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Brexit: un divorzio antistorico che può cambiare l’UE (*)

di - 5 Luglio 2016
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In tale contesto si collocano la mancata adesione della Gran Bretagna alla «moneta unica» e la sua politica verso gli affari europei orientata, a partire dal 1992 (i.e. dal Trattato di Maastricht), alla tutela di interessi d’intonazione nazionale. Trova, quindi, spiegazione la frequente richiesta di adattamenti (rectius: modifiche) normativi, nonché l’assunzione di posizioni non coerenti con l’intento di una condivisione totalizzante, necessaria invece in una logica d’integrazione (nella quale deve prevalere l’interesse comune su quello particolaristico dei partecipanti all’Unione). Non a caso in letteratura l’analisi di tale realtà è sfociata in valutazioni che ora fanno riferimento ad un’azione di «gatekeeper» del governo centrale inglese nei confronti della Comunità europea (per salvaguardare la sovranità nazionale), ora ad un manifesto «semi-distacco» della Gran Bretagna dalla costruzione dell’UE[14]; valutazioni che, da ultimo, trovano compendio nelle parole di Jean-Claude Juncker in una intervista sulla Brexit rilasciata alla tv pubblica tedesca Ard : «Quello tra l’Ue e il Regno Unito non sarà un divorzio consensuale, ma non è stata neppure una grande storia d’amore».
In tale premessa, vanno analizzati gli accordi, conclusi a Bruxelles nel febbraio 2016 tra il primo ministro David Came­ron e i vertici europei, nei quali viene riconosciuto alla Gran Bretagna uno status particolare all’interno dell’UE. Le concessioni  accordate spaziano dalla simbolica ‘attestazione’ che detto Paese non farà parte di un’Unione «sempre più stretta» a facilitazioni di vario genere (tra cui assume specifico rilievo la possibilità di limitare i sussidi per gli immi­grati comunitari). Tali accordi costituiscono un’inconfutabile prova delle difficoltà incontrate dall’UE nel far fronte alle logiche della convenienza economica poste dal Regno Unito a fondamento della sua adesione (e delle modalità partecipative) al progetto dei padri fondatori della Comunità; pertanto, può dirsi che la linea decisionale di tale Paese ha privilegiato, nelle sue scelte, un calcolo utilitaristico sulle motivazioni valoriali (improntate alla coesione ed alla solidarietà) che, invece, avrebbero dovuto muovere i paesi aderenti.

3.       Un’attenta analisi del voto espresso nella Gran Bretagna il 23 giugno 2016 induce a ritenere che esso riflette la logica tipicamente propria del popolo britannico, il quale ispira la propria condotta ad una visione pragmatica delle relazioni sociali, anteponendo la specificità del proprio interesse nelle scelte da effettuare. Sintetizzano tale particolare modo di relazionarsi agli altri le indicazioni fornite da Margaret Thatcher, in una nota intervista rilasciata a Women’s Own magazine, nell’ottobre del 1987[15]. Richiesta di puntualizzare i compiti del Governo nel rapporto con i problemi sociali l’ex Premier tenne a precisare che «no government can do anything except through people, and people must look to themselves first. It’s our duty to look after ourselves and then, also to look after our neighbour». E’ questa una enunciazione di principio che, nel tempo, ha guidato l’approccio del U.K. nell’incontro con gli altri paesi, non esclusi i propri partners europei a partire dal 1973!
«People must look to themselves first», l’attenzione ai propri interessi identifica, dunque, l’obiettivo primario del Governo britannico, che si risolve in un’affannosa ricerca della convenienza economica nelle relazioni col proprio «neighbour»; donde la necessaria limitazione di qualsivoglia forma d’apertura e di riferibilità agli altri paesi al fine di  realizzare rapporti di coesione e solidarietà. Da qui la linea comportamentale tenuta, nel tempo, dai Capi di Governo del U.K.; essa, a ben considerare, rispecchia un sostanziale sentimento antieuropeo che nel presente si è manifestato in concreto con il voto referendario, da cui è emerso il vero volto della Gran Bretagna, con evidente, ovvia sorpresa di coloro che l’avevano considerata un «paese europeo» a pieno titolo.
In tale contesto logico trovano spiegazione, oltre al rifiuto per la «moneta unica», dianzi menzionato, quello per il progetto di «Unione Bancaria»,  nonché la mancata adesione al Fiscal Compact e alla convenzione di Schengen (previo esercizio della clausola di esclusione, cd. opt-out, sulla libera circolazione delle persone). Si comprende, peraltro, come l’Unione abbia errato nel corrispondere alle richieste del Regno Unito e, dunque, sia addivenuta nel continuum a concessioni che, in occasione dei nominati accordi del febbraio 2016, si sono estrinsecate addirittura in una sorta di ‘statuto speciale’; risulta evidente, infatti, che la politica UE di accondiscendere ai desiderata della Gran Bretagna non è stata sufficiente a trattenerla nella compagine regionale europea, non ha convinto i britannici a desistere dal loro intento di porre fine ad una relazione sentita (forse: sofferta) come forma di «convivenza forzata»!
Ciò posto, permane comunque l’interrogativo sul come possa essere accaduto che, a fronte di un costante trattamento privilegiato, la popolazione britannica ha scelto di ‘divorziare’ dall’Unione europea, ponendo fine agli indugi nel liberarsi di un legame che, ad avviso di molti, appariva ormai insostenibile. La risposta a tale quesito affonda le sue radici in una storia di errate valutazioni politiche, che riporta alla mente il ricorso al voto referendario del popolo greco disposto dal Premier Tsipras nel giugno 2015[16].
Mi riferisco, in particolare, allo svolgimento della campagna elettorale di Cameron nel 2013, allorché questi per conseguire il sostegno Tory ad un secondo mandato a Downing Street, promise il referendum sulla Brexit, senza un adeguato approfondimento in ordine alla possibilità di un esito dello stesso favorevole al Remain. E’ evidente come, nell’occasione, superficialità ed inadeguata valutazione delle implicazioni negative dell’«ingranaggio» così innescato abbiano guidato Cameron; questi «come un anno fa Alexis Tsipras …aveva finito per vedere nella chiamata alle urne un diversivo tattico per divincolarsi quando ormai si sentiva alle corde»[17]. Sicchè, di fronte alla minaccia di perdere la propria posizione di leader del partito conservatore e candidato premier, tale incauto politico «ha scelto di giocarsi al tavolo verde il destino del Regno», ipotizzando nel contempo di «poter mettere a tacere gli ultranazionalisti dello Ukip»[18].
Si è in presenza di una ‘mossa strategica’ certamente coerente sotto un profilo giuridico, in quanto il rinvio al voto popolare deve ritenersi conforme ad una corretta applicazione delle modalità decisionali riconosciute nei moderni sistemi democratici. A ben considerare, tuttavia, se a livello teleologico tale misura persegue il meritevole obiettivo di attestare la prevalenza della ‘sovranità nazionale’ sulla logica regolatoria dei vertici europei, per converso sul piano sostanziale appare verosimile che essa sia stata utilizzata in chiave strumentale per finalità improprie e senza l’assunzione di responsabilità che necessita in situazioni di tal genere.
Pertanto, volendo risalire alla causa prima degli accadimenti in parola occorre aver riguardo all’intento di Cameron di evitare le  implicazioni negative che sarebbero derivate sulla ‘tenuta del suo governo’ da un ridimensionamento dell’elettorato a lui favorevole. Tale lettura degli eventi di cui trattasi trova del resto conforto, vuoi nei giudizi critici riportati dalla stampa specializzata[19], vuoi dai discordanti tratti comportamentali di tale politico, il quale dopo la vittoria del «leave» ha tenuto una condotta che tende a minimizzare gli esiti del voto popolare e ad allontanare nel tempo la concreta attuazione dell’exit (senza riconoscere le proprie responsabilità in ordine alle inevitabili criticità che dal suo agere sono derivate)[20].

4.       A fronte delle numerose facilitazioni concesse dall’EU alla Gran Bretagna, poteva verosimilmente ipotizzarsi che gli esiti della votazione referendaria avrebbero confermato lo statu quo. Da qui l’orientamento di numerosi osservatori cui era sembrato possibile supporre un risultato elettorale volto a conseguire una sostanziale monetizzazione del ‘beneficio netto complessivo’ derivante dal mantenimento del U.K. all’interno dell’Unione.

Note

14.  Cfr. tra gli altri George, Britain and the European Community: The Politics of Semi-Detachment, Oxford, Clarendon Press, 1992; Moravcsik, Preferences and power in the European Community: a liberal intergovernmentalist approach, in Journal of Common Market Studies, 1993, n. 4, p. 473 ss.

15.  Cfr.  Thatcher,  Interview for Woman’s Own (“no such thing as society“) 23 settembre 1987.

16.  Cfr. Capriglione, Grecia: una tragedia del nuovo millennio, in Apertacontrada del 23 luglio 2015, paragr. 3;  Ferrari, Grecia, l’audacia di Tsipras, in Corriere della sera del 11 luglio 2015, visionabile su www.corriere.it /economia /15_luglio_11/grecia-l-audacia-tsiprasab.

17.  Cfr. l’editoriale di Fubini, Brexit, la scossa che ha cambiato l’Europa, visionabile su www.corriere.it/esteri/16 _giugno_24/brexit-scossa-che-ha-cambiato-europa.

18.  Cfr. l’editoriale di Fubini, Brexit, la scossa che ha cambiato l’Europa, cit.

19.  Cfr. per tutti Pelosi, Monti critica Cameron sul referendum, visionabile su www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-06-18/brexit-monti-cosi-cameron-distrugge-ue-105741.shtml?uuid=ADnQ2Ze.

20.  Cfr. per tutti l’editoriale Brexit/ Referendum Unione Europea, Cameron, Il risultato va accettato, restiamo uniti, visionabile su www.ilsussidiario.net/News/Politica/2016/6/27/Brexit-Referendum-Inghilterra-Unione-Europea-il-trucco-di-Cameron-e-bufera-in-Ue-conseguenze-Gran-Bretagna-27-giugno-2016.

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