solo in forza della Convenzione di Ginevra, ma anche dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che implicitamente lo riconoscerebbe. L’art. 3 è infatti pacificamente interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel senso di inibire agli Stati ogni forma di trattamento inumano, anche in via indiretta e quindi attraverso l’espulsione, l’estradizione o comunque il rinvio di una persona verso un paese nel quale sarebbe esposta al rischio di subire una qualche forma di maltrattamento. Vedi Corte EDU, 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito, §§ 90-91; Vilvarajah ed altri c. Regno Unito, 30 ottobre 1991, § 103; Ahmed c. Austria, 17 dicembre 1996, §39; H.L.R. c. Francia, 29 aprile 1997, §34; Salah Sheekh c. Paesi Bassi, 11 gennaio 2007, § 135.

37.  L’ambito di applicazione del principio ed il contenuto dell’obbligo di non respingimento, come definiti anche alla stregua della CEDU, sono enunciati nella decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Hirsi Jamaa ed altri v. Italia. Corte EDU, Grand Chamber, 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa ed altri v. Italia, (ricorso 27765/09), in www.echr.coe.int ) ha condannato l’Italia per avere le autorità nazionali ricondotto sulle coste libiche, da cui erano partiti, ventiquattro somali ed eritrei, intercettati il 6 maggio 2009 in alto mare, al di fuori delle acque territoriali italiane e nella zona di ricerca e salvataggio dello stato di Malta. Le operazioni di intercettazione delle imbarcazioni in alto mare e di rinvio dei migranti in Libia avevano fatto seguito ad accordi bilaterali stipulati tra l’Italia e la Libia il 4 febbraio 2009 per la lotta all’immigrazione clandestina e alle organizzazioni criminali legate al traffico illecito e alla tratta delle persone. Sugli episodi di respingimento in alto mare, il Ministro dell’Interno fu chiamato a riferire in Senato, vedi Informativa del Ministro dell’Interno su questioni connesse all’immigrazione e conseguente discussione, Senato della Repubblica, seduta 25 maggio 2009, n. 214. Nel caso Hirsi Jamaa, l’Italia è stata ritenuta responsabile. Le autorità non avevano infatti effettuato alcun accertamento sulla identità, la provenienza, lo stato di salute e l’eventuale minore età dei migranti. Inoltre non avevano informato costoro della possibilità di richiedere la protezione internazionale, non avevano fornito loro alcuna assistenza legale né un interprete. Infine li avevano ricondotti sulle coste libiche senza tener conto del pericolo che avrebbero corso di essere rimpatriati nel paese di origine.

38.  Il rispetto della Convenzione di Ginevra e dal Protocollo del 1967 è previsto dall’art. 18 della Carta dei diritti fondamentali e dall’art. 78 del TFUE. In tal senso la Corte di Giustizia si era già pronunciata nelle sentenze della Grande Sezione, 2 marzo 2010, cause riunite C-175/08, C-176/08, C-178/08, C- 179/08, Salahadin Abdulla e a c. Bundesrepublik Deutschland, § 53 e 17 giugno 2010, C-31/09, Bobol  c. Bevándorlási és Állampolgársági Hivatal, §38.

39.  Corte EDU, 21 gennaio 2011, M. S. S. c. Belgio e Grecia., nello stesso senzo Corte EDU, 21 ottobre 2014, Sharifi et autres c. Italie et Grece, che ha condannato l’Italia per avere respinto in Grecia un gruppo di trentacinque migranti (afgani, sudanesi, eritrei), pur non potendo ignorare che la Grecia ha una bassa percentuale di accoglimento delle richieste di asilo e che perciò c’era un forte rischio di rimpatrio, con pericolo per la vita e la libertà dei ricorrenti.

40.  Corte di giustizia (Grande Sezione), 21 dicembre 2011, C- 411/10, N. S. c. Regno Unito e Irlanda.

41.  Corte EDU,. 2 aprile 2013, Samsam Mohammed Hussein c. Paesi Bassi e Italia, § 51-55. Qui la Corte, dopo aver esaminato le Raccomandazioni dell’UNHCR sugli aspetti rilevanti della protezione dei rifugiati in Italia del luglio 2012, il Rapporto del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa del settembre 2012, alcune decisioni dei giudici di Belgio, Germania e Regno Unito, in qualche caso favorevoli in altri contrarie a bloccare i trasferimenti verso l’Italia per timore di violazione dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo, ha concluso che il sistema italiano di asilo, pur presentando lacune, non dimostra carenze sistemiche tali da ravvisare una violazione dell’art. 3 CEDU nelle decisioni di rinvio dei richiedenti asilo in Italia. Osserva p. mori, Profili problematici dell’accoglienza dei richiedenti asilo in Italia, in i percorsi giuridici per l’integrazione, cit., p. 431 che la decisione assolutoria della Corte EDU non vincola l’esito del procedimento di infrazione avviato dalla Commissione nei confronti dell’Italia per le carenze riscontrate nel sistema di accoglienza. Infatti la Corte di giustizia potrebbe pur sempre ritenere che i limiti del sistema italiano di asilo, non raggiungendo una soglia di gravità tale da giustificare l’applicazione del principio di non refoulement, comportino però la violazione sotto altri profili del diritto dell’Unione e, in particolare, degli obblighi derivanti dalla direttiva procedure e dalla direttiva accoglienza, nonché dal regolamento di Dublino.

42.  Corte EDU, 4 novembre 2014, Tarakhel c. Svizzera e Italia. La Corte riprende i documenti citati nel caso precedente dai quali emerge comunque una evidente sproporzione tra il numero di domande di asilo presentate nel 2013  (più di 14.000) ed il numero dei posti disponibili nelle strutture di accoglienza (9.630); ricorda che il caso riguarda un nucleo familiare del quale fanno parte sei bambini, ovvero soggetti particolarmente vulnerabili; afferma che alla luce dei dati conosciuti, non è destituita di fondamento l’ipotesi che un numero significativo di richiedenti asilo, rinviati in Italia, restino sprovvisti di un luogo dove abitare o siano costretti a vivere in ambienti sovrappopolati, in condizioni insalubri e di violenza. Perciò le autorità del Paese, intenzionato a disporre in rinvio, devono prima sincerarsi presso le autorità italiane che i richiedenti asilo  saranno accolti in strutture adeguate, potranno godere di condizioni adatte all’età dei bambini e che l’unità della famiglia sia conservata. Per un commento alla sentenza vedi f. mastromartno, Verso la delegittimazione del sistema Dublino? ( a margine di Corte EDU, Tarakhel c. Svizzera), in www.diritticomparati.it (22 dicembre 2014).

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