Diritto di asilo, competenza dell’Unione, responsabilità degli Stati membri: i fallimenti del c.d. sistema “Dublino”

1. Premessa. – 2. Il sistema comune europeo di asilo nei Trattati e nelle norme di diritto derivato. – 3. Natura della competenza normativa dell’Unione in materia di asilo e ruolo degli Stati membri. – 4. Il c.d. “sistema Dublino” come primo tassello del sistema comune europeo di asilo. – 5. I fallimenti del “sistema Dublino”: l’applicazione del principio di non refoulement nei rapporti tra Stati membri. – 6. I fallimenti del “sistema Dublino”: i diritti, propri dello status di rifugiato, hanno come esclusivo termine di riferimento lo Stato che ha concesso la protezione. -7. L’Europa in mezzo al guado tra sgretolamento e completamento del sistema comune europeo di asilo.

Premessa. Secondo le statistiche fornite dall’alto Commissariato ONU per i rifugiati (UNHCR), nei primi cinque mesi del 2015, i migranti arrivati in Europa attraverso il Mediterraneo sono stati 103.000. Di questi, 54.000 sono sbarcati in Italia, 48.000 in Grecia, 920 in Spagna, 91 a Malta. Per la sua peculiare posizione geografica, l’Italia va dunque assumendo il ruolo di crocevia dei flussi migratori dal Mediterraneo all’Europa continentale.
I migranti in cerca di asilo ammontano a circa il 50% del totale. L’incremento delle domande di asilo presentate nel nostro Paese negli ultimi anni è esponenziale: 17.352 nel 2012, 26.620 nel 2013, 64.886 nel 2014[1].
Con frequenza direttamente proporzionale a questo fenomeno, la cronaca ci riporta episodi di protesta dei migranti, che si oppongono alla rilevazione delle impronte digitali da parte delle autorità italiane.
Il punto è che la procedura di identificazione[2] (rilevazione delle impronte, foto del volto ed una breve intervista) e l’archiviazione dei dati così acquisiti nel sistema Eurodac individuano il “paese di primo ingresso”.
L’individuazione del “Paese di primo ingresso” comporta conseguenze irreversibili.
Alle autorità amministrative del Paese di primo ingresso è assegnata la competenza ad esaminare e a decidere la domanda di riconoscimento della protezione. Si tratta di una competenza esclusiva, nel senso che la domanda di protezione non può essere contemporaneamente presentata in uno Stato membro diverso. Inoltre finché la domanda non è istruita e decisa (e finché non si siano esaurite le eventuali procedure di ricorso), il richiedente non ha la libertà di circolare nel territorio dell’Unione. Infine chi ha ottenuto la protezione ha comunque il diritto di soggiornare liberamente nel solo Stato che l’ha concessa.
A causa di queste restrizioni, molti migranti, prima di dar corso alla richiesta di protezione o anche dopo averla ottenuta, tentano la fuga verso i Paesi del nord Europa, pur se consapevoli dei pericoli del viaggio[3] e degli ostacoli che la normativa pone ad un loro inserimento regolare, nei nuovi contesti[4].
Al tempo stesso, si moltiplicano gli episodi di insofferenza da parte dei cittadini europei. Crescono le proteste contro una politica di accoglienza che si denuncia come indiscriminata e che comunque sembra andare oltre le capacità dei singoli Paesi. Gli Stati erigono nuovamente i confini.
In definitiva, è diffusa una generale sensazione di malessere. Anche questa trova una conferma nei documenti ufficiali.
Il rapporto pubblicato nel settembre 2013 dall’European Council on Refugees and Exiles (ECRE)[5] esprime un giudizio di netta insufficienza sulle condizioni della accoglienza in Europa. Il sistema comune europeo di asilo (CEAS, nell’acronimo formato sulla espressione inglese Common European Asylum System) è qualcosa di cui si parla negli atti, negli strumenti e nelle azioni di varia natura che nel loro insieme si propongono di realizzare questo obiettivo. Nella realtà, il sistema comune europeo di asilo è ampiamente inattuato. Il rapporto evidenzia inoltre come anche i principi di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri sono ampiamente disattesi, incrinati, anche formalmente, fin dall’inizio dall’opting out esercitato da Regno Unito. Irlanda e Danimarca.  Questi Stati, che non hanno partecipato alla adozione delle nuove direttive, non sono nemmeno soggetti alla loro applicazione[6].
Rispetto a queste disfunzioni, il rapporto attribuisce una responsabilità di primo piano al cd. “sistema di Dublino”, ovvero all’insieme delle regole che presidiano la distribuzione della competenza a decidere sulla domanda di protezione e che sono attualmente contenute nel regolamento (UE) n. 604/2013, c.d. “Dublino III”. Al regolamento si imputa di non tener delle differenze che esistono tra i vari Stati e che riguardano le garanzie procedurali, le garanzie processuali e le percentuali di accoglimento delle domande di protezione internazionale[7], ma anche, e soprattutto, le condizioni di accoglienza e di soggiorno e le effettive possibilità di inserimento delle persone nel contesto sociale e lavorativo[8]
Non è dunque fuor di luogo affermare che il “sistema Dublino” è attualmente il “pezzo più criticato del sistema comune europeo di asilo”[9]. Nella sua rigidità ed astrattezza, impedisce ai richiedenti la protezione di scegliere il luogo in cui vivere. Al tempo stesso, produce effetti iniqui nei confronti degli Stati, attribuendo la competenza a trattare la domanda, e gli oneri connessi, secondo un criterio meramente geografico, quale quello di assumere il ruolo di paese di primo ingresso.
Malgrado le critiche aperte di cui è bersaglio l’insieme delle regole del “sistema Dublino”, le istituzioni europee sembrano non volersi discostare dai principi base, riassunti e ribaditi nel regolamento n. 604/2013 ed esprimono la convinzione che questi principi rappresentino una “pietra miliare nella costruzione del sistema comune europeo di asilo”[10].
La contraddizione è evidente. Nei paragrafi seguenti se ne tenterà una spiegazione.
Lo scritto è articolato su due punti: l’analisi del contenuto e delle implicazioni del c.d. “sistema di Dublino”; la verifica dei suoi “fallimenti”.
Il “sistema di Dublino”, con la sua regole base (la competenza sulla domanda di protezione è esclusiva di un solo Stato membro ed è attribuita in base a criteri rigidi ed oggettivi) individua una funzione amministrativa europea in questa materia. In questo senso, segna realmente il primo passo della costruzione di un sistema comune europeo di asilo e di una, coerente con le indicazioni dei Trattati.

Tuttavia il sistema non funziona. Il primo fallimento investe il funzionamento del meccanismo della distribuzione tra gli Stati membri della competenza a trattare la domanda di asilo, che è inceppato dalle differenze che esistono tra gli Stati membri.
Il secondo è rappresentato dalla dimensione strettamente statale del riconoscimento, che non produce alcun effetto transnazionale diretto e nemmeno indiretto attraverso una disciplina di mutuo riconoscimento[11].
L’ipotesi, di cui si vuole qui vagliare l’attendibilità, è che i problemi attuali derivino, almeno in parte, dall’incompleta attuazione del sistema. Dunque da una sorta di disallineamento tra un modello astratto, che vorrebbe assegnare una dimensione europea alla funzione di riconoscimento della protezione internazionale ed al sistema di asilo, e la sua esecuzione, che ha una dimensione solo statale.

Il sistema comune europeo di asilo nei Trattati e nelle norme di diritto derivato. Il Trattato Ue assegna all’Unione vari obiettivi. Accanto a quelli tradizionali, di carattere economico, l’evoluzione del processo di integrazione europeo ha portato in primo piano il programma di conformare l’Europa come uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione”[12].
L’idea, espressa nell’art. 3, par. 2 del  TUE, trova un completamento nell’art. 67, par. 2 del TFUE, che impegna l’Unione ad attuare una politica comune in materia di asilo.
Gli artt. 77, 78 e 80 TFUE indicano gli ulteriori sviluppi del progetto di “graduale realizzazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia aperto a quanti, spinti dalle circostanze, chiedono legittimamente protezione nell’Unione europea”.
In sintesi, l’art. 77 indirizza l’Unione verso una politica volta a garantire l’assenza di ogni controllo delle persone al momento dell’attraversamento delle frontiere interne, a garantire il controllo delle frontiere esterne, ad instaurare progressivamente un sistema di controllo integrato delle frontiere esterne.
L’art. 78 prevede che l’Unione debba attuare “una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta ad offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un Paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento”.
Ancora l’art. 78,  al par.2,  autorizza Parlamento europeo ed il Consiglio a legiferare in materia, secondo la procedura legislativa ordinaria, al fine di attuare questo ambizioso obiettivo. In particolare, Parlamento e Consiglio sono abilitati a deliberare un’ampia gamma di misure, idonee a dar vita ad un sistema comune che comporti status e procedure uniformi[13].
L’art. 80 del TFUE individua nella “solidarietà” e nell’”equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati” i principi ed i criteri direttivi cui Parlamento e Consiglio devono improntare gli atti di attuazione della politica comune in materia di asilo.
Gli atti dell’Unione europea che si occupano della protezione dei cittadini dei Paesi terzi, i quali, “spinti dalle circostanze, chiedono legittimamente protezione nell’Unione europea”, sono molto numerosi. I documenti, le azioni e gli strumenti di diversa natura si sono moltiplicati, specie negli ultimi anni, al punto che l’impiego del termine “politica comune in materia di asilo” non è ingiustificato[14].
Dai documenti emerge un obiettivo molto ambizioso. La Commissione e le altre istituzioni non si prefiggono semplicemente di attuare una politica comune, ma di dar vita ad un vero e proprio “sistema comune di asilo”.
L’idea è espressa, per la prima volta, nel programma di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999 e poi nel programma dell’Aia del 4 novembre 2004. Con l’approvazione dei due atti, i Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri si accordarono su di una serie di misure volte a garantire l’applicazione della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 28 luglio 1951. In ottemperanza al principio di diritto internazionale di non respingimento (non refoulement), lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia da realizzare in Europa dovrebbe essere altresì “aperto a quanti, spinti dalle circostanze, chiedono legittimamente protezione all’Unione europea”[15].
L’attuazione del sistema comune europeo di asilo avrebbe dovuto essere eseguito in due tappe successive, entro la fine del 2010.
In questa fase, sulla base del Trattato di Amsterdam, le competenze normative del Parlamento e del Consiglio sono circoscritte alla definizione di principi essenziali e regole comuni minime in materia di accoglienza dei richiedenti asilo e dello status di rifugiato.
Tali competenze hanno dato vita ad un articolato pacchetto di atti normativi, adottati con lo scopo di avvicinare le normative nazionali.
In particolare, sono stati approvati, il c.d. regolamento Dublino II (Reg. (UE) n. 343/2003, relativo alla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo; la direttiva accoglienza, recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri (dir. 2003/9/CE del 27 gennaio 2003 recepita dall’ordinamento italiano con il decreto legislativo 30 maggio 2005, n.140);  la direttiva procedure che disciplina il procedimento per l’attribuzione (e la revoca) dello status di rifugiato (dir. 2005/85/CE del 1° dicembre 2005 recepita con il decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25);  la direttiva qualifiche che introduce norme minime comuni sui presupposti ed i requisiti per l’attribuzione della qualifica di rifugiato e sul contenuto della protezione riconosciuta (dir. 2004/83/CE del 26 aprile 2004 recepita dal decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251); la direttiva protezione temporanea: in caso di afflusso massiccio di sfollati (dir. 2001/55/CE del 20 luglio 2001 recepita con il decreto legislativo 7 aprile 2003, n. 85).

Completata la prima fase, è stata avviata una riflessione critica che ha evidenziato i limiti dei risultati raggiunti, specie sul piano di un effettivo livellamento tra gli ordinamenti.
L’impegno di “costruire l’Europa dell’asilo” è ribadito dal Consiglio nel patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, del 24 settembre 2008. Da un lato, il documento ribadisce l’idea che la concessione della protezione e dello status di rifugiato è un potere proprio degli Stati membri. Dall’altro, però, auspica l’introduzione di una procedura unica in materia di asilo, che preveda garanzie comuni ed uno status uniforme per i rifugiati e per coloro che hanno diritto alla protezione sussidiaria
Con il Programma di Stoccolma, approvato nel dicembre 2009 dal Consiglio europeo [16], i capi di Stato e di Governo si sono impegnati ad adottare una procedura comune in materia di asilo e uno status uniforme per coloro che hanno ottenuto la protezione internazionale. L’obiettivo finale è quello di assicurare che casi simili siano trattati allo stesso modo e con lo stesso risultato quale che sia lo Stato, nel quale è presentata la domanda.
Sulla scorta di questi indirizzi, nell’esercizio delle competenze normative attribuite dall’art. 78, par. 2, del trattato di Lisbona[17], il Parlamento europeo ed il Consiglio hanno dunque adottato nuovi atti normativi. In particolare, la nuova direttiva qualifiche del 13 dicembre 2011, dir. 2011/95/UE, recepita in Italia con il decreto legislativo 21 febbraio 2014, n. 18; la nuova direttiva accoglienza e la nuova direttiva procedure entrambe del 26 giugno 2013, dir. 2013/33/UE e dir. 2013/32/UE, il cui recepimento in Italia è previsto dalla legge di delegazione europea relativa al secondo semestre 2013, l. 7 ottobre 2014, n. 154; il regolamento Dublino III Reg. (UE) n. 604/2013 del 26 giugno 2013, che ha sostituito il Reg. Dublino II  a partire dal 1° gennaio 2014.
Per completezza, vanno ancora ricordati il nuovo regolamento EURODAC, che disciplina l’archiviazione delle impronte digitali, rendendone possibile il confronto ai fini dell’applicazione del Regolamento Dublino, reg. (UE) n. 603/2013 del 26 giugno 2013 ed il regolamento EASO che istituisce l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, allo scopo di rafforzare la cooperazione pratica in materia di asilo, favorendo lo scambio di informazioni e di prassi tra i Paesi membri, Reg. (UE) n. 439/2010 del 19 maggio 2010.

Natura della competenza normativa dell’Unione in materia di asilo e ruolo degli Stati membri. Il settore della protezione di quanti cercano nel territorio europeo un rifugio contro le persecuzioni e la violenza è dunque disciplinato dettagliatamente da fonti del diritto europeo derivato.
Rispetto a tale complesso di atti normativi, azioni e strumenti di varia natura, adottati dagli organi dell’Unione, si pongono due questioni, di ordine giuridico.
Per il principio di attribuzione[18], è necessario, in primo luogo, individuare la base giuridica che autorizza l’Unione ad adottare misure in questa materia.
Secondo quanto già detto nel paragrafo precedente, la base giuridica è agevolmente rintracciabile nei già citati articoli 3, par. 2 del TUE e 67, par. 2 e 78 del TFUE, sicuramente idonei a conferire all’Unione una competenza per agire in questa materia.
Più complesso è il secondo problema, che consiste nell’individuare il tipo di competenza attribuita in questa materia all’Unione.
E’ noto, infatti, che l’art. 2 del TFUE definisce più categorie di competenze dell’Unione, ognuna delle quali presenta caratteristiche diverse. A seconda dell’efficacia degli atti che l’Unione ha il potere di adottare e del rapporto tra competenza degli Stati membri e competenza dell’Unione, questa può essere esclusiva o concorrente. Inoltre la competenza può essere del tipo individuato dall’art. 2, par. 5 del TFUE, ovvero di sostegno, coordinamento o completamento dell’azione degli Stati membri.  Infine, e precisamente nei casi elencati dall’art. 5 del TFUE, può essere di mero orientamento per il coordinamento delle politiche degli Stati membri.
La materia dell’asilo è inquadrata dalle stesse fonti europee in quella della realizzazione di uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, che è materia di competenza concorrente, secondo l’art. 4 del TFUE. Ciò comporta che, nel settore, sia gli Stati membri che l’Unione possono esercitare i propri poteri.
Tuttavia, gli spazi regolatori,  lasciati alla discrezionalità degli Stati membri da una disciplina di rango europeo notevolmente dettagliata[19], sono molto ridotti. Essi riguardano, più che altro, il versante della tutela giurisdizionale. Questo è coperto dal principio dell’autonomia processuale degli Stati membri[20], che è però temperato dall’obbligo, imposto agli Stati,  di soddisfare i criteri di un ricorso effettivo, ribaditi – anche in questa materia – dalla Corte europea dei diritti dell’uomo[21].
Il carattere denso e dettagliato della disciplina normativa europea, in materia di sistema comune europeo di asilo, ritaglia dunque alle amministrazioni degli Stati membri un ruolo di mera esecuzione del diritto dell’Unione, secondo lo schema dell’amministrazione indiretta[22].
D’altro canto, però, la materia della protezione internazionale intercetta materie e si intreccia con interessi, che attengono alla sfera più intima della sovranità nazionale.
Intercetta, in primo luogo, la materia della regolazione dei flussi immigratori, rimessa per intero alla competenza degli Stati membri dall’art. 79 par. 5, quella dell’integrazione, nella quale l’art. 79, par. 4  TFUE attribuisce all’Unione una limitata competenza di incentivazione e sostegno dell’azione degli Stati membri[23].
Si intreccia con gli interessi pubblici alla sicurezza e all’ordine pubblico, connessi con ogni fenomeno migratorio, interessi primari che lo stesso art. 4 TUE affida alla cura esclusiva dell’ente Stato.
Si intreccia inoltre con l’interesse all’integrità territoriale, cui è strumentale il diritto di controllare l’ingresso degli stranieri nei propri confini, riconosciuto come proprio degli Stati da una giurisprudenza costante della stessa Corte EDU[24]. A questo si aggiunga il fatto che la normativa vigente comunque affida alle autorità nazionali territorialmente competenti la concreta realizzazione dei controlli all’ingresso e all’uscita delle frontiere esterne dell’Unione[25].

La stessa idea di “confine”, che lo “spazio comune di libertà, sicurezza, giustizia” vorrebbe superare, conserva un significato denso, poiché i confini rappresentano pur sempre le linee di demarcazione della sfera territoriale entro la quale – almeno tendenzialmente[26] – lo Stato vede limitata la sua autorità e l’esercita in via esclusiva.
In sintesi, il settore della protezione internazionale e della accoglienza di quanti si rivolgono all’Europa per sfuggire a violenze e persecuzioni rinviene la sua disciplina nei trattati e nelle fonti di diritto derivato dell’Unione, integrate ed interpretate da interventi sempre più frequenti delle Corti europee. Agli Stati residuano funzioni di mera amministrazione indiretta del diritto dell’Unione.
Al tempo stesso, agli Stati membri fanno direttamente capo interessi e competenze che sono incisi in modo profondo dalla materia della protezione.
Il progetto dell’Europa come spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia aperto a quanti chiedono legittimamente protezione nell’Unione, e la declinazione di questo nel senso della realizzazione di un sistema comune di asilo, presenta dunque non pochi margini di ambiguità.
Ambiguità che, del resto, emergono dagli stessi documenti e strumenti europei di programmazione della politica comune di asilo.
Da un lato, con un’enfasi forse eccessiva, questi indicano l’obiettivo del sistema comune europeo di asilo e ritagliano agli Stati membri il ruolo di mera esecuzione indiretta di una funzione dell’Unione. Dall’altro non mettono in discussione la titolarità esclusiva in capo agli Stati membri, del “potere di concedere la protezione e di riconoscere lo status di rifugiato”.

Il c.d. “sistema Dublino” come primo tassello del sistema comune europeo di asilo. Dimensione europea della funzione di riconoscimento della protezione e ruolo di amministrazione indiretta degli Stati. I criteri, volti ad individuare lo Stato membro competente per l’esame della domanda di protezione internazionale presentata all’interno dei confini dell’Unione da un cittadino di un paese terzo ( o da un apolide), sono contenuti nel regolamento (UE), 26 giugno 2013, n. 604/2013, c.d. Dublino III[27].
La regola cruciale, sulla quale tutto il sistema fa perno, è quella enunciata nell’art. 3 del regolamento del 2013, e già prevista nel regolamento precedente del 2003: la competenza a vagliare la domanda di protezione e a decidere su di essa spetta ad uno solo tra gli Stati membri[28].
La norma risponde ad una ratio precisa. La Corte di giustizia l’ha enunciata in diverse occasioni[29]. La ragione della norma è quella “di razionalizzare il trattamento delle domande di asilo, di evitare la saturazione del sistema con l’obbligo, per le autorità nazionali, di trattare domande multiple introdotte da uno stesso richiedente, di accrescere la certezza del diritto, quanto alla determinazione dello stato competente a trattare la domanda di asilo, e così facendo di evitare il forum shopping. Tutto ciò con l’obiettivo di accelerare il trattamento delle domande nell’interesse tanto dei richiedenti, quanto degli Stati partecipanti”[30].
In base alla regola, il medesimo individuo non può chiedere la protezione ad uno stato membro, in tutti i casi in cui la domanda di protezione è già presentata in uno Stato dell’Unione. Se ciò avvenisse, la seconda domanda sarebbe dichiarata inammissibile.
Una competenza alternativa, una sorta di ne bis in idem, che avvalora la dimensione europea della funzione, o del potere, che ha ad oggetto la concessione della protezione.
Se il potere di accertare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione e di accordarla, fosse proprio dei singoli Stati, la regola che la competenza appartiene ad un solo Stato ed i criteri per l’allocazione dell’unica competenza tra gli Stati non avrebbero ragion d’essere. Alla domanda di protezione non sarebbe opponibile una pronuncia “in rito” declinatoria della competenza. La domanda di protezione dovrebbe poter essere rivolta dall’individuo ad uno qualsiasi tra gli Stati membri e questo sarebbe tenuto a pronunciarsi nel merito.
In definitiva, la regola base del Regolamento “Dublino” (un solo Paese competente ad esaminare e a decidere la domanda di asilo) postula il carattere unitario ed europeo della funzione, che ha ad oggetto il riconoscimento della protezione. L’unica funzione è poi esercitata di volta in volta dallo Stato individuato come competente, in base alle regole oggettive sulla distribuzione della competenza sancite dal sistema.
In questo senso, il Regolamento pone davvero il primo tassello per la costruzione del sistema comune europeo di asilo.
I criteri, in base alle quali la competenza viene allocata in capo all’uno o all’altro Stato, sono elencati in un ordine gerarchico[31] e prendono in considerazione, in sequenza, l’interesse dei minori non accompagnati, l’interesse all’unità del nucleo familiare, la circostanza che il richiedente sia già titolare di un titolo di soggiorno o di un visto valido in un Paese dell’Unione.
Quando nessuno dei criteri elencati può trovare applicazione, in quanto non ricorrono i presupposti di fatto sopra indicati, la competenza ad esaminare e decidere la domanda di protezione incombe sullo Stato di primo ingresso. La regola dello Stato di primo ingresso assolve al ruolo di criterio di chiusura del sistema, in quanto applicabile in ogni caso in cui non ricorrono gli estremi per l’applicabilità di un criterio particolare.
Sul piano procedurale, la verifica della competenza spetta allo Stato, al quale è rivolta la domanda di protezione. La decisione, eventualmente declinatoria della competenza, deve comunque individuare lo Stato competente e disporre il trasferimento del richiedente. Avvero la decisione declinatoria della competenza e che dispone il trasferimento, gli Stati devono garantire mezzi di ricorso effettivi. L’effettività della tutela comporta una revisione della decisione stessa, in fatto ed in diritto, dinanzi ad un organo giurisdizionale. Tali caratteri della tutela giurisdizionale sono espressamente richiesti[32].

Decorso il termine di sei mesi, entro il quale il trasferimento deve essere eseguito, la decisione perde efficacia e la competenza a decidere sulla domanda si traferisce, o si consolida, in capo allo Stato che la ha adottata[33].
I criteri di attribuzione della competenza tra gli Stati sono rigidi ed ordinati gerarchicamente. Ciò comporta che ogni Stato, diverso da quello competente, può rifiutare l’esame del caso e chiedere allo Stato competente di prendere in carico la domanda.
La rigidità delle regole, per l’individuazione dello Stato competente, può essere derogata solo in due circostanze.
La prima è riconducibile alla c.d. clausola di sovranità, sancita dall’art. 17, par. 1 del Regolamento Dublino III, per la quale lo Stato, che riceve la domanda di protezione, può decidere di esaminarla comunque, in base ad una propria valutazione discrezionale. Come chiarito dalla Corte di giustizia nella sentenza Halaf del 30 maggio 2013[34],  lo scopo della clausola è infatti quello di consentire ad ogni Stato di decidere, “in piena sovranità, in base a considerazioni di tipo politico, umanitario o pragmatico di accettare l’esame di una domanda di asilo”[35].
La seconda eccezione è rappresentata dalla c.d. clausola umanitaria. Per la clausola umanitaria, lo Stato membro nel quale è manifestata la volontà di chiedere la protezione internazionale, ancorché competente, può chiedere ad un altro Stato membro di prendere in carico un richiedente per ragioni umanitarie, fondate – in particolare – su motivi familiari o culturali.
La prescrizione di regole oggettive e neutrali per l’allocazione della competenza tra i vari Stati membri parte dalla stessa premessa propria della regola dell’unico Stato competente a decidere sulla domanda di protezione. Il potere di riconoscere la protezione è dell’Unione ed è esercitato in via amministrativa dallo Stato, al quale le norme di rango europeo attribuiscono la competenza sulla base di criteri oggettivi di opportunità (l’interesse del minore, l’interesse all’unità familiare, il ruolo avuto dallo Stato nell’ingresso del richiedente).

I fallimenti del “sistema Dublino”: l’applicazione del principio di non refoulement nei rapporti tra Stati membri. Passando da una analisi, per così dire in vitro, delle norme sulla competenza ad una verifica empirica del funzionamento del sistema, il disallineamento tra la dimensione astrattamente europea e la concreta dimensione statale del sistema comune di asilo emerge da due indizi.
E’ opportuno premettere che, su di un piano generale, il presupposto per lo stesso funzionamento di un sistema, che alloca una funzione tra più soggetti, in questo caso gli Stati,  secondo i più vari criteri, territoriali o funzionali, è quello della assoluta fungibilità tra questi. Tutti i soggetti, ai quali la competenza può essere attribuita sulla base dei criteri enunciati, devono presentare le stesse caratteristiche, agire secondo le stesse regole, assicurare lo stesso risultato.
In assenza di condizioni di omogeneità, un sistema di distribuzione della competenza non può funzionare.
A maggior ragione, non può funzionare nel settore della protezione internazionale. La normativa internazionale, europea e nazionale in materia di asilo sono improntate al principio di non respingimento (non refoulement), sancito espressamente dall’art. 33, comma 1, della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione[36]. Il principio impedisce che il richiedente la protezione internazionale possa essere inviato in un paese in cui rischia di essere perseguitato[37] o nel quale rischia trattamenti inumani o degradanti.
E difatti il regolamento “Dublino” afferma, nei suoi considerando, che il sistema di distribuzione della competenza tra i vari Stati membri si fonda sulla reciproca fiducia tra questi e sulla “presunzione assoluta che tutti gli Stati possano essere considerati Stati sicuri per i paesi terzi”, dal punto di vista delle garanzie procedurali e processuali nell’esame della domanda, come dal punto di vista delle condizioni di accoglienza.
Nella realtà dei fatti, la fase amministrativa di esecuzione della politica comune in materia di asilo, di competenza degli Stati, ha rivelato notevoli disomogeneità. A seconda che le regole sulla competenza investano della domanda l’uno o l’altro stato, le garanzie procedurali e, soprattutto, le stesse condizioni esistenziali del richiedente variano notevolmente, a volte intollerabilmente.
Sulla base dei dati e delle informazioni fornite da organizzazioni non governative internazionali, e anche dalla Commissione per la valutazione del sistema di Dublino, la giurisprudenza delle Corti europee ha dovuto prendere atto di questa situazione.
Per la giurisprudenza delle Corti europee, lo Stato membro, cui è stata rivolta la domanda di protezione, incorre in una violazione dell’art. 3 della CEDU e degli artt. 78 TFUE  e 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che sanciscono il principio di non refoulement[38], quando dispone il trasferimento del richiedente la protezione internazionale nello Stato membro competente, secondo le regole di Dublino, pur non potendo ignorare, ovvero essendo in condizione di conoscere, le carenze sistemiche delle procedure di asilo o delle condizioni di accoglienza che quello Stato presenta.
La massima è stata enunciata prima dalla Corte europea dei diritti dell’uomo[39] e poi la Corte di giustizia[40]. I giudici europei hanno condannato, rispettivamente, il Belgio ed il Regno Unito per avere questi Paesi disposto il trasferimento del richiedente la protezione in Grecia, pur sapendo, o dovendo sapere, ”che non vi era alcuna garanzia che la domanda sarebbe stata esaminata seriamente dalle autorità greche e con piena cognizione di causa delle condizioni detentive ed esistenziali costitutive di trattamenti degradanti”.  Anche il sistema italiano di asilo, assolto in un primo caso[41], è poi stato censurato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo[42]. Una sentenza dell’11 novembre 2014 ne denuncia i limiti, sia pure sotto il profilo circoscritto di non essere in grado di garantire condizioni adeguate a soggetti minori particolarmente vulnerabili e di non garantire la conservazione dell’unità familiare.

I principi, enunciati dunque dai giudici europei in una serie oramai nutrita di pronunce, mettono a nudo la fallacia del presupposto della “indifferenza” nell’esercizio della competenza, sul quale il sistema di Dublino si fonda.
La consapevolezza, manifestata dalle Corti, delle diversità esistenti di fatto tra gli Stati e tali da vanificare il presupposto dell’ “indifferenza” tra gli Stati stessi in ordine alla trattazione della domanda, smentisce la dimensione europea del sistema comune di asilo. La sostanza statale emerge e prevale sulla forma[43].

I fallimenti del “sistema Dublino”: i diritti, propri dello status di rifugiato, hanno come esclusivo termine di riferimento lo Stato che ha concesso la protezione. Il secondo indizio del disallineamento tra la dimensione astrattamente europea e quella in concreto statale della funzione di riconoscimento della protezione internazionale emerge a livello normativo.
Come già detto, il principio base del “sistema Dublino”, un solo Stato membro è competente ad esaminare e decidere sulla domanda di riconoscimento della protezione, implica un corollario ben preciso. Il diritto europeo non si limita ad introdurre una finalità comune all’interno di funzioni amministrative che restano proprie degli Stati membri, ma delinea un’unica funzione che ha ad oggetto il riconoscimento della protezione e che è esercitata di volta in volta dall’unico Stato competente. Come già detto, se la funzione non fosse unica a livello europeo, non avrebbe senso la regola per la quale l’emanazione di un provvedimento di riconoscimento della protezione internazionale, da parte di uno degli Stati membri, “consuma” il potere. Non avrebbe senso, in altre parole, escludere che la domanda possa essere proposta e decisa da un altro stato dell’Unione.
Al tempo stesso, i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato e di beneficiario della protezione sussidiaria sono quelli fissati dalla direttiva 2011/95/UE del 13 dicembre 2011, che contiene le norme “sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario della protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta”[44].
Le norme della direttiva conformano gli ordinamenti degli Stati membri[45]. Il contenuto delle norme europee è dettagliato. I margini di discrezionalità lasciati alle amministrazioni degli Stati membri sono limitatissimi. La portata delle norme, i fatti che legittimano la concessione della protezione, l’atteggiarsi dell’onere della prova dei fatti e l’intensità delle prove richieste sono ulteriormente definiti dalla giurisprudenza delle corti europee, numerosa in questa materia[46].
Gli effetti del provvedimento di riconoscimento della protezione internazionale sono anch’essi sanciti dal diritto europeo, in particolare nella direttiva qualifiche. La direttiva enumera e definisce i diritti che spettano ai beneficiari del riconoscimento. Il diritto di soggiorno, in primo luogo. Coloro che hanno ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria hanno il diritto di soggiornare nel territorio dello Stato che ha concesso il riconoscimento, per un periodo di almeno tre anni, nel primo caso, e di almeno un anno, nel secondo. In entrambi i casi, il permesso può essere rinnovato alla scadenza, se non vi ostano motivi di interesse nazionale o di ordine pubblico. Al diritto di soggiorno sono poi collegati il diritto ai documenti di viaggio, il diritto all’esercizio di un’attività dipendente o autonoma, nel rispetto della normativa generale applicabile alle professioni, il diritto alla formazione e all’aggiornamento professionale, il diritto di accesso al sistema scolastico, all’assistenza sociale e all’assistenza sanitaria secondo le stesse modalità previste per i cittadini dello Stato membro  che ha concesso la protezione. Lo Stato che ha concesso la protezione deve poi provvedere a che i beneficiari della protezione abbiano accesso ad un alloggio, secondo modalità equivalenti a quelle previste per altri cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti nei loro territori.
Nei confronti degli Stati membri, diversi da quello che ha rilasciato il provvedimento di riconoscimento della protezione, è riconosciuto il solo diritto di circolazione.
In definitiva, la relazione di cittadinanza, inteso il termine come riassuntivo dell’insieme dei diritti e degli obblighi che intercorrono tra un individuo ed una collettività organizzata, ha come termine di riferimento esclusivamente lo Stato che ha concesso la protezione.
A parte il diritto di circolazione, gli effetti del provvedimento di riconoscimento si producono limitatamente al territorio e solo nei confronti dello Stato membro, che lo ha adottato.
Si potrebbe osservare che tale limitazione discende, e si giustifica pienamente, in virtù del principio di territorialità, per il quale la sovranità dello Stato, ovvero il potere di esercitare l’autorità, resta circoscritto entro i confini del suo territorio.
Il principio di territorialità non pone però un limite insormontabile. Non sono pochi i casi nei quali l’ordinamento europeo riconosce un’efficacia estesa a tutto il territorio dell’Unione al provvedimento emanato dal singolo Stato membro. Il postulato, o il tabù, del principio di territorialità cede spazio alla categoria del provvedimento amministrativo transnazionale[47].
In alcuni casi, l’efficacia transnazionale del provvedimento è automatica.  Sanciti i presupposti per il rilascio di una qualifica ed attribuita alle amministrazioni nazionali la competenza a compiere le verifiche necessarie, l’ordinamento europeo stabilisce espressamente che  il provvedimento emanato da un singolo Stato membro è direttamente efficace in tutto il territorio dell’Unione, senza che le amministrazioni degli altri Stati possano verificarne la legittimità o l’opportunità[48].
In altri casi opera il principio del mutuo riconoscimento, per il quale gli effetti abilitanti del provvedimento adottato in esecuzione della normativa nazionale e a questa conforme, si proiettano al di fuori dei confini nazionali.

E’ vero che la categoria del provvedimento transnazionale, e dunque la crisi del postulato della autorità esclusiva dello stato all’interno dei suoi confini territoriali[49], si manifestano ampiamente nei settori in cui “la disciplina europea è finalizzata a tutelare le libertà che consentono la piena realizzazione del mercato unico”[50] .
Questa constatazione non equivale ad escludere che la figura sia utilizzabile laddove si tratti di conseguire finalità diverse o quando sono in gioco altre libertà.
A riprova, lo stesso provvedimento di concessione della protezione internazionale attribuisce la libertà di circolazione sull’intero territorio dell’Unione. Il “visto Schengen” è anch’esso un esempio tipico di atto amministrativo transnazionale, che produce effetti sulla libertà di circolazione delle persone[51].
Dunque nessun ostacolo teorico si frappone all’estensione all’intero “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” degli ulteriori effetti del provvedimento che riconosce la protezione e che la normativa vigente circoscrive all’interno dei confini statali. Gli interessi pubblici alla sicurezza interna e all’ordine pubblico, i quali peraltro sono incisi anche dalla già riconosciuta libertà di circolazione[52], potrebbero essere salvaguardati in altro modo.
Le conseguenze negative della disciplina attuale si ripercuotono sui beneficiari della protezione, i quali non sono liberi di stabilirsi in un Paese dell’Unione diverso rispetto a quello che ha trattato la domanda di riconoscimento ed ha concesso la protezione.
Si ripercuotono inoltre sugli Stati membri, che per ragioni geografiche sono investiti da un gran numero di domande di riconoscimento e, di conseguenza, dalla pressione degli oneri finanziari, organizzativi e sociali che l’accoglienza comporta e che eccedono sicuramente le proprie capacità di accoglienza, demografiche ed economiche.

L’Europa in mezzo al guado tra sgretolamento e completamento del sistema comune europeo di asilo.  Gli insuccessi del sistema attuale ed i problemi, anche di carattere sociale, cui si è fatto cenno nel primo paragrafo, hanno stimolato molte proposte di riforma.
Un primo tentativo è stato promosso con la direttiva 2001/55/CE del 20 luglio 2001, che prevede l’obbligo degli Stati membri di indicare la propria capacità di accoglienza e di cooperare tra loro per ripartirsi i relativi oneri, in caso di afflusso massiccio di richiedenti asilo. La direttiva si muove dunque nel solco tracciato dai principi di solidarietà e di equa ripartizione degli oneri tra gli Stati membri, che sono del resto enunciati nell’art. 80 del TFUE.
Il presupposto, per l’applicabilità della direttiva, è che si avveri una situazione di “afflusso massiccio”. La ricorrenza di tale situazione non è però ancorata a presupposti oggettivi, bensì ad una valutazione che presenta connotati politici, più che tecnici, essendo rimessa ad una decisione del Consiglio, a maggioranza qualificata. E’ forse questa la ragione per la quale il meccanismo della condivisione tra gli Stati non è stato mai attivato[53].
Ancora nell’ottica dei principi di solidarietà e di equa ripartizione degli sforzi tra gli Stati membri si pongono le proposte di attivare strumenti di “riallocazione” dei richiedenti o dei beneficiari della protezione[54]. La “riallocazione” consiste nel trasferimento, consensuale, dei richiedenti la protezione o dei beneficiari negli Stati membri, che si dichiarino disponibili ad accoglierli e quindi ad assumere gli oneri connessi con l’esame della domanda e con l’accoglienza.
Le risposte dell’Unione europea ai gravi problemi, che si trovano ad affrontare gli Stati di primo ingresso, si condensano dunque nei meccanismi della distribuzione e della riallocazione.
Il sistema presenta gravi limiti. Il suo avvio è subordinato ad una decisione politica, che deve essere presa a maggioranza. Inoltre, anche se avviato, non può essere considerato risolutivo.
Finché il compito di determinare il numero di individui da accogliere o da “riallocare” sul proprio territorio è affidato ai singoli Paesi membri, gli Stati di primo ingresso si trovano ad operare come una sorta di stanza di compensazione, stretti, da un lato, dal principio di non respingimento, dall’altro, dai limiti numerici al trasferimento indicati dagli altri Stati.
In attesa che gli strumenti di “riallocazione” siano effettivamente attivati e che vengano progettati per funzionare secondo criteri oggettivi[55], la solidarietà europea opera solo sul piano degli aiuti finanziari agli Stati di primo ingresso. Questi sono in effetti ingenti. Qui entra in gioco la responsabilità degli Stati che spesso non sono in grado di assicurarne l’uso corretto.
Anche nel settore della protezione internazionale, l’Europa sembra trovarsi in mezzo al guado.
Le opzioni sono due.
Da un lato, quella di ripensare il sistema “Dublino” e quindi la stessa idea di una competenza unica, a livello europeo, a decidere sulla domanda di protezione, ripartita tra i vari Stati membri secondo criteri di opportunità.
Dall’altro, quella di portare a pieno e coerente compimento il processo di realizzazione del “sistema europeo comune di asilo”. Il riconoscimento della dimensione europea dello status di rifugiato, attribuito da un atto del singolo Stato membro, individuerebbe nell’Unione, e quindi in tutti gli Stati, il termine di riferimento degli obblighi di accoglienza e dei diritti riconosciuti ai beneficiari della protezione.
In conclusione, il problema è ancora una volta quello di definire il “luogo” della sovranità, in bilico tra stati nazionali ed Unione, che è poi il problema cruciale nell’attuale contesto europeo[56].

Note

1.  La maggiore pressione riguarda comunque la Germania e la Svezia. In Germania, nel 2014, sono state presentate 202.815 domande di asilo; 74.375 in Svezia; 56.905 in Francia; 22.855 in Belgio; 26.830 in Gran Bretagna; 7.815 in Grecia.

2.  Il fotosegnalamento è obbligatorio secondo l’art. 8, comma 1, del Regolamento (CE) n. 2725/2000 dell’11 dicembre 2000, (cosiddetto Eurodac), per il quale “ciascuno stato membro procede tempestivamente, in conformità alle salvaguardie previste dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della Convenzione delle nazioni unite dei diritti del fanciullo, al rilevamento delle impronte digitali di tutte le dita di stranieri di età non inferiore a quattordici anni, che siano fermati dalle competenti autorità di controllo, in relazione all’attraversamento irregolare via terra, mare, o aria della propria frontiera in provenienza da un paese terzo e che non siano stati respinti”.

3.  La fuga dei rifugiati verso i Paesi del nord Europa è spesso gestito da organizzazioni criminali. Nel 2013 la Direzione Distrettuale Antimafia di Catania ha concluso la operazione “Boarding pass”  che ha portato alla scoperta di una radicata e complessa associazione criminale transnazionale composta da cittadini extracomunitari di nazionalità somala (presenti ed operanti oltre che nelle nazioni africane di partenza quali la Somalia ed il Kenya, anche in Italia, in Grecia e negli altri paesi europei di destinazione dei migranti), il cui compito specifico è quello organizzare e gestire dietro il pagamento di ingenti somme l’immigrazione clandestina di cittadini somali diretti nei paesi del nord Europa.

4.  Vedi le testimonianze raccolte e pubblicate sul sito www.asiloeuropa.it.

5.  Il rapporto dell’ECRE “Not there yet: an NGO perspective on challenger to a fair and effective Common European Asylum System” è stato pubblicato il 6 settembre 2013 ed è disponibile sul sito www.asylumineurope.org.

6.  Vedi, 33° e 34° considerando della dir. 2013/33/UE

7.  Secondo i dati forniti da Eurostat, circa il 27/28% delle domande di protezione presentate negli Stati membri  risultano accolte in prima istanza. Ma la media non dà atto delle notevoli differenze che sussistono tra i vari Stati.  Percentuali molto basse sono registrabili in Grecia (intorno allo 0.9 %), in Lussemburgo (intorno al 2,5%) e a Cipro (dove oscillano tra il 7 ed il 9%); piuttosto basse in Irlanda, Francia, Romania, Lituania e Slovenia ( intorno al 17%); notevolmente alte in Italia (61,7%) e a Malta (90,1%).

8.  Non si può fingere di ignorare che le possibilità per i rifugiati di accedere al mercato del lavoro, e dunque di ottenere una integrazione effettiva, non sono affatto omogenee nei vari Stati membri. Anzi variano in misura considerevolissima nella misura in cui variano il tasso di disoccupazione o, in generale, la forza del sistema economico.

9.  www.asiloineuropa.it , 24 luglio 2013.

10.  Cfr. considerando 7° del regolamento n. 604/2013 (UE).

11.  Sul piano concreto ciò frustra l’aspirazione del soggetto in cerca di protezione di stabilirsi laddove l’integrazione può essere più agevole, per motivi economici o di legami familiari.

12.  Vedi, in particolare, art. 3, comma 2, TUE. La disposizione, insieme a quelle che in concreto determinano il contenuto del diritto di cittadinanza, ovvero l’insieme dei diritti riconosciuti ai cittadini degli Stati membri nei confronti dell’Unione, e poi a tutti coloro che regolarmente ed anche irregolarmente risiedono sul territorio dell’Unione, o, infine, a quanti cercano di raggiungere l’Europa per sfuggire a violenze e persecuzioni, è forse quella che meglio connota la vera e propria “mutazione genetica” della costruzione europea, avviata a partire dal Trattato di Maastricht del 17 febbraio 1992. Osserva u. villani, Riflessioni su cittadinanza europea e diritti fondamentali. In I percorsi giuridici per l’integrazione, a cura di g. caggiano, Torino, 2014, p. 19, che il riconoscimento di tali diritti segna il “passaggio dalla originaria connotazione essenzialmente economica, e mercantile, appena temperata da una sollecitudine sociale, a una entità di più ampio respiro”.

13.  L’art. 78, par. 1, TFUE autorizza Parlamento e Consiglio a deliberare, secondo la procedura legislativa ordinaria, in materia di: definizione di uno status uniforme in materia di asilo e di protezione sussidiaria; definizione di un sistema comune di protezione temporanea; procedure comuni per la concessione o la revoca dello status di rifugiato o di titolare di protezione sussidiaria; criteri e meccanismi per la individuazione dello stato competente per l’esame della domanda di asilo; norme concernenti le condizioni di accoglienza; il partenariato e la cooperazione con paesi terzi. La corrispondente previsione del TCE, art. 63, n. 1 -2, forniva una base giuridica meno ampia. Infatti non contemplava uno status uniforme di asilo “valido in tutta l’Unione”, procedure uniformi e condizioni comuni  di accoglienza, ma – più modestamente- “norme minime relative all’attribuzione della qualifica di rifugiato, sulle procedure di concessione e revoca dello status e sulle condizioni di accoglienza. Il testo più recente segna quindi un significativo passo avanti.

14.  Per rendersi conto nel numero degli atti dell’Unione dedicati alla materia è sufficiente consultare la pagine web del sito della Commissione.

15.  Cfr. 1° considerando della direttiva 2001/55/Ce del Consiglio del 20 luglio 2001 “sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi”

16.  E’ dedicato alla politica di immigrazione e di asilo il capitolo VI, intitolato “Un’Europa all’insegna della responsabilità, della solidarietà e del partenariato in materia di immigrazione e di asilo”.

17.  La competenza che il trattato di Lisbona attribuisce in questa materia al Parlamento ed al Consiglio non ha semplicemente ad oggetto la adozione di “norme minime”, bensì la creazione di un sistema comune che comporti status e procedure uniformi.

18.  L’individuazione delle norme idonee a conferire all’Unione la competenza ad agire in materia è necessaria secondo il principio di attribuzione, enunciato dall’art. 5, par. 2 del TUE, “l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti”.

19.  Sulla evoluzione della normativa europea in materia di asilo, vedi, anche per altri ampi riferimenti bibliografici: m. di filippo, il sistema europeo comune di asilo, in Immigrazione, diritto e diritti: profili internazionalistici ed europei, a cura di  a. calamia, m. di filippo, m. gestri, Padova, 2012, p. 242 ss. e e. benedetti, Il diritto di asilo e la protezione dei rifugiati nell’ordinamento comunitario dopo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, Padova, 2010, p. 101 ss.

20.  Un’analisi comparata tra la disciplina dell’asilo in Francia, Irlanda, Malta, Regno Unito e Polonia in www.asiloineuropa.it  . L’analisi dimostra appunto come le principali divergenze tra i sistemi degli Stati indagati riguardino appunto il versante processuale.

21.  Nella sentenza 26 aprile 2007, Gebremedhin c. Francia (n. 25389/05), Corte EDU ha affermato che il ricorso avverso il rigetto della domanda di asilo deve produrre un effetto sospensivo automatico quando l’esecuzione del provvedimento di rimpatrio rischia di produrre effetti potenzialmente irreversibili contrari all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nelle sentenze 21 gennaio 2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia ( n. 30696/09), par. 293 e 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa c. Italia (n. 27765/09), par. 197-207 la Corte EDU ha inoltre affermato che il richiedente asilo non può essere esposto al rischio del rimpatrio nel proprio paese di origine senza alcuna valutazione nel merito della propria domanda di asilo e senza avere avuto accesso ad un ricorso effettivo.

22.  L’esecuzione del diritto europeo è tradizionalmente ispirata all’idea tradizionale che affida la integrazione tra gli ordinamenti alla legislazione e che questa debba poi essere attuata dagli apparati amministrativi degli Stati membri. Idea espressa dalla nota formula di Jean Monnet, di una amministrazione che “ne fait pas, fait faire”. Se la formula dell’amministrazione indiretta è recessiva, sia rispetto a modelli che affidano l’esecuzione del diritto europeo direttamente ad apparati europei che a modelli di amministrazione integrata, in cui la funzione amministrativa è affidata ad entrambi i livelli (europeo e nazionale), su cui vedi s. cassese, Diritti amministrativi comunitari e nazionali, in trattato di diritto amministrativo europeo, a cura di m. p. chiti e g. greco, Milano, 2007, Parte generale, tomo I, p. 5 ss., tuttavia i settori nei quali il modello è applicato sono ancora numerosi, vedi p. chirulli, amministrazioni nazionali ed esecuzione del diritto europeo,  in    in corso di pubblicazione.

23.  Osserva l. daniele, immigrazione e integrazione. Il contributo dell’Unione europea, in i percorsi giuridici per l’integrazione, a cura di g. caggiano, Torino, 2014, p. 74, che la competenza dell’Unione in materia di immigrazione, pur rappresentando un quid novis rispetto alla situazione pre-Lisbona, assume un carattere molto limitato. L’Unione può soltanto incentivare e sostenere l’azione degli Stati membri, ma non può svolgere una azione autonoma che escluda a priori ovvero vada a sostituire, man mano che viene esercitata, quella degli Stati membri. Il carattere limitato della competenza europea in materia risulta inoltre ribadito e chiarito dall’ultimo inciso dell’art. 79, par. 4, che esclude “qualsiasi misura di armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri”.

24.  Vedi: Corte EDU, 28 maggio 1985, Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, § 67; Id., 21 ottobre 1997, Boujilifa c. Francia, § 42; Id., 28 febbraio 2008, Saadi c. Italia, § 124.

25.  Il problema della creazione di un corpo europeo di guardie di frontiera è stato ripetutamente discusso, vedi ad esempio la Comunicazione della Commissione europea, Verso una gestione integrata delle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea, COM (2002), del 25.2.2002. Il dibattito non ha condotto però a nessuna soluzione definitiva. L’Agenzia europea per la gestione della cooperazione (c.d. Frontex), istituita dal regolamento 2007/2004 rappresenta un primo embrionale tentativo. L’Agenzia opera alle frontiere esterne degli Stati membri dell’UE, ma non si sostituisce ad essi nel controllo delle frontiere. L’Agenzia non ha alle sue dipendenze guardie di frontiera, non dispone di mezzi di sorveglianza propri o di mezzi finanziari per acquistarli. I suoi compiti sono essenzialmente di consulenza e di coordinamento delle missioni cui partecipano congiuntamente più Stati membri. Il regolamento istitutivo di Frontex è stato poi modificato ed integrato dal regolamento 863/2007 il quale prevede che, su richiesta di uno Stato membro le cui frontiere siano interessate da un afflusso massiccio di immigrati, l’Agenzia può dispiegare una squadra di intervento rapido alle frontiere (cd RABITs) con il compito di coadiuvare l’attività delle guardie di frontiera dello Stato membro. Su quest’ultimo incombono comunque il comando e la responsabilità. Ancora il regolamento 1168/2011 ha previsto la possibilità di un distacco stabile, presso Frontex, di guardie di frontiera provenienti dagli Stati membri. La competenza e la responsabilità degli Stati membri nel controllo delle frontiere esterne, nonché nelle ricerca e nel salvataggio in mare, non sono messe in discussione neppure dallo strumento più recente introdotto dal regolamento, 22 ottobre 2013, n. 1052/2013 che istituisce il sistema europeo di sorveglianza delle frontiere (Eurosur). Lo scopo di Eurosur è quello di favorire lo scambio di informazioni e la cooperazione dei Paesi membri tra di loro e con Frontex, nonché con i Paesi terzi.

26.  Vedi infra nel testo quanto si dirà a proposito dell’atto amministrativo transnazionale.

27.  Il regolamento sostituisce il precedente regolamento 18 febbraio 2003, 343/2003, cd Dublino II, che a sua volta aveva modificato la “convenzione di Dublino”, entrata in vigore il 1° settembre 1997, in GU I, 254 del 19.8.1997.

28.  Art. 3. 1, Reg.  604/2013 “(…) Una domanda è presentata da un solo Stato membro, che è quello individuato come stato competente in base ai criteri enunciati al capo III”.

29.  Vedi Corte di giustizia, Grande Sezione, 21 dicembre 2011, C-411/10 e C-493/10, N.S. c. Secretary of State for the Home Department, su cui più ampiamente infra nel testo.

30.  Corte di giustizia (Grande Sezione), 21 dicembre 2011, cit., § 79.

31.  Art. 7.1 “I criteri per la determinazione dello stato membro competente si applicano nell’ordine nel quale sono definiti nel presente capo”.

32.  In Italia, la giurisdizione è esercitata dal giudice amministrativo. Vedi Tar Lazio, sez. II quater, 12 novembre 2008, n. 10883, sulla base dell’argomento per il quale “il procedimento sull’individuazione dello stato membro competente ed il conseguente provvedimento di trasferimento del richiedente presso quest’ultimo, non attiene direttamente allo status di rifugiato, ovvero di richiedente asilo politico ( questione sulla quale pacificamente sussiste la giurisdizione del giudice ordinario), ma alla fase distinta a precedente rispetto a quella dell’esame della domanda stessa”. Aggiunge Tar Trentino Alto Adige, sez. Bolzano, 17 gennaio 2012, n. 19 che il potere di ciascuno stato membro di esaminare le istanze di asilo politico assume carattere discrezionale “ alla luce dell’art. 3 del Reg. CE n. 343/2003, secondo cui ciascuno stato membro può esaminare una domanda di asilo presentata da un cittadino di un paese terzo anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabili dal regolamento stesso”. Pertanto l’attribuzione della giurisdizione al giudice amministrativo è coerente anche con il tradizionale criterio di riparto, che gravita sulla distinzione tra diritti ed interessi. Nello stesso senso, da ultimo, Tar Lazio, sez. II 2 aprile 2014, n. 3623.

33.  Art. 29.2 “Se il trasferimento non avviene nel termine di sei mesi, lo Stato membro competente è liberato dall’obbligo di prendere o riprendere in carico l’interessato e la competenza è trasferita allo Stato membro richiedente”. In Italia il ricorso avverso la decisione che individua lo Stato competente e dispone il trasferimento del richiedente non ha un automatico effetto sospensivo. Pertanto, in tutti i casi in cui la sospensione non è concessa dal giudice, il rischio che il provvedimento di trasferimento perda efficacia, nel corso del giudizio, e che il processo si chiuda con una pronuncia di improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse, è concreto, come confermato dal numero elevato delle pronunce di questo tenore del giudice amministrativo. De iure condendo, il legislatore dovrebbe porre rimedio al pericolo che il provvedimento di trasferimento esaurisca il suo termine massimo di efficacia prima della decisione sul ricorso, in merito alla individuazione dello stato competente. La lungaggine del procedimento, e della fase giurisdizionale di decisione sull’eventuale ricorso, è inoltre “costosa” per gli obblighi di assistenza che gravano sullo Stato in pendenza del procedimento di esame della domanda di protezione. Sarebbe sicuramente opportuno prevedere una corsia estremamente accelerata per i processi di impugnazione dei decreti declinatori della competenza e di trasferimento del richiedente verso lo Stato competente.

34.  Vedi Corte di giustizia, 30 maggio 2013, Zuheyr Frayeeh Halaf c. Darzhavna agentsia zu bezhantsite pri Ministerskia savet, C-528/11.

35.  Vedi Corte di giustizia, Halaf,  cit. § 37.

36.  Ma già prima della promulgazione della Carta dei diritti fondamentali del 2000, il principio era ritenuto vigente in Europa non solo in forza della Convenzione di Ginevra, ma anche dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che implicitamente lo riconoscerebbe. L’art. 3 è infatti pacificamente interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel senso di inibire agli Stati ogni forma di trattamento inumano, anche in via indiretta e quindi attraverso l’espulsione, l’estradizione o comunque il rinvio di una persona verso un paese nel quale sarebbe esposta al rischio di subire una qualche forma di maltrattamento. Vedi Corte EDU, 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito, §§ 90-91; Vilvarajah ed altri c. Regno Unito, 30 ottobre 1991, § 103; Ahmed c. Austria, 17 dicembre 1996, §39; H.L.R. c. Francia, 29 aprile 1997, §34; Salah Sheekh c. Paesi Bassi, 11 gennaio 2007, § 135.

37.  L’ambito di applicazione del principio ed il contenuto dell’obbligo di non respingimento, come definiti anche alla stregua della CEDU, sono enunciati nella decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Hirsi Jamaa ed altri v. Italia. Corte EDU, Grand Chamber, 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa ed altri v. Italia, (ricorso 27765/09), in www.echr.coe.int ) ha condannato l’Italia per avere le autorità nazionali ricondotto sulle coste libiche, da cui erano partiti, ventiquattro somali ed eritrei, intercettati il 6 maggio 2009 in alto mare, al di fuori delle acque territoriali italiane e nella zona di ricerca e salvataggio dello stato di Malta. Le operazioni di intercettazione delle imbarcazioni in alto mare e di rinvio dei migranti in Libia avevano fatto seguito ad accordi bilaterali stipulati tra l’Italia e la Libia il 4 febbraio 2009 per la lotta all’immigrazione clandestina e alle organizzazioni criminali legate al traffico illecito e alla tratta delle persone. Sugli episodi di respingimento in alto mare, il Ministro dell’Interno fu chiamato a riferire in Senato, vedi Informativa del Ministro dell’Interno su questioni connesse all’immigrazione e conseguente discussione, Senato della Repubblica, seduta 25 maggio 2009, n. 214. Nel caso Hirsi Jamaa, l’Italia è stata ritenuta responsabile. Le autorità non avevano infatti effettuato alcun accertamento sulla identità, la provenienza, lo stato di salute e l’eventuale minore età dei migranti. Inoltre non avevano informato costoro della possibilità di richiedere la protezione internazionale, non avevano fornito loro alcuna assistenza legale né un interprete. Infine li avevano ricondotti sulle coste libiche senza tener conto del pericolo che avrebbero corso di essere rimpatriati nel paese di origine.

38.  Il rispetto della Convenzione di Ginevra e dal Protocollo del 1967 è previsto dall’art. 18 della Carta dei diritti fondamentali e dall’art. 78 del TFUE. In tal senso la Corte di Giustizia si era già pronunciata nelle sentenze della Grande Sezione, 2 marzo 2010, cause riunite C-175/08, C-176/08, C-178/08, C- 179/08, Salahadin Abdulla e a c. Bundesrepublik Deutschland, § 53 e 17 giugno 2010, C-31/09, Bobol  c. Bevándorlási és Állampolgársági Hivatal, §38.

39.  Corte EDU, 21 gennaio 2011, M. S. S. c. Belgio e Grecia., nello stesso senzo Corte EDU, 21 ottobre 2014, Sharifi et autres c. Italie et Grece, che ha condannato l’Italia per avere respinto in Grecia un gruppo di trentacinque migranti (afgani, sudanesi, eritrei), pur non potendo ignorare che la Grecia ha una bassa percentuale di accoglimento delle richieste di asilo e che perciò c’era un forte rischio di rimpatrio, con pericolo per la vita e la libertà dei ricorrenti.

40.  Corte di giustizia (Grande Sezione), 21 dicembre 2011, C- 411/10, N. S. c. Regno Unito e Irlanda.

41.  Corte EDU,. 2 aprile 2013, Samsam Mohammed Hussein c. Paesi Bassi e Italia, § 51-55. Qui la Corte, dopo aver esaminato le Raccomandazioni dell’UNHCR sugli aspetti rilevanti della protezione dei rifugiati in Italia del luglio 2012, il Rapporto del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa del settembre 2012, alcune decisioni dei giudici di Belgio, Germania e Regno Unito, in qualche caso favorevoli in altri contrarie a bloccare i trasferimenti verso l’Italia per timore di violazione dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo, ha concluso che il sistema italiano di asilo, pur presentando lacune, non dimostra carenze sistemiche tali da ravvisare una violazione dell’art. 3 CEDU nelle decisioni di rinvio dei richiedenti asilo in Italia. Osserva p. mori, Profili problematici dell’accoglienza dei richiedenti asilo in Italia, in i percorsi giuridici per l’integrazione, cit., p. 431 che la decisione assolutoria della Corte EDU non vincola l’esito del procedimento di infrazione avviato dalla Commissione nei confronti dell’Italia per le carenze riscontrate nel sistema di accoglienza. Infatti la Corte di giustizia potrebbe pur sempre ritenere che i limiti del sistema italiano di asilo, non raggiungendo una soglia di gravità tale da giustificare l’applicazione del principio di non refoulement, comportino però la violazione sotto altri profili del diritto dell’Unione e, in particolare, degli obblighi derivanti dalla direttiva procedure e dalla direttiva accoglienza, nonché dal regolamento di Dublino.

42.  Corte EDU, 4 novembre 2014, Tarakhel c. Svizzera e Italia. La Corte riprende i documenti citati nel caso precedente dai quali emerge comunque una evidente sproporzione tra il numero di domande di asilo presentate nel 2013  (più di 14.000) ed il numero dei posti disponibili nelle strutture di accoglienza (9.630); ricorda che il caso riguarda un nucleo familiare del quale fanno parte sei bambini, ovvero soggetti particolarmente vulnerabili; afferma che alla luce dei dati conosciuti, non è destituita di fondamento l’ipotesi che un numero significativo di richiedenti asilo, rinviati in Italia, restino sprovvisti di un luogo dove abitare o siano costretti a vivere in ambienti sovrappopolati, in condizioni insalubri e di violenza. Perciò le autorità del Paese, intenzionato a disporre in rinvio, devono prima sincerarsi presso le autorità italiane che i richiedenti asilo  saranno accolti in strutture adeguate, potranno godere di condizioni adatte all’età dei bambini e che l’unità della famiglia sia conservata. Per un commento alla sentenza vedi f. mastromartno, Verso la delegittimazione del sistema Dublino? ( a margine di Corte EDU, Tarakhel c. Svizzera), in www.diritticomparati.it (22 dicembre 2014).

43.  La stessa Commissione aveva mostrato di prendere atto delle disomogeneità esistenti tra gli Stati e di come queste di fatto minano il funzionamento del sistema. Una revisione delle regole esistenti era stata dunque caldeggiata nella “Relazione sulla valutazione del sistema di Dublino”, del 6 giugno 2007, COM (2007), 299 e nel Libro verde sul futuro regime comune europeo in materia di asilo, COM (2007) 301. In questi documenti, la Commissione, pure rivendicando la bontà della scelta di fissare criteri oggettivi “chiari ed efficaci” per individuare lo Stato membro competente, aveva manifestato qualche dubbio sul buon funzionamento del sistema e la percezione che situazioni locali di oggettiva carenza del livello di protezione e del sistema di accoglienza possono inceppare il sistema di distribuzione della competenza tra gli Stati. Malgrado queste affermazioni le modifiche che il Regolamento Dublino III, n. 604/2013 apporta al precedente Regolamento  n. 343/2003, c.d. “Dublino II” non investono le linee essenziali del sistema vigente. Tali modifiche riguardano la definizione di familiare, rilevante ai fini della individuazione dello Stato competente; l’effetto sospensivo del ricorso; i termini per la procedura di ripresa in carico; il possibile trattenimento del richiedente per evitare pericoli di fuga; lo scambio di informazioni sanitarie a tutela del richiedente.

44.  La nuova Direttiva qualifiche non si discosta di molto dalla precedente Direttiva 2004/83/CE, la quale era comunque considerata come lo strumento meno problematico tra quelli approvati durante la prima fase di attuazione del sistema comune europeo di asilo.

45.  Nell’esaminare e decidere sulla domanda di protezione, le amministrazioni degli Stati membri devono verificare la sussistenza dei presupposti del riconoscimento attualmente sanciti dalla direttiva 2011/95/UE che modifica la precedente 2004/83/CE. La direttiva del 2011 è recepita in Italia dal d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 18. La disciplina internazionale, e in primo luogo la Convenzione di Ginevra del 1951, cui il diritto europeo si conforma, attribuisce lo status di rifugiato a chi ha personalmente ha subito, o ha il fondato timore di subire, persecuzioni da parte dello stato di origine. La disciplina italiana, di rango costituzionale, è diversa. Per un certo periodo, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha accolto la tesi della portata  immediatamente precettiva dell’art. 10, comma 3, Cost., che attribuisce il diritto di asilo a chiunque provenga da un paese nel quale è generalmente impedito l’esercizio delle libertà democratiche, indipendentemente dalla sua condizione personale. Come conseguenza dell’immediata portata precettiva della norma della nostra Costituzione, si è ammesso che lo straniero possa far valere davanti al giudice italiano il diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo, ricorrendo le meno restrittive condizioni prescritte dalla norma interna, cfr. Cass., sez. un., 17 dicembre 1999, n. 907; id., 26 maggio 1997, n. 4674, in Riv. amm., 1997, p. 927. In dottrina, cfr. c. esposito, voce “Asilo (dir.cost.)” in Enc. Dir. Milano, 1958, vol. III, p. 223 e a. cassese, sub. Art. 10, in Commentario Branca, Bologna, 1975, p. 523. L’indirizzo, non condiviso da una parte della giurisprudenza di merito, cfr. App. Firenze, 9 maggio 2005, in Nuova giur. civ. comm. 2006, I, p. 524, con nota di s. e. pizzorno, In tema di asilo politico, e App. Firenze, 13 aprile 2004, in Foro it., 2005, I, c. 244, è stato poi superato dalla stessa Cassazione, cfr. Cass., sez. I, 25 novembre 2005, n. 25028, in Giur. it., 2007, c. 318; id., 25 agosto 2006, n. 18549 in Foro it., 2007, I, c. 1869; id., 1 settembre 2006, n. 18940, in Giust. Civ., 2007, I, p. 625. Sul tema di recente e. giovanardi, Diritto di asilo e status di rifugiato: presupposti diversi ma eguale (e negata) tutela, in Corriere del merito, 2010, p. 511, in commento a Trib. Milano, 12 novembre 2009, che ha dichiarato inammissibile la richiesta di riconoscimento del diritto di asilo in Italia, ai sensi dell’art. 10, comma 3, Cost., in un caso nel quale la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato era già stata presentata in altro Stato dell’Unione europea, così riconoscendo che la disciplina europea prevale su quella nazionale, ancorché di rango costituzionale, e la sostituisce.

46.  Ad esempio, la portata dell’art. 15, lett. c) della direttiva qualifiche è chiarita dalla celebre sentenza della Corte di giustizia, 17 febbraio 2009, C-465/07, Elgafaji che fornisce l’interpretazione  su di un punto chiave della direttiva. La minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria può essere considerata provata quando il grado di violenza che caratterizza il conflitto armato in corso, raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi per ritenere che, in caso di rientro, un civile correrebbe un rischio effettivo di subire detta minaccia, per la sua sola presenza sul territorio dello stato. Nella sentenza 9 novembre 2010, C-57/09 e C-101/09, B. e D., la Corte ha escluso che la circostanza per la quale una persona abbia fatto parte di una organizzazione iscritta nell’elenco di cui all’allegato della posizione comune del Consiglio 27 dicembre 2001, 2001/931/PESC, relativa all’applicazione di misure specifiche per la lotta al terrorismo, per il suo coinvolgimento in atti terroristici e abbia attivamente sostenuto la lotta armata condotta da tale organizzazione non costituisce automaticamente un motivo fondato per ritenere che la persona considerata abbia commesso un “reato grave di diritto comune” o “atti contrari alle finalità ed ai principi delle Nazioni Unite” ed ha affermato che la responsabilità individuale deve essere valutata caso per caso dalle autorità competenti. La sentenza 5 settembre 2012, C-71/11 e C-99/11, interpretando l’art. 9, par. 1 lett. a) della direttiva qualifiche, afferma che perché si abbia atto di persecuzione, nell’accezione di cui alla direttiva,  le autorità competenti devono verificare, alla luce della situazione personale dell’interessato, se questi corra un rischio effettivo di essere perseguitato, o di essere sottoposto a trattamenti o pene disumane o degradanti a cause dell’esercizio della libertà di religione nel suo paese di origine.     

47.  Una definizione di atto amministrativo transnazionale è fornita dal recente studio di a. s. gerontas, Deterritorialisation in administrative law: exploring transnational administrative decision, in Columbia Journal of Europea Law, vol. 13, n. 3/2013, p. 17 per il quale “transnational administrative decision is any state decision of the executive branch directed to produce legal effects outside the territory of the state where the competent issuing authority is located”. Il termine “transnazionale” è dunque impiegato dall’A, e l’utilizzo sembra corretto, nel significato tradizionale che esso assume nella espressione “diritto transnazionale”, ovvero “all law which regulates actions or events that trascend national frontiers”, secondo la definizione classica fornita da p. c. jessus, Transnational law, New haven, 1956.

48.  p. chirulli, Amministrazioni nazionali ed esecuzione del diritto europeo, cit. riporta l’esempio dell’autorizzazione alla commercializzazione dell’acqua minerale. Il provvedimento dell’amministrazione dello stato membro, che certifica la qualità dell’acqua alla stregua dei parametri qualitativi ed organolettici stabiliti dalla normativa europea, è efficace in tutto il territorio dell’Unione ed è vincolante per gli altri Stati membri. Questi possono soltanto adottare misure temporanee di salvaguardia ove abbiano motivi fondati per ritenere che l’acqua non sia conforme alle disposizioni della direttiva.

49.  Un riferimento alla crisi del postulato della signoria esclusiva dello stato sul proprio territorio per effetto del diritto europeo, in  g. della cananea, Diritto amministrativo europeo. Principi e istituti, Milano, 2006, p. 8.

50.  Il legame è ben evidenziato nel recente lavoro di s. torricelli, Libertà economiche europee e regime del provvedimento amministrativo nazionale, Rimini, Maggioli, 2013, p. 103 ss.

51.  L’esempio è riportato da a. s. gerontas, Deterritorialisation in administrative law: exploring transnational administrative decision, cit., p. 41.

52.  Gli attentati terroristici di Parigi, del gennaio 2015, hanno riportato in primo piano la richiesta di maggiori informazioni sui movimenti alle frontiere interne.

53.  Una richiesta era stata presentata dal Governo italiano, che aveva fatto appello alla procedura per cercare di fronteggiare gli arrivi via mare dalla Tunisia nei primi mesi del 2011. Anche in questi giorni, l’avvio della procedura prevista dalla direttiva 55/2001 è bloccato dall’opposizione di molti Stati.

54.  Su questi aspetti, vedi g. morgese, Solidarietà e ripartizione degli oneri in materia di asilo nell’Unione europea, in Percorsi giuridici per l’integrazione, cit. p. 388 ss. Una proposta originale è avanzata da h. repoport e f. h. moraga, Tradable refugee-admission quotas: a policy proposal to reform the Eu asylum policy, EUI working paper, RSCAS, 2014 e, degli stessi autori, Tradable immigration quotas, in Journal of public economics, 2014, p. 94 ss. La proposta consiste nel fissare preliminarmente il numero massimo di rifugiati che possono essere ospitati in Europa e quindi assegnare ai vari Paesi quote commerciabili.

55.  I criteri oggettivi di “riallocazione” sono quelli per i quali non sono gli Stati a decidere la quota di individui da accogliere sul proprio territorio. La quota è invece fissata dalle istituzioni centrali sulla base di parametri oggettivi e dati quantitativi, quali il Pil, l’estensione territoriale degli Stati, la densità della popolazione. L’introduzione di parametri di questo tipo è suggerita nella risoluzione del Parlamento dell’11 settembre 2012, (2012)0310.

56.  Con particolare riferimento alla questione della sovranità monetaria nei paesi della c.d. area euro, g. guarino, Verso una fase costituente dell’Unione europea, in Riv.it. dir. pub. com. 2009, 1287, sottolinea l’incompiutezza del processo di integrazione per il fatto che la sovranità resta in sospeso tra Stati-non Stati, che hanno rinunciato a buona parte della loro sovranità, e l’Unione, che non ha – e non svolge – le funzioni di ente politico.