Beni comuni in senso giuridico e commons in senso economico: un confronto tra due categorie non coincidenti
Gianfrancesco Fidone, ASN Professore di prima fascia in diritto amministrativo – Avvocato amministrativista. Professore a contratto presso la LUISS Guido Carli e l’Università di Roma La Sapienza. Per un approfondimento della tematica dei beni comuni, si rinvia a G. Fidone, Proprietà pubblica e beni comuni, ETS, 2017.
1. Beni comuni e proprietà pubblica per i giuristi; 2. Beni pubblici e commons per gli economisti; 3. Ritorno alle categorie giuridiche: commons e beni comuni; 3.1 Ancora sulla distinzione tra beni pubblici aperti all’uso generale e beni comuni; 4. Conclusioni: il confronto tra categorie giuridiche ed economiche.
1. Beni comuni e proprietà pubblica per i giuristi.
Come noto, l’art. 42 Cost. afferma che “la proprietà è pubblica o privata“. La funzione sociale della proprietà, di cui gli stessi beni comuni costituiscono un’applicazione, espressamente richiamata in relazione alla proprietà privata, deve considerarsi presupposta nella definizione di proprietà pubblica, costituendo un principio generale di tutte le forme proprietarie.
Ciò può portare a ritenere che la distinzione tra proprietà pubblica e privata debba fondarsi, a prescindere dal soggetto proprietario, su un criterio oggettivo – funzionale, in considerazione della destinazione del bene, ovvero dell’interesse (pubblico o privato) che esso è preposto a realizzare. Tale criterio appare alternativo a quello soggettivo che permea la disciplina dei beni pubblici dettata dal codice civile, centrata sul dato formale della titolarità della proprietà in capo alla pubblica amministrazione[1].
Se la destinazione del bene (ovvero l’interesse che il bene è preordinato a soddisfare) diventa centrale per la classificazione dei beni e ne determina il regime giuridico, può aprirsi la strada per l’individuazione di un’ulteriore categoria rispetto a quelle dei beni pubblici (ovvero i beni preposti alla realizzazione di un pubblico interesse) e dei beni privati (ovvero i beni preposti alla realizzazione di un interesse privato). I beni comuni sono preposti alla realizzazione di un interesse non pubblico e non privato, bensì comune, ovvero di una comunità distinta dalla generalità degli individui. L’appartenenza di un bene a tale categoria, che può trovare ancoraggio Costituzionale nella funzione sociale della proprietà espressamente prevista per la proprietà privata e insita in quella pubblica, prescinde dal fatto che esso sia di titolarità della pubblica amministrazione o di privati.
Tali beni si collocherebbero in una logica antitetica a quella del mercato, dal momento che sarebbero caratterizzati dalla non esclusione dall’uso generale, tale da renderli non assoggettabili ad un prezzo di utilizzo. Si tratterebbe, dunque, di beni destinati ad un uso generale, a cui sono ammessi tutti indistintamente[2].
Il collegamento tra il dibattito sulla riforma della disciplina generale dei beni pubblici e quello sulla categoria dei beni comuni appare evidente nei lavori della c.d. Commissione Rodotà, istituita presso il Ministero della Giustizia con Decreto del Ministro del 21 giugno 2007, che è scaturito in uno schema di disegno di legge delega al Governo per la novella del Capo II del Titolo I del Libro III del Codice Civile[3]. Nell’ambito di tale riforma, la Commissione accanto alle categorie dei beni pubblici e dei beni privati, prevedeva quella dei beni comuni, caratterizzata per il fatto che i beni che fanno ne parte, indipendentemente dalla loro appartenenza pubblica o privata, sarebbero caratterizzati da fruizione collettiva ed esprimerebbero utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. Secondo lo stesso schema di disegno di legge, apparterrebbero alla categoria beni di diversa natura che vanno dalle risorse naturali (fiumi, laghi, foreste, ghiacciai, ecc.) all’ aria, per arrivare alla fauna e alla flora e fino ai beni archeologici, culturali e ambientali, oltreché del paesaggio. Non appaiono, peraltro, adeguatamente spiegate le ragioni che giustificano la riconduzione a tale categoria e troppo vago appare il riferimento unificante all’utilità di tali beni, funzionale all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona. Si tratta, indubbiamente, non del punto di arrivo del dibattito in corso, quanto del suo momento di avvio.
Tale successivo dibattito si è caratterizzato per un certo grado di retorica e non ha risolto molte incertezze sulla stessa definizione della categoria dei beni comuni, sulle tipologie di beni che entrerebbero a farvi parte, sulla determinazione dei gruppi di individui per i quali gli stessi beni appaiono comuni. Sono state esaltate alcune caratteristiche qualificanti quali la loro funzionalità a garantire diritti fondamentali, il loro evocare ragioni identitarie e radici culturali comuni, la non esclusione dalla fruibilità generale che determinerebbe la loro incommerciabilità (poiché la loro libera accessibilità ne azzererebbe il valore di scambio), la loro utilità a carattere non patrimoniale[4]. Tuttavia, da un lato, tali caratteristiche appaiono ancora insufficienti a definire la categoria e, dall’altro lato, provocano l’eccessiva dilatazione del concetto di bene comune, ancora oltre rispetto all’ampia elencazione che aveva individuato la Commissione Rodotà, e la sua indeterminatezza. Vi è stato, ad esempio, l’allargamento del concetto ai beni immateriali come la conoscenza e le sue applicazioni, le creazioni artistiche, le culture popolari, le lingue, le informazioni genetiche, ecc.; allo spazio urbano (che presenta caratteri di materialità ma anche di immaterialità) che è frutto della cooperazione sociale e che determina le modalità e la qualità delle vite dei cittadini; ai nuovi beni comuni che sono conseguenza del progresso tecnologico e informatico, quali la rete internet e tutte le sue derivazioni e applicazioni; ai servizi pubblici finalizzati alla tutela e alla realizzazione di diritti fondamentali come la salute e l’istruzione (scuola, sanità, università, ecc); alla funzione amministrativa che regola in modo unilaterale le attività dei privati[5].
Inoltre, i beni comuni potrebbero non solo afferire a gruppi limitati di cittadini ma anche all’intera collettività umana (c.d. global commons). A tale categoria sono state ricondotte le risorse naturali globali come l’atmosfera (si pensi al dibattito sul cambiamento climatico), gli oceani, la biodiversità; il cibo in senso lato (correlato cioè al diritto fondamentale al cibo sicuro, sano e adeguato, alla lotta alla fame nel mondo) e l’acqua (pure correlata al diritto fondamentale di disporne per tutte le esigenze del vivere quotidiano); beni immateriali quali l’accesso ad internet e la rete web.
L’eccessiva dilatazione della categoria ne ha fatto perdere i tratti distintivi, con la conseguenza che anche le legislazioni nazionale e, soprattutto, regionale hanno spesso fatto riferimento ad essa risentendo della confusione concettuale di cui si è appena detto. Vi è stato, dunque, un uso improprio della nozione con poco rigore scientifico.
Parallelamente al dibattito che si è descritto, pur in mancanza di una disciplina generale, la legislazione, soprattutto regionale ma anche nazionale, ha fatto espresso riferimento ai beni comuni, ad esempio, in tema di governo del territorio, consumo del suolo e acque. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno riconosciuto taluni beni demaniali (le Valli da Pesca venete) come funzionali ai diritti fondamentali di determinate collettività, definendoli espressamente beni comuni[6]. Anche il Consiglio di Stato ha affermato che lo sfruttamento privato del bene comune porta ad un impoverimento della comunità (il caso è quello di una concessione da parte di una Regione ad una ditta produttrice di acque minerali del diritto di sfruttare una fonte riferibile ad una comunità).
Note
1. La discussione non può prescindere dalle tesi degli autorevoli Autori che hanno classificato i beni secondo un criterio oggettivo (A.M. Sandulli, voce Beni pubblici, in Enciclopedia del diritto, V, 1959, Milano, pp. 277 ss.), soggettivo (S. Cassese, I beni pubblici, circolazione e tutela, Milano, 1969) o misto (Giannini M.S., I beni pubblici, Dispense per l’anno accademico 1962/1963, Roma, 1963; V. Cerulli Irelli, La proprietà pubblica e i diritti collettivi, Padova, 1983, pp. 26 ss.). ↑
2. A. Di Porto, Res in usu publico e beni comuni – Il nodo della tutela, Torino, 2013; Rodotà S., Il diritto di avere diritti, Roma – Bari, 2012. ↑
3. Si confronti, E. Reviglio, Per una riforma del regime giuridico dei beni pubblici. Le proposte della Commissione Rodotà, in Pol. dir., 2008, 531 ss.; U. MATTEI – E. REVIGLIO – S. RODOTÀ (a cura di), Invertire la rotta, Bologna, 2007; U. Mattei – E. Reviglio – S. Rodotà (a cura di), I beni pubblici. Dal governo democratico dell’economia alla riforma del codice civile, Roma, 2010. ↑
4. Ad esempio, U. Mattei, Beni Comuni un manifesto, Roma-Bari, 2011. ↑
5. Si confrontino, M.R. Marella (a cura di) Oltre il pubblico e il privato, Verona, 2012; S. Rodotà, Il terribile diritto – studi sulla proprietà privata e i beni comuni, III ed., Bologna, 2013, pp. 459 ss.; in Bombardelli M. (a cura di), Prendersi cura dei beni comuni per uscire dalla crisi, Napoli, 2016. ↑
6. Cass, sez. un., 14.2.2011, n. 3665; Cass, sez. un., 16.2.2011, n. 3811; Cass, sez. un., 16.2.2011, n. 3812; Cass, sez. un., 18.2.2011, n. 3936; Cass, sez. un. 18.2.2011, n. 3937; Cass, sez. un. 18.2.2011, n. 3938; Cass, sez. un. 18.2.2011, n. 3939. Si confrontino: A. Lalli, I beni pubblici. Imperativi di mercato e diritti della collettività, Napoli, 2015, pp. 268 ss.; A. Di Porto, Res in usu publico e beni comuni – Il nodo della tutela, Torino, 2013, pp. 45 ss.; E. Caliceti, Il regime dei beni comuni: profili dominicali e modelli di gestione, in M. Bombardelli (a cura di), Prendersi cura dei beni comuni per uscire dalla crisi, Napoli, 2016, pp. 63 ss.; S. LIETO, “Beni comuni”, diritti fondamentali e Stato sociale. La Corte di Cassazione oltre la prospettiva della proprietà codicistica, in Pol. dir., 2/2011; E. PELLECCHIA, Valori costituzionali e nuova tassonomia dei beni: dal bene pubblico al bene comune, in Foro it., 2012, I, cc. 573 ss; C.M. CASCIONE, Le Sezioni Unite oltre il codice civile. Per un ripensamento della categoria dei beni pubblici, in Giur. it., 2011, 12 ss; F. CORTESE, Dalle valli da pesca ai beni comuni: la Cassazione rilegge lo statuto dei beni pubblici?, in Giorn. dir. amm., 2011, 1170 ss; P. Chirulli, I beni comuni, tra diritti fondamentali, usi collettivi e doveri di solidarietà, in Giustamm.it, 2012; V. Cerulli Irelli – L. De Lucia, Beni Comuni e diritti collettivi, in Pol. dir., 2014, p.10. ↑