Brexit: un divorzio antistorico che può cambiare l’UE (*)

Sommario: 1. La difficile valutazione degli esiti del Referendum U.K. – 2. Il rapporto tra la Gran Bretagna e l’UE: dalla scarsa empatia al consolidamento di una posizione privilegiata. – 3. Il pragmatismo britannico: le errate valutazioni del Premier Cameron … – 4. (Segue):  … e le aspettative di un voto referendario fondato sul calcolo costi/benefici. – 5. Una riflessione sulle ragioni del «leave». – 6. La concreta gestione del cambiamento: l’art. 50 del TUE e l’atteggiamento attendista del Regno Unito. – 7. (Segue):  l’esigenza dell’UE di pervenire ad una pronta definizione dell’exit.  – 8. Conclusioni.

1.       E’ difficile, se non impossibile, riflettere nel pieno di una tempesta sugli effetti che da questa potranno derivare; si è preda, infatti, di sentimenti diversi, dalla paura alla affannosa ricerca di forme reattive che consentano di superare l’impatto negativo di ciò che sembra travolgere tutto e tutti. Questo è lo stato d’animo con cui molti cittadini europei la mattina del 24 giugno u.s. hanno affrontato la scioccante notizia della vittoria del «leave» in U.K. Al senso di grande tristezza recato da un evento che, a parere di molti, appare poco comprensibile, è subentrato presto il desiderio di ricercare le ragioni profonde che possono aver indotto il popolo britannico ad una scelta tanto traumatica, non solo per il popolo inglese, bensì per l’intera Unione; un scelta che, d’un tratto, cancella una pluridecennale relazione politica e socio economica tra la Gran Bretagna e l’Europa e, al contempo, mette in discussione gli stessi fondamenti dell’UE. Lo stupore – che ha subito affiancato il rispetto dovuto ad una decisione assunta con metodo democratico – si è tradotto nella preoccupazione determinata dalla incertezza di un futuro pieno di incognite; donde il giudizio espresso da  numerosi politologi ed economisti che hanno definito ‘poco lungimirante’ l’opzione per la Brexit, voluta dal 52% dei britannici e salutata con entusiasmo dai movimenti populistici europei di tendenze estremiste.
I risultati del referendum mostrano una Gran Bretagna chiaramente spaccata al proprio interno – stante il forte divario socio culturale evidenziato dalla polarizza­zione degli esiti elettorali – e minata dalle istanze separatiste della Scozia e dell’Irlanda del nord[1]; in tale contesto, appare paradossale il fatto che Londra, una delle città più internazionali ed inclusive del mondo, sia stata estromessa dal progetto della Unione[2]. Contestualmente da essi emerge una realtà europea contraddistinta dalla esigenza di un’ineludibile presa d’atto dei limiti del «neo-funzionalismo», in passato suggerito da Jean Monnet (secondo cui l’avvio di processi di integrazione economica sarebbe tracimato in forme di aggregazione a valenza anche politica)[3]; presa d’atto che investe, altresì, la fallimentare adozione del meccanismo comitologico, fondato su un criterio intergovernativo, preordinato essenzialmente ad assicurare la continuità (e non il superamento) degli individualismi nazionali, donde il mancato conseguimento di adeguate forme di convergenza[4].
Questo è lo sconfortante bilancio che emerge dal voto britannico del 23 giugno 2016! Ad esso si accompagna un’innegabile effetto destabilizzante che investe, in primo luogo, la realtà economico finanziaria dello stesso Regno Unito. Ed invero, l’intento di riacquistare, con detta manifestazione referendaria, un’indipendenza considerata irrinunciabile (soprattutto dalle generazioni al di sopra dei 60 anni) ha indotto gli elettori ad essere incuranti degli esiti negativi che, comunque, ne sarebbero derivati (i.e. incidenza sui livelli dell’import/export e conseguente riduzione del PIL, rischio di declassamento dell’outlook del debito da parte delle agenzie di rating, ridimensionamento della piazza finanziaria di Londra, prevedibili rincari tariffari, minore attrazione dei centri universitari inglesi, ecc.). Analoga situazione di squilibrio si riscontra nell’area UE, insidiata non solo dal pericolo di ripercussioni economico finanziarie sfavorevoli a carico di alcuni paesi, bensì anche dalla minaccia di possibili forme di contagio di detta tendenza referendaria ad altri Stati membri[5]; donde il possibile avvio di un processo destinato a concludersi, con tutta probabilità, nella possibile implosione dell’UE.
Le modalità con cui in tutti i paesi del pianeta i mercati finanziari hanno reagito alla notizia dei risultati elettorali (segnando il ‘venerdì nero’ della sterlina ed un vertiginoso calo delle borse orientali ed occidentali) rendono appieno la portata dell’impatto traumatico che questi ultimi hanno avuto, nell’immediato, sulla comunità internazionale, lasciando intravedere la complessità di un assestamento destinato forse a protrarsi a lungo nel tempo[6]. Sotto altro profilo, le numerose iniziative del fronte Remain registrate nel Regno Unito all’indomani del referendum (i.e.: raccolta di firme per la proposta di una nuova consultazione, richiesta di una secessione della capitale, dichiarazioni del Premier scozzese di voler avviare immediate discussioni con Bruxelles «per proteggere il posto della Scozia nella Ue», ecc.)[7] – nel manifestare un sostanziale rifiuto del «leave» – sono indicative delle intrinseche difficoltà connesse ad un cambiamento che, per la sua rilevanza istituzionale, avrebbe richiesto un consenso generalizzato della popolazione britannica.

2.       In una recente indagine sulle cause dell’attuale stagnazione dell’originario progetto dei padri fondatori della Comunità europea tenevo a puntualizzare la particolare posizione della Gran Bretagna. Quest’ultima, infatti, deve essere annoverata tra gli Stati europei  che, più di altri, hanno determinato le condizioni per una revisione del ‘disegno politico’ di una «Europa libera e unita», ipotizzata da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi per contrastare il totalitarismo imperante nel ‘vecchio continente’ durante la seconda guerra mondiale[8]. Detta conclusione mi è apparsa coerente con la linea comportamentale di tale Paese che – restato fuori dalla fase di avvio dell’Europa a «sei» – ha concluso solo nel 1973 i negoziati per l’ingresso nel ‘mer­cato comune’[9].
Al fine di valutare compiutamente il ruolo del Regno Unito all’interno dell’UE occorre tener presente che esso – per caratteristiche culturali ed atteggiamenti frequentemente tenuti nella determinazione delle politiche europee – ha spesso mostrato una sorta di distacco nei confronti della restante parte del continente o, più esattamente, l’intento di non volersi far coinvolgere appieno nelle vicende di un’Europa la cui realtà è, forse, percepita come estranea, eccessivamente lontana da quella domestica, considerata invece prioritaria. Ciò, pur dovendosi riconoscere che tale Stato, all’indomani della seconda guerra mondiale è stato tra i primi paesi europei a ravvisare la necessità di procedere ad una costituente sovranazionale, finalizzata alla realizzazione di un’integrazione graduale tra i me­desimi[10].
Il lungo ed animato dibattito politico svilup­patosi in Gran Breta­gna nella seconda metà del XX (e, in particolare, l’attività svolta dal conservatore Harold MacMillan e dal laburista Harold Wilson) sul tema dell’ade­sione all’Europa[11], conclusa nel 1973 con l’ammissione della Gran Bretagna nella Comu­nità, dimostra che la scelta britannica per quest’ultima (consacrata da un referendum) non avviene in un clima di grande empatia, tale cioè da far ritenere necessariamente connessa all’integrazione economica anche quella politica. Il favor per una completa partecipazione rimane nel tempo estremamente esiguo, mentre prevale l’intento di benefi­ciare dei meccanismi comunitari basati su metodi intergovernativi[12]. Un tradizionale attaccamento alla sovranità nazionale (da intendere nelle sue variegate com­ponenti) è alla base di una linea comportamentale che – per quanto comprensi­bile in ragione del miglioramento economico perseguito (esportazioni, oc­cupazione, ecc.) – risulta decisamente contraddittoria, attese le agguerrite op­posizioni alle politiche europee che periodicamente vengono sollevate in tale Paese; significativi, al riguardo, già negli anni ‘70 del novecento sono i dissensi di autorevoli espo­nenti politici, come Sir Teddy Taylor, che si dimise da Ministro del governo Heath non appena venne a conoscenza della decisione di sottoscrivere i Trattati di Roma[13].

(*) Il presente scritto è destinato agli ‘Studi in onore di Giuseppe Di Taranto’.

In tale contesto si collocano la mancata adesione della Gran Bretagna alla «moneta unica» e la sua politica verso gli affari europei orientata, a partire dal 1992 (i.e. dal Trattato di Maastricht), alla tutela di interessi d’intonazione nazionale. Trova, quindi, spiegazione la frequente richiesta di adattamenti (rectius: modifiche) normativi, nonché l’assunzione di posizioni non coerenti con l’intento di una condivisione totalizzante, necessaria invece in una logica d’integrazione (nella quale deve prevalere l’interesse comune su quello particolaristico dei partecipanti all’Unione). Non a caso in letteratura l’analisi di tale realtà è sfociata in valutazioni che ora fanno riferimento ad un’azione di «gatekeeper» del governo centrale inglese nei confronti della Comunità europea (per salvaguardare la sovranità nazionale), ora ad un manifesto «semi-distacco» della Gran Bretagna dalla costruzione dell’UE[14]; valutazioni che, da ultimo, trovano compendio nelle parole di Jean-Claude Juncker in una intervista sulla Brexit rilasciata alla tv pubblica tedesca Ard : «Quello tra l’Ue e il Regno Unito non sarà un divorzio consensuale, ma non è stata neppure una grande storia d’amore».
In tale premessa, vanno analizzati gli accordi, conclusi a Bruxelles nel febbraio 2016 tra il primo ministro David Came­ron e i vertici europei, nei quali viene riconosciuto alla Gran Bretagna uno status particolare all’interno dell’UE. Le concessioni  accordate spaziano dalla simbolica ‘attestazione’ che detto Paese non farà parte di un’Unione «sempre più stretta» a facilitazioni di vario genere (tra cui assume specifico rilievo la possibilità di limitare i sussidi per gli immi­grati comunitari). Tali accordi costituiscono un’inconfutabile prova delle difficoltà incontrate dall’UE nel far fronte alle logiche della convenienza economica poste dal Regno Unito a fondamento della sua adesione (e delle modalità partecipative) al progetto dei padri fondatori della Comunità; pertanto, può dirsi che la linea decisionale di tale Paese ha privilegiato, nelle sue scelte, un calcolo utilitaristico sulle motivazioni valoriali (improntate alla coesione ed alla solidarietà) che, invece, avrebbero dovuto muovere i paesi aderenti.

3.       Un’attenta analisi del voto espresso nella Gran Bretagna il 23 giugno 2016 induce a ritenere che esso riflette la logica tipicamente propria del popolo britannico, il quale ispira la propria condotta ad una visione pragmatica delle relazioni sociali, anteponendo la specificità del proprio interesse nelle scelte da effettuare. Sintetizzano tale particolare modo di relazionarsi agli altri le indicazioni fornite da Margaret Thatcher, in una nota intervista rilasciata a Women’s Own magazine, nell’ottobre del 1987[15]. Richiesta di puntualizzare i compiti del Governo nel rapporto con i problemi sociali l’ex Premier tenne a precisare che «no government can do anything except through people, and people must look to themselves first. It’s our duty to look after ourselves and then, also to look after our neighbour». E’ questa una enunciazione di principio che, nel tempo, ha guidato l’approccio del U.K. nell’incontro con gli altri paesi, non esclusi i propri partners europei a partire dal 1973!
«People must look to themselves first», l’attenzione ai propri interessi identifica, dunque, l’obiettivo primario del Governo britannico, che si risolve in un’affannosa ricerca della convenienza economica nelle relazioni col proprio «neighbour»; donde la necessaria limitazione di qualsivoglia forma d’apertura e di riferibilità agli altri paesi al fine di  realizzare rapporti di coesione e solidarietà. Da qui la linea comportamentale tenuta, nel tempo, dai Capi di Governo del U.K.; essa, a ben considerare, rispecchia un sostanziale sentimento antieuropeo che nel presente si è manifestato in concreto con il voto referendario, da cui è emerso il vero volto della Gran Bretagna, con evidente, ovvia sorpresa di coloro che l’avevano considerata un «paese europeo» a pieno titolo.
In tale contesto logico trovano spiegazione, oltre al rifiuto per la «moneta unica», dianzi menzionato, quello per il progetto di «Unione Bancaria»,  nonché la mancata adesione al Fiscal Compact e alla convenzione di Schengen (previo esercizio della clausola di esclusione, cd. opt-out, sulla libera circolazione delle persone). Si comprende, peraltro, come l’Unione abbia errato nel corrispondere alle richieste del Regno Unito e, dunque, sia addivenuta nel continuum a concessioni che, in occasione dei nominati accordi del febbraio 2016, si sono estrinsecate addirittura in una sorta di ‘statuto speciale’; risulta evidente, infatti, che la politica UE di accondiscendere ai desiderata della Gran Bretagna non è stata sufficiente a trattenerla nella compagine regionale europea, non ha convinto i britannici a desistere dal loro intento di porre fine ad una relazione sentita (forse: sofferta) come forma di «convivenza forzata»!
Ciò posto, permane comunque l’interrogativo sul come possa essere accaduto che, a fronte di un costante trattamento privilegiato, la popolazione britannica ha scelto di ‘divorziare’ dall’Unione europea, ponendo fine agli indugi nel liberarsi di un legame che, ad avviso di molti, appariva ormai insostenibile. La risposta a tale quesito affonda le sue radici in una storia di errate valutazioni politiche, che riporta alla mente il ricorso al voto referendario del popolo greco disposto dal Premier Tsipras nel giugno 2015[16].
Mi riferisco, in particolare, allo svolgimento della campagna elettorale di Cameron nel 2013, allorché questi per conseguire il sostegno Tory ad un secondo mandato a Downing Street, promise il referendum sulla Brexit, senza un adeguato approfondimento in ordine alla possibilità di un esito dello stesso favorevole al Remain. E’ evidente come, nell’occasione, superficialità ed inadeguata valutazione delle implicazioni negative dell’«ingranaggio» così innescato abbiano guidato Cameron; questi «come un anno fa Alexis Tsipras …aveva finito per vedere nella chiamata alle urne un diversivo tattico per divincolarsi quando ormai si sentiva alle corde»[17]. Sicchè, di fronte alla minaccia di perdere la propria posizione di leader del partito conservatore e candidato premier, tale incauto politico «ha scelto di giocarsi al tavolo verde il destino del Regno», ipotizzando nel contempo di «poter mettere a tacere gli ultranazionalisti dello Ukip»[18].
Si è in presenza di una ‘mossa strategica’ certamente coerente sotto un profilo giuridico, in quanto il rinvio al voto popolare deve ritenersi conforme ad una corretta applicazione delle modalità decisionali riconosciute nei moderni sistemi democratici. A ben considerare, tuttavia, se a livello teleologico tale misura persegue il meritevole obiettivo di attestare la prevalenza della ‘sovranità nazionale’ sulla logica regolatoria dei vertici europei, per converso sul piano sostanziale appare verosimile che essa sia stata utilizzata in chiave strumentale per finalità improprie e senza l’assunzione di responsabilità che necessita in situazioni di tal genere.
Pertanto, volendo risalire alla causa prima degli accadimenti in parola occorre aver riguardo all’intento di Cameron di evitare le  implicazioni negative che sarebbero derivate sulla ‘tenuta del suo governo’ da un ridimensionamento dell’elettorato a lui favorevole. Tale lettura degli eventi di cui trattasi trova del resto conforto, vuoi nei giudizi critici riportati dalla stampa specializzata[19], vuoi dai discordanti tratti comportamentali di tale politico, il quale dopo la vittoria del «leave» ha tenuto una condotta che tende a minimizzare gli esiti del voto popolare e ad allontanare nel tempo la concreta attuazione dell’exit (senza riconoscere le proprie responsabilità in ordine alle inevitabili criticità che dal suo agere sono derivate)[20].

4.       A fronte delle numerose facilitazioni concesse dall’EU alla Gran Bretagna, poteva verosimilmente ipotizzarsi che gli esiti della votazione referendaria avrebbero confermato lo statu quo. Da qui l’orientamento di numerosi osservatori cui era sembrato possibile supporre un risultato elettorale volto a conseguire una sostanziale monetizzazione del ‘beneficio netto complessivo’ derivante dal mantenimento del U.K. all’interno dell’Unione.

La storia di tale Paese, le sue modalità relazionali con l’UE facevano, infatti, ritenere che sarebbe prevalsa una «scelta» effettuata sulla base di un criterio di razionalità economica, che in Gran Bretagna sembra proporsi in chiave autoreferenziale, come unico para­digma di regolazione della convivenza. Tale scelta – ove fondata sul confronto tra i possibili benefici economico finanziari rivenienti da un’eventuale uscita del Regno Unito dall’Unione e le contrapposte implicazioni negative riscontrabili sui saldi delle partite correnti e dei movimenti di capitale, sul mercato azionario e obbligazionario, su quello immobiliare britannico, oltre che sulla sterlina[21]– avrebbe dovuto indurre ad apprezzare la convenienza economica dell’adesione all’UE (previa verifica dei dati quantitativi che consentissero di giustificarne la prosecuzione).
In altri termini, appariva ipotizzabile che l’opzione tra l’in o l’exit, sul piano metodologico, avrebbe visto i vertici politici del Regno Unito impegnati in una sorta di calcolo microeconomico tra ‘costi e benefici’,[22] in linea con i principi di mercato (e, dunque, meramente strumentale al conseguimento di un’allocazione efficiente delle risorse disponibili). E’ evidente, peraltro, la sostanziale rigidità applicativa del canone di valutazione in parola; nelle decisioni riguardanti le relazioni tra i paesi UE il ricorso ad esso tende spesso ad escludere (considerandola presupposto di un equilibrio sub ottimale) la praticabilità di un’azione congiunta tra gli Stati membri (se del caso improntata a principi di solidarietà, come quella richiesta per la soluzione della problematica delle migrazioni sopra richiamate) qualora i costi di quest’ultima vengano reputati superiori ai benefici rivenienti dalla continuità della permanenza all’ interno dell’Unione Europea[23].
L’opportunità di mantenere immutati i vantaggi derivanti dalla partecipazione all’UE sembrava, in tale logica, dovesse prevalere. Ciò, nonostante le possibili implicazioni negative di tale adesione, la quale era avvertita (rectius: subita) con crescente disagio dal Paese, poco propenso ad accettare condizionamenti esterni che, ad avviso di molti, erano considerati una minaccia alla conservazione dell’elevato livello di welfare raggiunto (con ovvie conseguenze sugli equilibri socio economici interni).
In tale ordine d’idee, tempo addietro ho espresso il convincimento che il referendum si sarebbe concluso con un’opzione a favore del ‘Remain’, chiaramente riferibile a valutazioni di carattere neutrale[24]. E’ evidente come, alla luce del recente esito della consultazione elettorale, queste ultime si siano rivelate poco conferenti nel mettere a fuoco la complessa realtà in osservazione, evidenziando l’inadeguatezza del metodo sopra richiamato per la definizione di questioni di carattere socio politico. Ed invero, si è ben compreso che il positivo impiego di tale metodo – da parte dei paesi che intendano avvalersene in presenza di situazioni economiche complesse, nelle quali necessitano processi di sintesi tra variegati e molteplici fattori – non potrà prescindere dal correlare le valutazioni da porre in essere alle finalità di carattere generale, cui gli interventi pubblici devono essere orientati[25]; ciò dovendosi, nel contempo, tener presente che le manifestazioni di voto sono spesso condizionate anche da fattori emotivi (che possono travolgere le aspettative frutto di analisi economica e di negoziazione politica)[26].
Confermava tale mia opinione il riferimento alle conseguenze economiche di tale way out considerate dagli analisti e da insigni economisti meno significative per l’Unione di quanto avrebbero potuto esserlo per la Gran Bretagna (tenuto conto vuoi dell’ammontare dell’export complessivo degli Stati mem­bri verso tale Paese, vuoi dell’intrinseca difficoltà di calcolare i riflessi negativi di un cambiamento destinato ad incidere sull’operatività finanziaria del Regno Unito)[27]. Ciò posto, non mancavo di sottolineare la chiara sensazione che l’utilizzo del metodo costo/benefici avrebbe potuto esaurirsi in una «miope e restrittiva visione microeconomica», poco attenta alla valutazione degli interessi altri connessi agli interventi da porre in essere (fatalmente destinati ad essere pretermessi ove si trascuri l’obiettivo del benessere comune)[28].
Concludendo sul punto può dirsi che il referendum si è svolto all’interno di una logica connotata da interesse ed emotività, la quale comunque non appare riconducibile alla dialettica pluralistica su cui dovrebbe fondarsi il dibattito politico volto a ricercare forme di ottimale convivenza democratica. Per converso, nella fattispecie, sarebbe stata necessaria l’affermazione di una dialettica siffatta al fine di pervenire a  soluzioni che, nel soddisfare le istanze utilitaristiche del U.K., avrebbero potuto consentire un rafforzamento dei legami tra quest’ultimo e l’Unione, in linea con un coinvolgimento destinato a sfociare quanto meno in una maggiore coesione.

5.       Alla luce di quanto precede occorre chiedersi cosa sia accaduto, come possa spiegarsi l’abbandono di una linea comportamentale coerente con la ratio che, nel tempo, ha guidato le relazioni tra la Gran Bretagna e l’Unione Europea. Sono questi gli interrogativi ai quali non è possibile dare risposte certe e di pacifica condivisione; ciò, soprattutto nel riferimento alle ripercussioni che la Brexit sta avendo in U.K. ove – sotto l’impulso emotivo di un cambiamento pieno d’incognite (destinato a negare le speranze di molti giovani già pervasi da un avvincente spirito europeo) –  si avanzano proposte variegate che vorrebbero annullare il risultato di un voto che viene rifiutato da ampi strati della popolazione.
Saranno le analisi dei tempi a venire a chiarire le ragioni di una decisione che desta amarezza e preoccupazione; appare, comunque, fin da ora chiaro che sulla cultura e sulla razionalità sono prevalsi i sentimenti di un Paese che ha voluto dire no all’integrazione con gli Stati continentali. La countryside inglese – poco edotta in ordine alla reale portata del processo d’europeizzazione in atto[29] – ha dato ampio spazio ad una spirale nazionalistica (che ha beneficiato del consenso di gran parte dell’elettorato ultrasessantenne) fondata sui nostalgici ricordi di un irripetibile passato. A ciò si aggiungano gli effetti del richiamo all’indipendenza, la quale – contrariamente al significato letterale del termine – esprime, nella fattispecie, intolleranza per i vincoli normativi imposti dall’UE, nonché carenza di solidarietà e condivisione per l’altra Europa. Sicchè, centri universitari d’eccellenza, come Oxford, Cambridge ed altri ancora hanno dovuto cedere il passo ad una sorta di ribellione dei ceti medio-bassi i quali, sentendosi emarginati, hanno voluto spezzare i legami con i paesi continentali nell’erroneo convincimento di eliminare in tal modo le cause della propria insoddisfazione.
Sono riscontrabili, quindi, comportamenti differenziati tra l’elite economica britannica – la quale, con tutta probabilità, ha circoscritto la sua valutazione in termini di costi-benefici, manifestando la propensione a ‘restare nell’UE’ (e significativo, al riguardo, deve ritenersi l’atteggiamento del mondo della finanza schierato per l’affermazione del «Remain») -, il mondo della cultura e dell’università sensibilmente predisposti ad un’apertura politica sovranazionale, da un canto, e il resto della popolazione, mossa da considerazioni diverse, nazionalistiche e xenofobe, che hanno spinto per il «leave», dall’altro. Quest’ultima, incurante del ‘prezzo’ economico da pagare, è apparsa preoccupata prevalentemente del problema delle migrazioni (non solo extracomunitarie) percepite come una sorta di ‘invasione straniera’, divenendo vittima di ingannevoli promesse di politici che hanno approfittato della sua disinformazione[30]. Da qui l’emersione di una triste realtà nella quale non ha trovato cittadinanza alcuna lo spirito europeistico che, invece, avrebbe potuto guidare la «scelta» della permanenza o meno nell’Unione della popolazione britannica.

Si è, dunque, in presenza di un’opzione che trascura (rectius: dimentica) i vantaggi (non solo economici) rivenienti dall’Unione. Ed invero, il Regno Unito non ha considerato il lungo arco temporale di pace che l’UE ha reso possibile tra popoli che, per secoli, si sono combattuti. Ci appaiono nella loro interezza i limiti rivenienti dalla connotazione insulare della Gran Bretagna, mai come oggi indicativa di una separatezza che forse sarebbe stato opportuno superare; anche a costo di disattendere le note indicazioni di Churchill: «ogni volta che dovremo decidere tra l’Europa e il mare aperto, sceglieremo sempre il mare aperto»[31]. Non a caso, all’indomani del referendum, è stato fatto presente che, per quanto il «pragmatico idealismo di Churchill e dei leader della sua generazione» deve ritenersi ormai inevitabilmente perduto, la scelta degli elettori britannici si è fondata su motivazioni razionali ed irrazionali al contempo, una sorta di mixing tra pragmatica valutazione di convenienza ed istintivo riflesso di «pancia»[32]. 
In tale contesto, le radici profonde del recente voto britannico vanno forse ricercate negli effetti di un processo d’internazionalizzazione dei sistemi economici che, spostando i centri di produzione manifatturiera in paesi extra-europei, ha determinato lo svuotamento di alcune citta industriali e l’abbassamento del livello di vita dei lavoratori britannici non qualificati[33]. Da qui il timore di ulteriori arretramenti, sul quale hanno fatto aggio le preoccupazioni di una politica UE tendenzialmente aperta alla solidarietà per le popolazioni in fuga dalle guerre, dalla fame, dai pericoli di morte. All’Europa si è attribuita la causa di un malessere che di certo non le è imputabile; l’Unione è stata caricata, quindi, di significati ad essa non ascrivibili, per cui in nome del «leave» si è espresso un voto di sostanziale protesta, soprattutto da parte della popolazione meno istruita ed a più basso reddito[34].
E’ evidente, infatti, come la riferibilità all’interesse nazionale correlata al superamento dell’adesione all’Unione (sottesa alla manifestazione di voto) abbia presupposto un livello di coesione (ovvero un’istanza in tal senso) tra gli Stati membri, difficilmente configurabile nel contesto regionale europeo. Viene data per scontata una realtà europea caratterizzata dalla volontà comune di affermare il benessere generale sovranazionale; evenienza che, al presente, deve ritenersi solo tendenziale ed ancora del tutto ipotetica, non riscontrandosi un’adeguata apertura alla disponibilità di farsi carico degli oneri dell’integrazione senza un ritorno di convenienza, politica o economica, per i paesi che si impegnano a tal fine.

6.       Il dado è tratto! E una repentina attivazione della procedura di cui all’art. 50 TUE da parte del Governo britannico appare indispensabile. Essa è richiesta con fermezza dagli organi dell’Unione (Parlamento e Consiglio) non muovendo da intenti punitivi, bensì dalla necessità di evitare che la ritardata conformazione della Gran Bretagna al voto democraticamente espresso dal suo elettorato si traduca in danni ulteriori rispetto a quelli recati dalla ‘tempesta finanziaria’ abbattutasi all’indomani del referendum. Un’inutile rinvio dei tempi di esecuzione della volontà popolare è imposto, altresì, dal rispetto che tale Paese deve all’UE, alla quale va evitato il protrarsi della situazione d’incertezza che ha fatto seguito alla Brexit e, dunque, l’esposizione degli Stati membri a squilibri economico finanziari ed agli input dei movimenti populisti intenzionati ad emulare il caso U.K.
Per converso, si riscontra una tardiva resipiscenza non solo di numerosi votanti che la stampa specializzata definisce in preda al rimorso per il voto espresso, ma anche di noti politici britannici dal Premier dimissionario Cameron al Cancelliere Osborne[35]. Sorprende, in tale contesto, l’atteggiamento ambiguo del primo che, dopo aver dichiarato l’accettazione del ‘voto referendario’, ha demandato al suo successore  l’attivazione dell’art. 50 TUE[36],  esprimendo tuttavia l’intento di voler negoziare con l’Unione la permanenza del Regno Unito «nel mercato comune» e, dunque, la conservazione di intense relazioni economiche e finanziarie.
Si è in presenza di una linea politica volta a mitigare le inevitabili conseguenze dei risultati del referendum, utilizzando la possibilità di impiegare tempi lunghi per l’esecuzione dello stesso; di fondo traspare il chiaro intento di conservare – nonostante un generalizzato clima avverso dei paesi europei – i privilegi conseguiti dall’UE, soprattutto a seguito dei recenti accordi del febbraio 2016. Per quanto si possa essere animati da un intento di piena collaborazione con la Gran Bretagna, aiutandola ad affrontare questo difficile momento della sua storia, ritornano alla mente le note parole di Cicerone: «Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? Quamdiu etiam furor iste tuus nos eludet? Quem ad finem sese effrenata iactabit audacia?»[37].
Una responsabile risposta all’interrogativo che di certo gran parte della popolazione europea si pone in questo momento – vale a dire: quale verosimilmente è il programma di exit del Regno Unito – può essere data solo dalla lettura del disposto dell’art. 50 TUE, che disciplina la materia in esame[38].
In sintesi, tale norma demanda agli Stati membri la possibilità di decidere la recessione dall’Unione (comma primo), rimettendo ad essi la notifica di tale intenzione al Consiglio europeo. Essa prevede, quindi, l’apertura di un negoziato tra l’UE ed il paese recedente che si conclude con «un accordo volto a definire le modalità del recesso» (comma secondo). I trattati «cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica» del recesso (comma terzo). Seguono regole procedurali riguardanti la partecipazione dei rappresentanti dello Stato recedente alle sedute del Consiglio, nonché la procedura da seguire nel caso di richiesta di nuova adesione da parte dello Stato che ha esercitato il recesso.
E’ evidente come il legislatore europeo si sia preoccupato – nel rispetto della volontà dello Stato interessato – di contenere il tempo dell’exit nella durata di due anni, prevista per lo svolgimento della procedura di recesso. Pertanto, non convincono le linee comportamentali (come quella di Cameron) che sembrano voler promuovere con  l’escamotage della notifica ritardata un rinvio applicativo, che inevitabilmente renderebbe difficile l’osservanza del menzionato termine di due anni.
Aspetto centrale della regolazione in esame è, per un verso, la stipula di un accordo dello Stato recedente con l’Unione, per altro l’identificazione del momento di cessazione dell’applicabilità dei Trattati al medesimo. Per quanto concerne i contenuti di tale convenzione, la normativa non pone vincoli al riguardo, lasciando presumere che le parti restino libere di determinarsi nelle modalità ritenute più opportune[39]; resta ferma, naturalmente, l’approvazione dell’accordo da parte del Consiglio (con i quorum deliberativi ivi fissati), nonché del Parlamento europeo. Il termine per la cessazione dell’applicabilità dei Trattati coincide con la data di entrata in vigore dell’accordo di recesso, essendo previsto, per il caso in cui quest’ultimo manchi, che comunque essi vengono meno allo scadere dei due anni dalla notifica del recesso. Va da sé che la locuzione letterale della norma in esame fa riferimento ai «Trattati» che interessano (e coinvolgono in modalità paritarie) tutti i paesi membri dell’UE; ragion per cui devono intendersi escluse le negoziazioni particolari che uno Stato membro abbia attivato (e concluso) con l’Unione. Ne consegue che, nella fattispecie, non possono ricondursi al disposto normativo in esame gli accordi in corso che devono ritenersi immediatamente sospesi a seguito del referendum; come, del resto, la Commissione ha già disposto per quelli del febbraio 2016 più volte richiamati (i quali, come si è già sottolineato, hanno consentito ‘concessioni particolari’ alla Gran Bretagna ed una ‘posizione d’autonomia’ non riscontrabile nelle realtà di altri paesi europei)[40].

Le reazioni degli organi politici dell’Unione alla notizia del Brexit lasciano presumere che, nello svolgimento della procedura d’uscita dall’UE, il Regno Unito non potrà fruire, come nel passato, di privilegi; orientano in tal senso la larghissima maggioranza con cui il Parlamento europeo ha adottato la Risoluzione volta ad accelerare l’exit Uk e ad annullare la presidenza inglese del semestre 2017[41], nonché la inequivoca dichiarazione rilasciata dal Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk con riguardo all’avvio della procedura in parola: «l’UE è pronta a partire … anche oggi»[42]. Significative, altresì, devono ritenersi le considerazioni formulate da alcuni Capi di Governo di importanti paesi dell’Unione: mi riferisco ad Holland che ha tenuto a sottolineare «esiste un calendario previsto dal Trattato … ma può essere accelerato. Sta ai britannici comunicarci il prima possibile questa decisione»;[43] nonché a Renzi il quale si è richiamato ai valori dell’appartenenza all’UE («è impossibile fare parte di una comunità, accettando solo i vantaggi ….. Non si può essere comunitari solo sull’economia e non sui valori, non si può accettare l’idea che la Gran Bretagna faccia parte del mercato unico senza che prenda in considerazione i problemi… [dell’ Europa] … come quello dell’immigrazione»)[44].
Di certo, ad una compiuta valutazione degli eventi in esame non sfugge che sottesa alla Brexit è, per certi versi, la responsabilità della Germania, che ha prepotentemente preso le redini del progetto europeo e, in poche abili mosse, lo ha reso estraneo e inviso perfino a chi ad esso aveva prestato la propria convinta adesione. E’ evidente come, in un contesto geopolitico caratterizzato dalle tendenze egemoniche di questo Paese[45],  detto progetto possa essere stato ritenuto non affidabile da chi lo ha guardato con sospetto fin dall’inizio. Ciò posto, se il «leave» può ormai essere archiviato come realtà del passato (dovendosene attendere solo l’esecuzione), quel che oggi desta preoccupazione è l’atteggiamento attendista (con riguardo all’exit del Regno Unito) che la Cancelliera Merkel ha cominciato a tenere[46]. Perplessità, al riguardo, sono sollecitate dall’intento di voler «tendere la mano alla Gran Bretagna», sì da aiutarla a trovare un escamotage che ritardi gli effetti del voto, cui è riconducibile il sospetto che si è forse in presenza di un’inedita modalità d’azione per negoziare un’uscita del Regno Unito dall’UE che convenga solo allo Stato tedesco.

7.       La valutazione politica del voto del popolo britannico, come opportunamente è stato sottolineato dal Premier italiano, «è una vicenda storica», che non può essere né minimizzata, ne strumentalizzata[47]; pertanto, «chi cercasse oggi di minimizzare o di strumentalizzare ciò che è avvenuto commetterebbe un errore politico». Conseguentemente, la vittoria della Brexit deve far riflettere nella consapevolezza che il rispetto dei principi d’ordine democratico nel quale essa si incardina non è disgiunto dalla necessità di operare con prontezza una convergenza strategica dei paesi UE verso la soluzione della problematica esaminata nelle pagine precedenti. L’Unione deve impedire che questa storia le causi ‘danni ulteriori’, destinati ad aggiungersi a quelli rivenienti dallo squilibrio dei mercati finanziari, subito all’indomani del referendum!
Come emerge dagli incontri dei vertici politici europei, che si sono succeduti con inusitata frequenza nei giorni successivi alle votazioni, sembra diffuso tra gli Stati membri il convincimento di dover attivare al proprio interno un processo dialettico, finalizzato alla valutazione degli indicatori che delineano una sorta di crisi identitaria della stessa Unione (nella quale numerosi Stati membri forse non si riconoscono più).
A ben considerare, il voto britannico (per quanto connotato, come si è detto, da una logica contestataria) imputa all’UE la delusione per il mancato riscontro di un’aspettativa di crescita (di cui hanno beneficiato solo alcuni paesi), che sarebbe dovuta derivare dall’adesione alla stessa. Pertanto, la critica espressa dalla popolazione U.K. coinvolge le politiche comunitarie e l’intero impianto sistemico di un’Europa che non ha saputo realizzare adeguati programmi di sviluppo e nella quale l’integrazione, riguardata sotto il profilo della libera circolazione delle persone, si è risolta (agli occhi di cittadini provati da un decennio di austerity) in una minaccia, in un pericoloso attentato alla continuità di un welfare che non si vuole perdere.
Gli Stati membri si trovano, dunque, a dover affrontare una realtà fino ad oggi non ipotizzabile. Dare una risposta urgente e ferma alla volontà di exit manifestata dal Regno unito, è l’indispensabile presupposto per evitare che correnti populiste e xenofobe possano prendere il sopravvento, approfittando del clima d’incertezza che oggi contraddistingue i rapporti tra i paesi del «vecchio continente»; siano di monito, in tale contesto, le parole di Romano Prodi: «il progetto europeo non ha ancora raggiunto il punto di non ritorno, … (per cui) … l’Europa potrebbe anche venir meno»[48].
Si comprende che bisogna operare un’inversione di rotta, decidere di attuare un cambiamento delle politiche fini ad oggi perseguite: spinge in tale direzione la necessità di interrompere il perverso circuito che potrebbe condurre ad un’implosione dell’UE. Ove ciò avvenga, l’accettazione della decisione referendaria – per quanto possa apparire antistorica, per la sua contrarietà ad un processo di europeizzazione che sembrava ormai irreversibile – può assurgere ad evento propositivo per rivisitare il progetto di  costruire una «casa comune».
In quest’ordine logico, fornisce interessanti spunti d’analisi il documento sul  «Programma di lavoro della Commissione europea per il 2016», nel quale sono illustrate le iniziative e le misure che, nelle intenzioni della Commissione, dovrebbero essere al centro dell’azione dell’UE in tale anno[49]. L’esigenza di attuare una nuova ‘Agenda strategica’, cui si è fatto riferimento nella riunione del Consiglio europeo di fine giugno c.a., potrebbe trovare utile compendio in opportune integrazioni di tale documento incentrate sulla identificazione di puntuali strumenti ed incentivi a sostegno del lavoro dei giovani, di piani di crescita e competitività, della lotta alle immigrazioni legali.
E’ questa la sfida che l’Europa deve affrontare nell’immediato: ad essa è correlato il superamento delle politiche che mettono a rischio la continuità dell’Unione! Non è possibile in questo momento fare previsioni di sorta sui tempi e sugli esiti della profonda revisione del progetto europeo cui la Brexit ha dato l’avvio. Quel che appare certo è l’ineludibile presa d’atto di dover decidere perché non è più procrastinabile il cambiamento!

8.       Da quanto precede risulta evidente come il voto sulla Brexit abbia agito da catalizzatore nel far emergere i numerosi fattori di debolezza che, al presente, connotano l’UE. Il clima d’incertezza, che ad esso ha fatto seguito, conferma i limiti della relativa costruzione, incapace di riuscire a trovare prontamente al proprio interno i rimedi necessari a superare il momento di grave difficoltà in cui versa l’Unione a causa di un voto referendario (forse espresso senza un’adeguata valutazione delle sue reali implicazioni).
Un’errata decisione politica – adottata allo scopo di isolare (e sconfiggere) le frange populiste di una Gran Bretagna che non ha saputo valutarne con esattezza la portata -, fomentata dalla tradizionale scarsa empatia della popolazione U.K. per i paesi continentali, si è tramutata in un pericoloso boomerang destinato a colpire non solo il Regno Unito, ma anche l’intero contesto regionale europeo. A nulla sono valse le concessioni con cui, in molteplici occasioni, l’Unione è venuta incontro alle istanze dei governanti britannici, consentendo al Regno Unito una «posizione di privilegio» rispetto agli altri Stati membri!
Tutto ciò fa ormai parte di un irreversibile passato! Resta solo l’amara constatazione che la Brexit è il portato di una campagna elettorale sulla quale – come ho sottolineato in precedenza – hanno fatto aggio i nostalgici ricordi di un passato che non può ritornare, ma soprattutto la mancata conoscenza del ‘progetto europeista’ (che ha alimentato i timori di un’ invasione migratoria dagli altri paesi dell’Unione). Da qui il clima, che non esiterei a definire falsato, in cui è maturata la determinazione di uscire dall’UE, cui – come è emerso subito dopo le votazioni – hanno contribuito un’ingannevole informativa all’elettorato[50] ed il limitato impegno della parte politica deputata al sostegno del Remain[51].
La perdita di un compagno di viaggio è sempre un evento non gradito, talora traumatico; ciò specie nel caso in cui si tratta, come nella vicenda qui esaminata, di un Paese che, per secoli, ha svolto un ruolo centrale nella storia dell’Europa! Conforta il pensiero che, nella fattispecie, si è fatto «di tutto e di più» per convincerlo a perseverare in un cammino comune, che è stato ora interrotto da una decisione nella quale si riflette l’«interno sentire» di una parte maggioritaria del popolo britannico. Pertanto, appare singolare la circostanza che dall’atteggiamento tenuto dal Premier Cameron nel sua ultima seduta nel Consiglio europeo traspaia una sorta di tacito rimprovero all’UE per non aver saputo affrontare efficacemente le problematiche poste dal processo d’europeizzazione[52], laddove in vista di tale obiettivo sarebbe stata necessaria quella piena integrazione alla quale la Gran Bretagna ha sempre voluto fermamente sottrarsi. Valga, per tutte, il richiamo alla questione della immigrazione e dell’implicito bisogno di una politica estera comune!
A fronte di tali considerazioni si comprende l’effetto incentivante svolto dalla Brexit sulle tendenze separatiste che attualmente minano la continuità dell’Unione. Ad essa appaiono, inoltre, riconducibili nuove situazioni di disagio per gli Stati dell’UE, dovute all’ipotizzabile divario tra la posizione della Germania e quella degli altri paesi comprimari (Francia e Italia), intenzionati ad uscire prontamente dalle secche dell’incertezza post-referendaria e, dunque, manifestamente non favorevoli ad accettare le soluzioni attendiste proposte dalla prima. E’ questo, con tutta probabilità, un pericolo non adeguatamente valutato nella stima dei possibili fattori di squilibrio recati dagli eventi che qui ci occupano.
E’ evidente come una gestione intelligente della fase di transizione successiva alla Brexit – come ho cercato di evidenziare nelle pagine che precedono –  non può prescindere da uno sforzo comune di tutti gli Stati membri nel confermare, con senso di responsabilità, l’impegno assunto con l’adesione ai Trattati; fermo restando che «a nessuno, tanto meno agli inglesi, può essere consentito di danneggiare tutti con rinvii arbitrari»[53]. Consegue l’esigenza d’intensificare le forme di cooperazione per consentire all’UE di rilanciare un programma di crescita, fondato sull’abbandono della logica dell’austerità a favore di una rivitalizzante coesione e di una solidarietà rispettosa della dignità umana. La ricerca di nuovi percorsi per un’integrazione che rechi sviluppo e consolidi la concordia all’interno dell’UE individua, infatti, la modalità più congrua per impedire che il danno causato dalla Brexit raggiunga livelli tali da infrangere il «sogno europeo» nel quale continua a credere tanta parte dei popoli della Unione, cui (col voto referendario britannico) si sono associate le nuove generazioni del Regno Unito.

Note

1.  Cfr. tra gli altri  l’editoriale EU referendum: full results and analysis, pubblicato da the guardian e visionabile su  www.theguardian.com/politics/ng-interactive/2016/ jun/23/eu-referendum-live-results-and-analysis; 

2.  Cfr. l’editoriale di Demurtas,  Brexit, gli scenari con Londra che lascia l’Unione europea, visionabile su www. lettera43.it /politica/brexit-gli-scenari-se-londra-lascia-l-unione-europea.

3.  Si ricorda che negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale – a fronte della difficoltà di mettere in comune le politiche nazionali sulla visione federalistacostituente, delineata da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli nel noto saggio intitolato Manifesto di Ventotene (1944), ovvero su quella confederale supportata da Winston Churcill
(cfr. al riguardo Vassallo G., Tra Winston Churchill e Hendrik Brugmans. Federalisti e unionisti nella grande assise del dopoguerra, in Eurostudium, gennaio-marzo 2010, p. 8 ss), entrambe correlate alla creazione di una nuova organizzazione politica – prevale il metodo seguito da Jean Monnet, ispirato al «funzionalismo» di Mitrany (cfr. A working peace system, London, 1943) ed al neo-funzionalismo di Haas (cfr. The Uniting of Europe – Political, Social and economic Forces, 1950-1957, London, 1958; Id. Beyond the Nation State, London, 1964) e Lindberg (cfr. The Political Dynamics of European Economic Integration, London 1963).

4.  Significativa, al riguardo, la riflessione di  Savino, La comitologia dopo Lisbona: alla ricerca dell’equilibrio perduto, in Giornale di diritto amministrativo, 2011, p. 1041, ove il meccanismo comitologico viene definito «retaggio di un equilibrio istituzionale anacronisticamente sbilanciato in senso intergovernativo».

5.  Cfr., tra gli altri, l’editoriale Effetto Brexit, Le Pen: “Uscire dall’Unione europea ora è possibile”, pubblicato su www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Brexit-Le-Pen-Uscire-da-Ue-ora-possibile

6.  Cfr. tra gli altri, l’editoriale di Balestreri, E’ Brexit: sterlina in caduta libera, Borse a picco. Piazza Affari mai così male: -12,5%, pubblicato su Repubblica.it del 24 giugno 2016, visionabile su www.repubblica.it/economia/2016/06/24/ news/ brexit_borse_a_picco_e_sterlina_in_caduta_libera.

7.  Cfr. l’editoriale Brexit, le contromosse dei pro Remain: petizioni per ripetere il referendum e Scozia chiede (di nuovo) indipendenza, visionabile su www.ilfattoquotidiano.it/2016/06/25/brexit-le-contromosse-dei-pro-remain-petizione-per-ripetere-il-referendum-e-scozia-chiede-di-nuovo-indipendenza.

8.  Cfr. Capriglione – Sacco Ginevri, Politics and Finance in the European Union. The Reasons for a Difficult Encounter, Wolter Kluver, 2016, p. 209 ss

9.  Cfr. Parr, Britain’s Policy Towards the European Community. Harold Wilson and Britain’s World Role, 1964-1967, London, 2005; Toomey, Harold Wilson’s EEC: application: inside the Foreign Office 1964-7, University College Dublin Press, 2007.

10.  Cfr. Churchill Commemoration 1996. Europe Fifty Years on: Constitutional, Economic and Political Aspects, edito da Thürer and Jennings, Zürich, Europa Institut-Wilton Park, Schultess Polygraphischer Verlag, 1997.

11.  Cfr. per tutti toomey, Harold Wilson’s EEC application: inside the Foreign Office 1964-7, University College Dublin Press, 2007.

12.  Cfr. tra gli altri Charter, Au Revoir, Europe: What If Britain Left The EU?, London, 2012.

13.  Cfr. Cacopardi ed altri, Ingresso del Regno Unito nella CEE. La Gran Bretagna nella CEE/UE, su www. geocities.ws/osservatore_europeo / approfondimenti /semi07.htm.

14.  Cfr. tra gli altri George, Britain and the European Community: The Politics of Semi-Detachment, Oxford, Clarendon Press, 1992; Moravcsik, Preferences and power in the European Community: a liberal intergovernmentalist approach, in Journal of Common Market Studies, 1993, n. 4, p. 473 ss.

15.  Cfr.  Thatcher,  Interview for Woman’s Own (“no such thing as society“) 23 settembre 1987.

16.  Cfr. Capriglione, Grecia: una tragedia del nuovo millennio, in Apertacontrada del 23 luglio 2015, paragr. 3;  Ferrari, Grecia, l’audacia di Tsipras, in Corriere della sera del 11 luglio 2015, visionabile su www.corriere.it /economia /15_luglio_11/grecia-l-audacia-tsiprasab.

17.  Cfr. l’editoriale di Fubini, Brexit, la scossa che ha cambiato l’Europa, visionabile su www.corriere.it/esteri/16 _giugno_24/brexit-scossa-che-ha-cambiato-europa.

18.  Cfr. l’editoriale di Fubini, Brexit, la scossa che ha cambiato l’Europa, cit.

19.  Cfr. per tutti Pelosi, Monti critica Cameron sul referendum, visionabile su www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-06-18/brexit-monti-cosi-cameron-distrugge-ue-105741.shtml?uuid=ADnQ2Ze.

20.  Cfr. per tutti l’editoriale Brexit/ Referendum Unione Europea, Cameron, Il risultato va accettato, restiamo uniti, visionabile su www.ilsussidiario.net/News/Politica/2016/6/27/Brexit-Referendum-Inghilterra-Unione-Europea-il-trucco-di-Cameron-e-bufera-in-Ue-conseguenze-Gran-Bretagna-27-giugno-2016.

21.  Da far presente sul punto che alcuni studiosi (cfr. Campos e Coricelli,  Some unpleasant Brexit econometrics, visionabile su www.voxeu.org/article/some-unpleasant-brexit-econometrics), avevano comunque sottolineato che qualunque fosse stato il risultato del «in-or-out referendum» per l’adesione all’UE, il rapporto della Gran Bretagna con l’Unione Europea sarebbe cambiato in modo sostanziale.

22.  Sul punto cfr. tra gli altri Sen, The Discipline of Cost-Benefit Analysis, in Journal of Legal Studies, 2000, 931-952; Cagliozzi, Lezioni di politica economica. Napoli, 2001; Campbell – Brown, Benefit-Cost Analysis. Financial and Economic Appraisal using Spreadsheets, Cambridge, 2003; Adler – Posner, New Foundations of Cost-Benefit Analysis, Cambridge, 2006; Boardman et al., Cost-Benefit Analysis: Concepts And Practice, New Jersey, 2011; Sinden, Formality And Informality In Cost-Benefit Analysis, in Utah Law Review, 2015. p. 93-172.

23.  Sul trade-off tra efficienza ed equità che conduce a soluzioni second-best, cfr. il classico lavoro di Lipsey – Lancaster, The Genarel Theory of Second Best, in Review of Economic Studies, n. 24, 1956.

24.  Cfr. Capriglione, The UK Referendum and Brexit Hypothesis (The Way Out Perspective and the Convenience to ‘Remain United’), in Open Review of Management, Banking and Finance, marzo 2016.

25.  A tal proposito cfr. per tutti Adler, Well-Being and Fair Distribution: Beyond Cost-Benefit Analysis, Oxford, 2012.

26.  Cfr. l’editoriale di Moavero Milanesi, Brexit, più dei numeri contano le emozioni, pubblicato in il Corriere della Sera  del 17/6/2016.

27.  Gli analisti avevano calcolato una sicura riduzione dell’operatività della City di Londra qualora il referendum avesse approvato la Brexit che di certo avrebbe determinato il trasferimento di parte dell’attività svolta da questa alla piazze dell’area euro, cfr. sul punto l’editoriale pubblicato da Milano Finanza del 24 febbraio 2016 col titolo L’impatto della Brexit in cinque punti, visionabile su www.milanofinanza.it/news/l-impatto-della-brexit-in-cinque-punti. In senso conforme si è espresso anche l’insigne economista Krugman, v. l’intervista  di Haas e Tost intitolata «PAUL KRUGMAN: What’s going on in China right now scares»,  visionabile su http://uk.businessinsider.com/paul-krugman-interview-china-greece-brexit-2016, nella quale alla domanda «Turning to Europe, what do you think about Brexit?» fa riscontro l’inequivoca risposta :«For Britain to be pulling out of that is a bad thing economically».
Un’opinione contraria è stata, invece, formulata da un’altro famoso economista Stigliz  in un evento organizzato dal Labour Shadow Chancellor John McDonnell, cfr. l’editoriale Brexit better for Britain than toxic TTIP, says Joseph Stiglitz, visionabile su  www.rt.com/uk/334409-brexit-ttip-stiglitz-eu/, nel quale si riporta la precisazione «I think that the strictures imposed by TTIP would be sufficiently averse to the functioning of government that it would make me think over again about whether membership of the EU was a good idea».

28.  Cfr. Capriglione, The UK Referendum and Brexit Hypothesis (The Way Out Perspective and the Convenience to ‘Remain United’), cit., paragr. 4.

29.  Come è dato desumere dal picco di ricerche su ‘Che cos’è l’UE’ attuate tramite Google all’indomani del voto referendario, cfr. www.repubblica.it /tecnologia /2016 /06 /24/news /brexit_dopo_i_risultati_in_uk_e_boom_di_ ricerche_su_google _che_cos_e_l_ue)

30.  Cfr. l’editoriale Brexit, Farage fa marcia indietro: 350 mln di sterline dellʼUe non andranno più alla sanità pubblica,
visionabile su www.tgcom24.mediaset.it/mondo/brexit-farage-fa-marcia-indietro-350-mln-di-sterline-dell-ue-non-andranno-piu-alla-sanita-pubblica, nel quale  si precisa che «lʼindiscusso vincitore del divorzio tra Regno Unito e Bruxelles disconosce il suo cavallo di battaglia: le somme prima versate alle casse comunitarie non finiranno ai cittadini».

31.  Cfr. Beevor, D-day: storia dello sbarco in Normandia, Rizzoli, 2013.

32.  Cfr. martinetti, Brexit, oggi i britannici al voto fra pragmatismo e istinto, visionabile su www.lastampa.it/2016/06 /23/cultura/opinioni/secondo-me/brexit-oggi-i-britannici-al-voto-fra-pragmatismo-e-istinto. 

33.  Cfr. Brown, Brexit, la sfida: globali ma equi, visionabile su www.corriere.it/esteri/16_giugno_29/brexit-sfida-globali-ma-equi-gordonbrown.

34.   Cfr. Clericetti, La lezione del Brexit, visionabile su http://sbilanciamoci.info/la-lezione-del-brexit, ove si precisa che «la vittoria di Brexit c’entra poco con l’Europa e molto con le politiche uguali in tutti i paesi, o per convinzione o per costrizione, che stanno provocando dovunque un rigetto verso chi governa».

35.  Cfr. Dyer, Il rimorso degli elettori britannici dopo la Brexit, visionabile su www.internazionale.it/opinione/gwynne-dyer/2016/07/02/brexit-elettori-conservatori-laburisti, ove si precisa che «la maggioranza dei parlamentari conservatori è sconvolta dall’esito del referendum, ma questo vale ancora di più per gli elettori favorevoli alla Brexit. Le proporzioni del rimorso negli elettori sono tali che, se il referendum dovesse tenersi oggi, l’esito sarebbe probabilmente opposto». Singolare, altresì, sono le parole, riportate, da Osborne: «usciremo dall’Unione solo quando saremo pronti…attiveremo l’art. 50 solo quando saremo pronti», cfr. l’editoriale intitolato BREXIT/ Referendum Unione Europea, Cameron: “Il risultato va accettato, restiamo uniti” (conseguenze Gran Bretagna 27 giugno 2016), visionabile su www. ilsussidiario.net/News/Politica/2016/6/27/Brexit-Referendum-Inghilterra-Unione-Europea-il-trucco-di-Cameron-e-bufera-in-Ue-conseguenze-Gran-Bretagna-27-giugno-2016.

36.  Cfr. l’editoriale intitolato BREXIT/ Referendum Unione Europea, Cameron: “Il risultato va accettato, restiamo uniti” (conseguenze Gran Bretagna 27 giugno 2016), cit. .

37.  Cfr. Cicerone, Oratio in Catilinam prima, 1, 1.

38.  Per indicazioni interpretative su tale norma formulate in occasione del Brexit, cfr. l’editoriale di Sanna, Brexit: cosa dice l’art. 50 TUE (Trattato sull’Unione Europea), visionabile su www.news.biancolavoro.it/brexit-cosa-dice-lart-50-tue-trattato-sullunione-europea.

39.   Cfr. Manzini, Tre scenari per il day after, visionabile su www.lavoce.info/archives/41573/brexit-tre-scenari-per-il-day-after,   ove si prospetta la possibilità che il  Regno Unito regoli i rapporti con l’Unione non mediante un accordo specifico, bensì attraverso l’adesione a trattati già esistenti, come l’Efta (European Free Trade Association) o l’Eea (European Economic Area) o la Omc (Organizzazione mondiale del commercio).

40.  Cfr. l’editoriale di Salama pubblicato col titolo  European Commission Statement on Brexit – Full Text, visionabile su www.fxstreet.com/news/european-commission-statement-on-brexit-full-text-201606241221, ove si precisa «As agreed, the “New Settlement for the United Kingdom within the European Union”, reached at the European Council on 18-19 February 2016, will now not take effect and ceases to exist. There will be no renegotiation».

41.  Cfr. Matteucci, Brexit, Parlamento Ue vota per ‘attivazione immediata’. Merkel: “Referendum non può essere ribaltato”, visionabile su www.repubblica.it/esteri/2016/06/28/news/brexit_renzi_ tutto_il_necessario_per_salvare
_soldi_cittadini_e_merkel_contro_presidenza_di_turno_londra.

42.  Cfr. Matteucci, Brexit, Parlamento Ue vota per ‘attivazione immediata’. Merkel: “Referendum non può essere ribaltato”,cit.

43.  Cfr. l’editoriale intitolato Renzi, Holland e Merckel d’accordo: La Brexit non si farà adesso, visionabile su  www.liberoquotidiano.it/news/esteri/11923726/renzi–holland-e-merkel-d-accordo—la-brexit-non-si-fara-adesso–.html

44.  Cfr. l’editoriale Il Parlamento Ue vota la mozione per una Brexit veloce, visionabile su www.globalist.it/world/ articolo /202686/il-parlamento-ue-vota-la-mozione-per-una-brexit-veloce.html.

45.  Cfr. Capriglione – Sacco, Politics and Finance in the European Union. The Reasons for a Difficult Encounter,      p. 200 ss.

46.  Cfr. Dempsey, Why Brexit will be Angela Merkel’s greatest test, visionabile su www.washingtonpost.com/opinions/ global-opinions/why-brexit-will-be-angela-merkels-greatest-test.

47.  Cfr. l’editoriale Renzi, Brexit pesa sulla storia della UE, visionabile su www.ansa.it/sito/notizie/politica/2016/ 06/24/brexit-renzi-sente-merkel-e-hollande.

48.  Cfr. il discorso tenuto il 23 marzo 2007 nel Senato della Repubblica italiana.

49.  Tale documento è visionabile su www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/958346/ index.html?part=dossier_ dossier1-sezione_sezione2&parse=si&spart=si.

50.  Cfr. supra nota n. 30.

51.  Cfr. l’editoriale Brexit, la disfatta di Corbyn. Media: “Guerra civile nel Labour. Peggiore crisi del partito dal 1935″, visionabile su www.ilfattoquotidiano.it/2016/06/27/brexit-la-disfatta-di-corbyn-media-guerra-civile-nel-labour-peggiore-crisi-del-partito-dal-1935, ove si fa espresso riferimento alla «bufera su Corbyn, capo del principale partito di sinistra nel Regno Unito, accusato di non aver fatto abbastanza negli ultimi mesi per convincere i britannici a votare contro l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea».

52.  Cfr.  l’editoriale Brexit. Al Consiglio Ue ultima cena con David Cameron: gelo sul premier britannico, ma è impasse fino a settembre, visionabile su /www.huffingtonpost.it/2016/06/28/brexit-consiglio-ue_n_10719956.html

53.  Cfr. Napoletano, L’intelligenza politica ed in senso dell’urgenza, in IlSole24Ore del 28 giugno 2016.