Beni comuni in senso giuridico e commons in senso economico: un confronto tra due categorie non coincidenti
Molti Comuni (il cui numero è in costante espansione) hanno approvato Regolamenti (sul modello creato da LABSUS) per la cura e la gestione dei beni comuni, attraverso forme di amministrazione condivisa con i cittadini[7]. A fianco a tali buone pratiche si sono sviluppati casi di occupazioni illegittime di beni pubblici o privati, rivendicati come comuni, da parte di gruppi di cittadini (si pensi al caso del Teatro Valle a Roma).
La dottrina non ha tardato a riconoscere la categoria dei beni comuni come una sorta di contenitore nel quale collocare anche gli usi civici previsti dalla l. 16.6.1927 n. 1766[8]. Le tesi riferite a tali istituti possono costituire un punto di partenza per la costruzione di una teoria generale dei beni comuni[9].
Tutto ciò porta a ritenere che la categoria dei beni comuni già esista nel nostro ordinamento e pone problemi teorici.
2. Beni pubblici e commons per gli economisti.
L’insufficienza degli esiti del dibattito sulla categoria dei beni comuni porta ad estendere l’oggetto della ricerca, secondo un approccio interdisciplinare, alle elaborazioni degli economisti e dei sociologi, indagando sulle categorie distintive dei beni che tali discipline hanno elaborato, che non coincidono con quelle usate dai giuristi. Occorre, dunque, partire dalle categorie concettuali utilizzate da economisti e sociologi per poi tornare a quelle giuridiche. Peraltro, come riconosciuto anche da molti contributi giuridici al tema dei beni comuni, la crescita di sensibilità verso tale tematica è dovuta in larga misura all’assegnazione del premio Nobel per l’economia a Elinor Ostrom nel 2009, che fa riferimento esplicito al libro Governing the commons: the Evolution of Institutions for colletctive action, appunto dedicato al tema dei commons e del loro governo.
Gli economisti hanno elaborato una classificazione dei beni, che si fonda sul criterio oggettivo delle loro caratteristiche sostanziali e che prescinde completamente dal criterio soggettivo (ovvero l’appartenenza proprietaria). Si tratta però di un criterio diverso da quello oggettivo – funzionale utilizzato dai giuristi, fondato sulla destinazione del bene (ovvero sull’utilità che il bene è destinato a soddisfare).
Il criterio utilizzato dagli economisti si fonda sulla presenza o meno per un determinato bene delle due caratteristiche della escludibilità (la proprietà di un bene in forza della quale a un individuo può esserne impedito l’uso) e della rivalità (proprietà di un bene in forza della quale l’uso da parte di un individuo ne limita le possibilità di godimento da parte di un altro). Sulla base di tali caratteristiche oggettive, la teoria economica distingue quattro tipologie di beni: i beni privati, rivali ed escludibili (ad esempio, gli abiti, i gelati, ecc); i beni di club, non rivali ma escludibili (ad esempio, le strade a pagamento, la televisione a pagamento, ecc); le risorse collettive anche dette commons, rivali ma non escludibili (ad esempio, le riserve ittiche, l’ambiente, ecc.); i beni pubblici, non rivali e non escludibili (ad esempio, la difesa nazionale, l’illuminazione stradale, ecc).
Sarebbe però sbagliato acriticamente sovrapporre la categoria dei commons (o risorse naturali) a quella di bene comune in senso giuridico, poiché quest’ultima è certamente più vasta e articolata e può comprendere beni che appartengano anche ad altre delle categorie richiamate dagli economisti.
Tuttavia, lo studio dei beni che hanno la caratteristica della non escludibilità (che ricorre tanto nei beni pubblici che nei commons) appare utile all’individuazione di alcune criticità che la teoria economica ha ben individuato.
Tale caratteristica può creare esternalità positive che possono condurre a problemi di opportunismo (c.d. freerider) per causa di soggetti che ne traggono beneficio senza sopportarne gli oneri. A tale criticità, quando si aggiunge la caratteristica della rivalità nel consumo (nel caso dei commons), si associa anche quella del possibile sovraconsumo da parte della collettività, tale da mettere a rischio nel lungo periodo la stessa esistenza del bene (la c.d. tragedia dei commons evocata da Hardin).
A tali problematicità la letteratura economica tradizionale ha dato soluzione attraverso l’assoggettamento di tali beni alla mano pubblica ovvero attraverso la privatizzazione degli stessi beni. Ciò ha come conseguenza il ricadere nella consueta polarizzazione pubblico – privato che comporta l’esclusione di terze forme proprietarie.
Tuttavia, la stessa teoria economica mostra come possono verificarsi fallimenti dell’intervento pubblico, sia sotto la forma della gestione diretta che della regolazione. Anche l’intervento privato può fallire, qualora si verifichi la c.d. seconda tragedia dei commons, consistente nella loro trasformazione in commodities, ovvero in beni oggetto di scambio, qualora venga meno la caratteristica della non escludibilità. Detto in altri termini, da una tragedia si passerebbe ad una diversa tragedia ovvero quella che si fonda sull’esclusione dei gruppi di riferimento dei beni comuni dal loro uso. Inoltre, la privatizzazione dei beni comuni trova anche un altro ostacolo nella considerazione che spesso tali beni hanno elevati valori di non uso, dal momento che possono generare utilità e benessere individuale per i membri di un determinato gruppo o collettività per la loro sola esistenza e indipendentemente dal fatto che vengano usati o consumati in modo diretto. Ancora, ulteriore cause di fallimento dell’intervento pubblico e delle privatizzazioni può essere la frammentazione dei diritti proprietari e la c.d. tragedia degli anticommons.
La conclusione del ragionamento è che tanto l’assoggettamento del bene alla mano pubblica quanto la sua privatizzazione possono, almeno nel caso di alcuni beni (e, in particolare per quelli a destinazione comune) e in determinate situazioni, non costituire una soluzione efficiente ed equa di governo degli stessi.
Può, inoltre, essere superato il presupposto teorico dell’homo economicus – egoista razionale, che fonda la necessità (al fine di evitare il comportamento da free rider e la tragedia dei commons) dell’intervento dello Stato o della privatizzazione dei beni pubblici e dei commons. Si può, infatti, pensare che nello sfruttamento di risorse comuni, gli individui adottino comportamenti (diversi da quello dell’uomo egoista – razionale) fondati su un atteggiamento cooperativo che rafforza (in modo antitetico al bipolarismo mano pubblica – privatizzazione) l’idea della comunità. Tale comportamento cooperativo può caratterizzare il rapporto tra comunità e beni comuni, coerentemente con quanto sostenuto dai sociologi sulla base della rivisitazione della teoria della “scelta razionale”, ovvero che determinate azioni umane sono fondate da motivazioni che dagli economisti politici sarebbero considerate irrazionali. L’assunto è quello che ha ispirato il lavoro di E. Ostrom, fondato su una casistica concreta, che su tale base ha teorizzato forme di auto-governo dei commons da parte delle collettività di riferimento, ricorrendo determinati presupposti e condizioni.
Dunque, per ciò che maggiormente interessa il presente studio, i membri di una comunità possono essere indotti a cooperare nella gestione dei beni comuni e, anzi, sarebbe proprio la natura comune di tali beni a rafforzare la cooperazione. Ciò può consentire esperienze di auto-governo degli stessi beni da parte delle comunità (fondate sulla cooperazione), senza che si verifichino le varie tragedie a cui si è fatto riferimento (che sono conseguenza dei comportamenti fondati sull’egoismo – razionale).
Note
7. Si confronti, G. Arena – C. Iaione (a cura di), L’Italia dei beni comuni, Bari, 2012; G. Arena, Introduzione al Rapporto Labsus 2015 – sull’amministrazione condivisa dei beni comuni, 2015, sul sito labsus.org. ↑
8. F. Marinelli, Gli usi civici, Milano, 2013. ↑
9. V. Cerulli Irelli- L. De Lucia, Beni comuni e diritti collettivi, in Pol. dir., 2014, 1. ↑