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Anamorfosi dello “spread” (Globalizzazione finanziaria, guerre valutarie e tassi di interesse dei debiti sovrani)

di - 7 Maggio 2013
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4. Il tasso di interesse del debito pubblico dipende principalmente dal cambio dollaro/euro

Di conseguenza, la convinzione che la riduzione o l’aumento dello spread sia dipeso e dipenda principalmente dall’azione del Governo italiano è fortemente radicata nell’opinione pubblica ed è sostenuta di un pensiero finanziario unico.
Afferma al riguardo lo stesso Presidente M. Monti – ma anche questa è solo una autorevole citazione tra le tante – : «Dal primo luglio (2011) la crisi dello spread è entrata nel vivo: 185 punti. La salita è stata inarrestata fino al massimo di 558 del 9 novembre (2011). Quel giorno Napolitano mi ha annunciato la nomina. Da lì è sceso a 410 del 6 dicembre, dopo il  nostro decreto legge …».
Il discorso, anche se il Presidente Monti non lo dice espressamente, sembra lasciare intendere che sia stato il decreto legge cd. “Salva Italia” ad invertire la tendenza, appunto, come dice il nome, innescando il processo di salvezza.
Nella stessa prospettiva anche la Banca d’Italia, allorché afferma – cito fonti giornalistiche – che il differenziale corretto con i Bund dovrebbe essere intorno ai 200 punti.
Il ragionamento sembra muoversi nella stessa linea interpretativa: dati i fattori strutturali di base delle due economie, se viene eliminato il fattore anomalo del divario di credibilità politica, lo spread con la Germania dovrebbe attestarsi all’incirca in quell’ordine di riferimento.
Ancora più recentemente sulla stampa quotidiana e sempre su internet è dato leggere «Il premier uscente (Monti) aveva indicato come obiettivo quota 287, ossia la metà di quei 574 punti ereditati dal governo Berlusconi a novembre 2011…».
Insomma, la correlazione tra l’azione politica del Governo e l’andamento dello spread appare così ovvia a tutti da non necessitare di particolari spiegazioni. È stata l’azione del Governo Monti che, divenendo maggiormente credibile rispetto a quello precedente, ha consentito di raggiungere l’obbiettivo dando il segnale di controtendenza per un allentamento della speculazione contro il nostro debito pubblico.
E quando nella giornata del 2 gennaio 2013 lo spread è sceso a 287 punti, raggiungendo per la prima volta la soglia obiettivo del Premier dimissionario, il Presidente Monti soddisfatto afferma su Twitter: «Finalmente…»
«Finalmente …». Va bene …  “obiettivo” raggiunto.
Ma è veramente così?
C’è da chiedersi: come è possibile che lo spread sia sceso e abbia continuato a scendere – intorno a 260 punti – nonostante il Governo Monti fosse dimissionario, mentre sulla sponda del Reno si affacciava una Merkel trionfante, un Governo in forte recupero di consensi, con un Pil in crescita ed un debito pubblico in effettivo contenimento.
Lo spread sarebbe dunque sceso nonostante da noi i tre fattori critici fossero negativi, a differenza di quanto, invece, avveniva in Germania.
L’affidabilità del Governo italiano vacillava al centro di uno scontro politico-elettorale in cui la nostra classe politica dava il “meglio di sé”; il debito pubblico era intanto aumentato di circa 100 Mld di euro durante l’ultimo Governo (seppure con un tasso di crescita inferiore rispetto a quello del precedente esecutivo); ed anche il rapporto tra Pil e debito pubblico segnava un ulteriormente peggioramento.
Ciononostante lo spread scendeva.
Si potrebbe gridare al miracolo?
Il fatto è che lo spread tra Italia e Germania, a questo punto dovrebbe essere chiaro, ha – di per sé – poco a che vedere con l’andamento del tasso di interesse sul debito: non è l’indicatore sintomatico delle cause di modifica del tasso di interesse ma, semmai, ne è una sua conseguenza.
C’è un’inversione dell’ordine delle causalità sulle quali è necessario riflettere.
È sul tasso di interesse in quanto tale che si deve concentrare l’attenzione, distogliendola dalle ossessive icone mediatiche e dai diagrammi sull’andamento dello spread.
Ed in effetti, se si considera il problema delle oscillazioni dei tassi in modo oggettivo è difficile non convenire sul fatto che il tasso di interesse dipende essenzialmente dalla domanda di titoli del debito pubblico.
Se la richiesta dei titoli cresce, il prezzo del collocamento simmetricamente sale e, dunque, il tasso di interesse si abbassa.
La domanda di titoli dipende, a sua volta, essenzialmente dall’offerta di moneta a fronte di certe ipotesi di costo e rendimento dei titoli.
Se le cose stanno in questo modo, allora la domanda da porsi è la seguente: cosa è che, a partire dal terzo trimestre del 2012, sta spingendo la liquidità monetaria verso (anche) i nostri Btp, facendo salire la domanda di titoli di Stato italiani in modo tale da abbatterne il costo, determinando di conseguenza anche la diminuzione dello spread tra Bund e Btp decennali, nonostante il peggioramento di quei fattori critici che, secondo la vulgata dominante, avrebbe dovuto spingere in alto lo spread ?
A questo punto dovrebbe apparire chiaro che la risposta a tale quesito, prescindendo completamente dalla “forzata correlazione” dei titoli di debito di Italia e Germania, vada più correttamente ricercata in un fattore esogeno agli stessi e che incide su entrambi condizionandone l’andamento.
Nella sostanza, la ragione della parabola discendente dello spread è che la domanda dei titoli di debito pubblico espressi in euro (quindi di tutti gli Stati membri dell’Eurozona) dipende, in prima battuta ed essenzialmente, dal tasso di cambio tra il dollaro e l’euro.

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