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Brexit: un divorzio antistorico che può cambiare l’UE (*)

di - 5 Luglio 2016
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La storia di tale Paese, le sue modalità relazionali con l’UE facevano, infatti, ritenere che sarebbe prevalsa una «scelta» effettuata sulla base di un criterio di razionalità economica, che in Gran Bretagna sembra proporsi in chiave autoreferenziale, come unico para­digma di regolazione della convivenza. Tale scelta – ove fondata sul confronto tra i possibili benefici economico finanziari rivenienti da un’eventuale uscita del Regno Unito dall’Unione e le contrapposte implicazioni negative riscontrabili sui saldi delle partite correnti e dei movimenti di capitale, sul mercato azionario e obbligazionario, su quello immobiliare britannico, oltre che sulla sterlina[21]– avrebbe dovuto indurre ad apprezzare la convenienza economica dell’adesione all’UE (previa verifica dei dati quantitativi che consentissero di giustificarne la prosecuzione).
In altri termini, appariva ipotizzabile che l’opzione tra l’in o l’exit, sul piano metodologico, avrebbe visto i vertici politici del Regno Unito impegnati in una sorta di calcolo microeconomico tra ‘costi e benefici’,[22] in linea con i principi di mercato (e, dunque, meramente strumentale al conseguimento di un’allocazione efficiente delle risorse disponibili). E’ evidente, peraltro, la sostanziale rigidità applicativa del canone di valutazione in parola; nelle decisioni riguardanti le relazioni tra i paesi UE il ricorso ad esso tende spesso ad escludere (considerandola presupposto di un equilibrio sub ottimale) la praticabilità di un’azione congiunta tra gli Stati membri (se del caso improntata a principi di solidarietà, come quella richiesta per la soluzione della problematica delle migrazioni sopra richiamate) qualora i costi di quest’ultima vengano reputati superiori ai benefici rivenienti dalla continuità della permanenza all’ interno dell’Unione Europea[23].
L’opportunità di mantenere immutati i vantaggi derivanti dalla partecipazione all’UE sembrava, in tale logica, dovesse prevalere. Ciò, nonostante le possibili implicazioni negative di tale adesione, la quale era avvertita (rectius: subita) con crescente disagio dal Paese, poco propenso ad accettare condizionamenti esterni che, ad avviso di molti, erano considerati una minaccia alla conservazione dell’elevato livello di welfare raggiunto (con ovvie conseguenze sugli equilibri socio economici interni).
In tale ordine d’idee, tempo addietro ho espresso il convincimento che il referendum si sarebbe concluso con un’opzione a favore del ‘Remain’, chiaramente riferibile a valutazioni di carattere neutrale[24]. E’ evidente come, alla luce del recente esito della consultazione elettorale, queste ultime si siano rivelate poco conferenti nel mettere a fuoco la complessa realtà in osservazione, evidenziando l’inadeguatezza del metodo sopra richiamato per la definizione di questioni di carattere socio politico. Ed invero, si è ben compreso che il positivo impiego di tale metodo – da parte dei paesi che intendano avvalersene in presenza di situazioni economiche complesse, nelle quali necessitano processi di sintesi tra variegati e molteplici fattori – non potrà prescindere dal correlare le valutazioni da porre in essere alle finalità di carattere generale, cui gli interventi pubblici devono essere orientati[25]; ciò dovendosi, nel contempo, tener presente che le manifestazioni di voto sono spesso condizionate anche da fattori emotivi (che possono travolgere le aspettative frutto di analisi economica e di negoziazione politica)[26].
Confermava tale mia opinione il riferimento alle conseguenze economiche di tale way out considerate dagli analisti e da insigni economisti meno significative per l’Unione di quanto avrebbero potuto esserlo per la Gran Bretagna (tenuto conto vuoi dell’ammontare dell’export complessivo degli Stati mem­bri verso tale Paese, vuoi dell’intrinseca difficoltà di calcolare i riflessi negativi di un cambiamento destinato ad incidere sull’operatività finanziaria del Regno Unito)[27]. Ciò posto, non mancavo di sottolineare la chiara sensazione che l’utilizzo del metodo costo/benefici avrebbe potuto esaurirsi in una «miope e restrittiva visione microeconomica», poco attenta alla valutazione degli interessi altri connessi agli interventi da porre in essere (fatalmente destinati ad essere pretermessi ove si trascuri l’obiettivo del benessere comune)[28].
Concludendo sul punto può dirsi che il referendum si è svolto all’interno di una logica connotata da interesse ed emotività, la quale comunque non appare riconducibile alla dialettica pluralistica su cui dovrebbe fondarsi il dibattito politico volto a ricercare forme di ottimale convivenza democratica. Per converso, nella fattispecie, sarebbe stata necessaria l’affermazione di una dialettica siffatta al fine di pervenire a  soluzioni che, nel soddisfare le istanze utilitaristiche del U.K., avrebbero potuto consentire un rafforzamento dei legami tra quest’ultimo e l’Unione, in linea con un coinvolgimento destinato a sfociare quanto meno in una maggiore coesione.

5.       Alla luce di quanto precede occorre chiedersi cosa sia accaduto, come possa spiegarsi l’abbandono di una linea comportamentale coerente con la ratio che, nel tempo, ha guidato le relazioni tra la Gran Bretagna e l’Unione Europea. Sono questi gli interrogativi ai quali non è possibile dare risposte certe e di pacifica condivisione; ciò, soprattutto nel riferimento alle ripercussioni che la Brexit sta avendo in U.K. ove – sotto l’impulso emotivo di un cambiamento pieno d’incognite (destinato a negare le speranze di molti giovani già pervasi da un avvincente spirito europeo) –  si avanzano proposte variegate che vorrebbero annullare il risultato di un voto che viene rifiutato da ampi strati della popolazione.
Saranno le analisi dei tempi a venire a chiarire le ragioni di una decisione che desta amarezza e preoccupazione; appare, comunque, fin da ora chiaro che sulla cultura e sulla razionalità sono prevalsi i sentimenti di un Paese che ha voluto dire no all’integrazione con gli Stati continentali. La countryside inglese – poco edotta in ordine alla reale portata del processo d’europeizzazione in atto[29] – ha dato ampio spazio ad una spirale nazionalistica (che ha beneficiato del consenso di gran parte dell’elettorato ultrasessantenne) fondata sui nostalgici ricordi di un irripetibile passato. A ciò si aggiungano gli effetti del richiamo all’indipendenza, la quale – contrariamente al significato letterale del termine – esprime, nella fattispecie, intolleranza per i vincoli normativi imposti dall’UE, nonché carenza di solidarietà e condivisione per l’altra Europa. Sicchè, centri universitari d’eccellenza, come Oxford, Cambridge ed altri ancora hanno dovuto cedere il passo ad una sorta di ribellione dei ceti medio-bassi i quali, sentendosi emarginati, hanno voluto spezzare i legami con i paesi continentali nell’erroneo convincimento di eliminare in tal modo le cause della propria insoddisfazione.
Sono riscontrabili, quindi, comportamenti differenziati tra l’elite economica britannica – la quale, con tutta probabilità, ha circoscritto la sua valutazione in termini di costi-benefici, manifestando la propensione a ‘restare nell’UE’ (e significativo, al riguardo, deve ritenersi l’atteggiamento del mondo della finanza schierato per l’affermazione del «Remain») -, il mondo della cultura e dell’università sensibilmente predisposti ad un’apertura politica sovranazionale, da un canto, e il resto della popolazione, mossa da considerazioni diverse, nazionalistiche e xenofobe, che hanno spinto per il «leave», dall’altro. Quest’ultima, incurante del ‘prezzo’ economico da pagare, è apparsa preoccupata prevalentemente del problema delle migrazioni (non solo extracomunitarie) percepite come una sorta di ‘invasione straniera’, divenendo vittima di ingannevoli promesse di politici che hanno approfittato della sua disinformazione[30]. Da qui l’emersione di una triste realtà nella quale non ha trovato cittadinanza alcuna lo spirito europeistico che, invece, avrebbe potuto guidare la «scelta» della permanenza o meno nell’Unione della popolazione britannica.

Note

21.  Da far presente sul punto che alcuni studiosi (cfr. Campos e Coricelli,  Some unpleasant Brexit econometrics, visionabile su www.voxeu.org/article/some-unpleasant-brexit-econometrics), avevano comunque sottolineato che qualunque fosse stato il risultato del «in-or-out referendum» per l’adesione all’UE, il rapporto della Gran Bretagna con l’Unione Europea sarebbe cambiato in modo sostanziale.

22.  Sul punto cfr. tra gli altri Sen, The Discipline of Cost-Benefit Analysis, in Journal of Legal Studies, 2000, 931-952; Cagliozzi, Lezioni di politica economica. Napoli, 2001; Campbell – Brown, Benefit-Cost Analysis. Financial and Economic Appraisal using Spreadsheets, Cambridge, 2003; Adler – Posner, New Foundations of Cost-Benefit Analysis, Cambridge, 2006; Boardman et al., Cost-Benefit Analysis: Concepts And Practice, New Jersey, 2011; Sinden, Formality And Informality In Cost-Benefit Analysis, in Utah Law Review, 2015. p. 93-172.

23.  Sul trade-off tra efficienza ed equità che conduce a soluzioni second-best, cfr. il classico lavoro di Lipsey – Lancaster, The Genarel Theory of Second Best, in Review of Economic Studies, n. 24, 1956.

24.  Cfr. Capriglione, The UK Referendum and Brexit Hypothesis (The Way Out Perspective and the Convenience to ‘Remain United’), in Open Review of Management, Banking and Finance, marzo 2016.

25.  A tal proposito cfr. per tutti Adler, Well-Being and Fair Distribution: Beyond Cost-Benefit Analysis, Oxford, 2012.

26.  Cfr. l’editoriale di Moavero Milanesi, Brexit, più dei numeri contano le emozioni, pubblicato in il Corriere della Sera  del 17/6/2016.

27.  Gli analisti avevano calcolato una sicura riduzione dell’operatività della City di Londra qualora il referendum avesse approvato la Brexit che di certo avrebbe determinato il trasferimento di parte dell’attività svolta da questa alla piazze dell’area euro, cfr. sul punto l’editoriale pubblicato da Milano Finanza del 24 febbraio 2016 col titolo L’impatto della Brexit in cinque punti, visionabile su www.milanofinanza.it/news/l-impatto-della-brexit-in-cinque-punti. In senso conforme si è espresso anche l’insigne economista Krugman, v. l’intervista  di Haas e Tost intitolata «PAUL KRUGMAN: What’s going on in China right now scares»,  visionabile su http://uk.businessinsider.com/paul-krugman-interview-china-greece-brexit-2016, nella quale alla domanda «Turning to Europe, what do you think about Brexit?» fa riscontro l’inequivoca risposta :«For Britain to be pulling out of that is a bad thing economically».
Un’opinione contraria è stata, invece, formulata da un’altro famoso economista Stigliz  in un evento organizzato dal Labour Shadow Chancellor John McDonnell, cfr. l’editoriale Brexit better for Britain than toxic TTIP, says Joseph Stiglitz, visionabile su  www.rt.com/uk/334409-brexit-ttip-stiglitz-eu/, nel quale si riporta la precisazione «I think that the strictures imposed by TTIP would be sufficiently averse to the functioning of government that it would make me think over again about whether membership of the EU was a good idea».

28.  Cfr. Capriglione, The UK Referendum and Brexit Hypothesis (The Way Out Perspective and the Convenience to ‘Remain United’), cit., paragr. 4.

29.  Come è dato desumere dal picco di ricerche su ‘Che cos’è l’UE’ attuate tramite Google all’indomani del voto referendario, cfr. www.repubblica.it /tecnologia /2016 /06 /24/news /brexit_dopo_i_risultati_in_uk_e_boom_di_ ricerche_su_google _che_cos_e_l_ue)

30.  Cfr. l’editoriale Brexit, Farage fa marcia indietro: 350 mln di sterline dellʼUe non andranno più alla sanità pubblica,
visionabile su www.tgcom24.mediaset.it/mondo/brexit-farage-fa-marcia-indietro-350-mln-di-sterline-dell-ue-non-andranno-piu-alla-sanita-pubblica, nel quale  si precisa che «lʼindiscusso vincitore del divorzio tra Regno Unito e Bruxelles disconosce il suo cavallo di battaglia: le somme prima versate alle casse comunitarie non finiranno ai cittadini».

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