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Anamorfosi dello “spread” (Globalizzazione finanziaria, guerre valutarie e tassi di interesse dei debiti sovrani)

di - 7 Maggio 2013
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5. L’innesco del carry trade sul dollaro

Se il cambio del dollaro scende rispetto all’euro – come è avvenuto dal settembre 2012 – si innesca una aspettativa negativa sulla debolezza del dollaro che, a sua volta, riattiva il carry trade su quella moneta.
In altri termini, la speculazione finanziaria, con un dollaro che perde al cambio con l’euro, ha convenienza ad indebitarsi in dollari per investire in euro, dato il bassissimo tasso di interesse praticato dalla FED, lucrando così sul differenziale del cambio e sul tasso di interesse dei titoli di Stato “europei”, aventi rendimenti più elevati di quelli dei titoli americani.
Si ripete il fenomeno che si era determinato a partire dal 2002 – e che era andato accentuandosi in maniera rilevante nel periodo 2006-2008– del deprezzamento del 40% del cambio del dollaro sull’euro (cfr. figura 1) come conseguenza dell’intervento della FED che, immettendo liquidità in eccesso ed a basso costo per sostenere la leva del debito nel mercato finanziario, aveva determinato la continua svalutazione del dollaro.
In altri termini, il carry trade, solo temporaneamente tamponato, con “l’attacco all’euro” nel 2011, si sta manifestando nuovamente[3].
Contenerlo in costanza di una politica monetaria espansiva da parte della FED, infatti, è una impresa non semplice.
Per capire la difficoltà in cui si imbatte la FED nel cercare di tenere sotto controllo il carry trade sul dollaro, bisogna richiamare l’attenzione su alcuni profili particolarmente critici del contesto di riferimento: l’imponente dimensione della massa monetaria espressa in dollari – che rappresenta circa i 2/3 della liquidità monetaria mondiale – e la natura dei suoi detentori i quali si trovano più al di fuori che dentro gli USA, sono global player del “meta mercato finanziario” che, in tale ambito, agiscono essenzialmente come“battitori liberi[4].
Nonostante il consistente supporto al dollaro dato dalla svalutazione dello yen, decisa in concomitanza dell’avvio del terzo QE da parte della FED nel settembre del 2012, che obbiettivamente controbilancia, con flussi monetari in entrata sul dollaro quelli in uscita dal dollaro verso l’euro, il trend del cambio del dollaro sull’euro rimane negativo.
Ed in effetti, come riferisce la stampa specializzata ancora nel mese di marzo 2013, pur in presenza di un carry trade sullo yen che sembrerebbe pilotato esclusivamente a favore del dollaro – stante che i flussi monetari dallo yen su altre monete sembrano di fatto irrilevanti – i flussi in uscita dal dollaro verso l’euro non si stabilizzano[5].
Ad ogni modo, la percezione dello stabilizzarsi di un trend negativo sul cambio della valuta statunitense continua a fare inclinare il piano di questa ondeggiante massa monetaria espressa in dollari. L’investimento è orientato in particolare verso l’euro ed alimenta così ulteriormente le aspettative della speculazione “contro” la moneta americana.
Ne consegue che, nella scelta di chi si allontana da un dollaro percepito in indebolimento, gli investimenti in euro si rafforzano in generale – ed è così che anche le quotazioni del mercato azionario nell’Eurozona mostrano nel complesso un andamento positivo.
In allontanamento dal dollaro, i detentori globali di liquidità vedono buone occasioni di investimento anche sui titoli del debito pubblico in euro.
L’investimento speculativo guarda ovviamente – e principalmente – al rendimento delle diverse emissioni in euro, cioè al tasso di interesse corrisposto ed alla scadenza del titolo, nonché alla quotazione dei titoli sul mercato libero.
Anche la qualità dello Stato emittente, cioè la percezione della solvibilità del singolo Stato nel medio lungo periodo, gioca certamente un ruolo importante: essa spiega appunto i differenziali tra i tassi interni all’Eurozona, ma non spiega, invece, la tendenza di fondo che influenza prioritariamente i tassi stessi, e che dipende dall’andamento del cambio tra dollaro e euro.
Gli afflussi monetari in entrata accrescono le disponibilità in dollari e creano un surplus monetario nell’Eurozona.
La BCE è in grado intervenire con maggiore facilità e, a questo punto, dopo le dichiarazioni del suo Presidente M. Draghi – che sono state una specie di contro bluff vincente – sulla intenzione della Banca Centrale di fare «tutto il necessario per proteggere l’euro», scommettere al ribasso sull’euro diventa più rischioso per la speculazione, che non ama perdere e corre in soccorso al vincitore.
Se, dunque, non sono percepiti rischi di insolvenza nei titoli dell’Eurozona ed anzi l’euro in rafforzamento ne allontana la prospettiva, le emissioni di titoli di Stato in tale valuta, anche quelle degli Stati con i rating più bassi (ed in barba alle stesse valutazioni delle agenzie specializzate) divengono “appetibili” in quanto corrispondono interessi più elevati per una liquidità in dollari che cerca investimenti speculativi approfittando della – e, al contempo, coprendosi dalla – svalutazione della moneta USA.
Tali dinamiche determinano, dunque, una diminuzione generalizzata – anche se differenziata – dei tassi di interesse del debito pubblico dell’Eurozona.
In questo contesto pro-ciclico per l’euro, infatti, i rendimenti dei titoli del debito pubblico di Irlanda, Spagna, Portogallo e Italia si riducono in misura proporzionalmente maggiore rispetto a quelli più sicuri. Conseguentemente, anche il differenziale con i titoli tedeschi tende a ridursi, perché questi ultimi, già molto contenuti, non possono scendere ulteriormente e con la stessa intensità dei primi.
Il miracolo della riduzione dello spread si spiega semplicemente con la legge della domanda e dell’offerta che, in presenza di una eccessiva liquidità in dollari in cerca di investimenti finanziari, erode il cambio della valuta USA.

Note

3.  Su tali profili sui quali non è possibile approfondire la riflessione nell’ambito del presente scritto, sia consentito rinviare a Teoria e critica della globalizzazione finanziaria. Dinamiche del potere finanziario e crisi sistemiche, Cedam, Padova, 2011, in particolare pp. 419 e ss.

4. Ibidem, pp. 220 e ss.

5.  In sostanza, siamo all’interno delle alleanze e belligeranze sui cambi che connotano la guerra valutaria globale, su cui rinvio ancora al mio Teoria e critica della globalizzazione finanziaria, op. cit., in particolare pp. 353 e ss.

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