Beni comuni in senso giuridico e commons in senso economico: un confronto tra due categorie non coincidenti

Gianfrancesco Fidone, ASN Professore di prima fascia in diritto amministrativo – Avvocato amministrativista. Professore a contratto presso la LUISS Guido Carli e l’Università di Roma La Sapienza. Per un approfondimento della tematica dei beni comuni, si rinvia a G. Fidone, Proprietà pubblica e beni comuni, ETS, 2017.

1. Beni comuni e proprietà pubblica per i giuristi; 2. Beni pubblici e commons per gli economisti; 3. Ritorno alle categorie giuridiche: commons e beni comuni; 3.1 Ancora sulla distinzione tra beni pubblici aperti all’uso generale e beni comuni; 4. Conclusioni: il confronto tra categorie giuridiche ed economiche.

1. Beni comuni e proprietà pubblica per i giuristi.
Come noto, l’art. 42 Cost. afferma che “la proprietà è pubblica o privata“. La funzione sociale della proprietà, di cui gli stessi beni comuni costituiscono un’applicazione, espressamente richiamata in relazione alla proprietà privata, deve considerarsi presupposta nella definizione di proprietà pubblica, costituendo un principio generale di tutte le forme proprietarie.
Ciò può portare a ritenere che la distinzione tra proprietà pubblica e privata debba fondarsi, a prescindere dal soggetto proprietario, su un criterio oggettivo – funzionale, in considerazione della destinazione del bene, ovvero dell’interesse (pubblico o privato) che esso è preposto a realizzare. Tale criterio appare alternativo a quello soggettivo che permea la disciplina dei beni pubblici dettata dal codice civile, centrata sul dato formale della titolarità della proprietà in capo alla pubblica amministrazione[1].
Se la destinazione del bene (ovvero l’interesse che il bene è preordinato a soddisfare) diventa centrale per la classificazione dei beni e ne determina il regime giuridico, può aprirsi la strada per l’individuazione di un’ulteriore categoria rispetto a quelle dei beni pubblici (ovvero i beni preposti alla realizzazione di un pubblico interesse) e dei beni privati (ovvero i beni preposti alla realizzazione di un interesse privato). I beni comuni sono preposti alla realizzazione di un interesse non pubblico e non privato, bensì comune, ovvero di una comunità distinta dalla generalità degli individui. L’appartenenza di un bene a tale categoria, che può trovare ancoraggio Costituzionale nella funzione sociale della proprietà espressamente prevista per la proprietà privata e insita in quella pubblica, prescinde dal fatto che esso sia di titolarità della pubblica amministrazione o di privati.
Tali beni si collocherebbero in una logica antitetica a quella del mercato, dal momento che sarebbero caratterizzati dalla non esclusione dall’uso generale, tale da renderli non assoggettabili ad un prezzo di utilizzo. Si tratterebbe, dunque, di beni destinati ad un uso generale, a cui sono ammessi tutti indistintamente[2].
Il collegamento tra il dibattito sulla riforma della disciplina generale dei beni pubblici e quello sulla categoria dei beni comuni appare evidente nei lavori della c.d. Commissione Rodotà, istituita presso il Ministero della Giustizia con Decreto del Ministro del 21 giugno 2007, che è scaturito in uno schema di disegno di legge delega al Governo per la novella del Capo II del Titolo I del Libro III del Codice Civile[3]. Nell’ambito di tale riforma, la Commissione accanto alle categorie dei beni pubblici e dei beni privati, prevedeva quella dei beni comuni, caratterizzata per il fatto che i beni che fanno ne parte, indipendentemente dalla loro appartenenza pubblica o privata, sarebbero caratterizzati da fruizione collettiva ed esprimerebbero utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. Secondo lo stesso schema di disegno di legge, apparterrebbero alla categoria beni di diversa natura che vanno dalle risorse naturali (fiumi, laghi, foreste, ghiacciai, ecc.) all’ aria, per arrivare alla fauna e alla flora e fino ai beni archeologici, culturali e ambientali, oltreché del paesaggio. Non appaiono, peraltro, adeguatamente spiegate le ragioni che giustificano la riconduzione a tale categoria e troppo vago appare il riferimento unificante all’utilità di tali beni, funzionale all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona. Si tratta, indubbiamente, non del punto di arrivo del dibattito in corso, quanto del suo momento di avvio.
Tale successivo dibattito si è caratterizzato per un certo grado di retorica e non ha risolto molte incertezze sulla stessa definizione della categoria dei beni comuni, sulle tipologie di beni che entrerebbero a farvi parte, sulla determinazione dei gruppi di individui per i quali gli stessi beni appaiono comuni. Sono state esaltate alcune caratteristiche qualificanti quali la loro funzionalità a garantire diritti fondamentali, il loro evocare ragioni identitarie e radici culturali comuni, la non esclusione dalla fruibilità generale che determinerebbe la loro incommerciabilità (poiché la loro libera accessibilità ne azzererebbe il valore di scambio), la loro utilità a carattere non patrimoniale[4]. Tuttavia, da un lato, tali caratteristiche appaiono ancora insufficienti a definire la categoria e, dall’altro lato, provocano l’eccessiva dilatazione del concetto di bene comune, ancora oltre rispetto all’ampia elencazione che aveva individuato la Commissione Rodotà, e la sua indeterminatezza. Vi è stato, ad esempio, l’allargamento del concetto ai beni immateriali come la conoscenza e le sue applicazioni, le creazioni artistiche, le culture popolari, le lingue, le informazioni genetiche, ecc.; allo spazio urbano (che presenta caratteri di materialità ma anche di immaterialità) che è frutto della cooperazione sociale e che determina le modalità e la qualità delle vite dei cittadini; ai nuovi beni comuni che sono conseguenza del progresso tecnologico e informatico, quali la rete internet e tutte le sue derivazioni e applicazioni; ai servizi pubblici finalizzati alla tutela e alla realizzazione di diritti fondamentali come la salute e l’istruzione (scuola, sanità, università, ecc); alla funzione amministrativa che regola in modo unilaterale le attività dei privati[5].
Inoltre, i beni comuni potrebbero non solo afferire a gruppi limitati di cittadini ma anche all’intera collettività umana (c.d. global commons). A tale categoria sono state ricondotte le risorse naturali globali come l’atmosfera (si pensi al dibattito sul cambiamento climatico), gli oceani, la biodiversità; il cibo in senso lato (correlato cioè al diritto fondamentale al cibo sicuro, sano e adeguato, alla lotta alla fame nel mondo) e l’acqua (pure correlata al diritto fondamentale di disporne per tutte le esigenze del vivere quotidiano); beni immateriali quali l’accesso ad internet e la rete web.
L’eccessiva dilatazione della categoria ne ha fatto perdere i tratti distintivi, con la conseguenza che anche le legislazioni nazionale e, soprattutto, regionale hanno spesso fatto riferimento ad essa risentendo della confusione concettuale di cui si è appena detto. Vi è stato, dunque, un uso improprio della nozione con poco rigore scientifico.
Parallelamente al dibattito che si è descritto, pur in mancanza di una disciplina generale, la legislazione, soprattutto regionale ma anche nazionale, ha fatto espresso riferimento ai beni comuni, ad esempio, in tema di governo del territorio, consumo del suolo e acque. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno riconosciuto taluni beni demaniali (le Valli da Pesca venete) come funzionali ai diritti fondamentali di determinate collettività, definendoli espressamente beni comuni[6]. Anche il Consiglio di Stato ha affermato che lo sfruttamento privato del bene comune porta ad un impoverimento della comunità (il caso è quello di una concessione da parte di una Regione ad una ditta produttrice di acque minerali del diritto di sfruttare una fonte riferibile ad una comunità).

Molti Comuni (il cui numero è in costante espansione) hanno approvato Regolamenti (sul modello creato da LABSUS) per la cura e la gestione dei beni comuni, attraverso forme di amministrazione condivisa con i cittadini[7]. A fianco a tali buone pratiche si sono sviluppati casi di occupazioni illegittime di beni pubblici o privati, rivendicati come comuni, da parte di gruppi di cittadini (si pensi al caso del Teatro Valle a Roma).
La dottrina non ha tardato a riconoscere la categoria dei beni comuni come una sorta di contenitore nel quale collocare anche gli usi civici previsti dalla l. 16.6.1927 n. 1766[8]. Le tesi riferite a tali istituti possono costituire un punto di partenza per la costruzione di una teoria generale dei beni comuni[9].
Tutto ciò porta a ritenere che la categoria dei beni comuni già esista nel nostro ordinamento e pone problemi teorici.

2. Beni pubblici e commons per gli economisti.
L’insufficienza degli esiti del dibattito sulla categoria dei beni comuni porta ad estendere l’oggetto della ricerca, secondo un approccio interdisciplinare, alle elaborazioni degli economisti e dei sociologi, indagando sulle categorie distintive dei beni che tali discipline hanno elaborato, che non coincidono con quelle usate dai giuristi. Occorre, dunque, partire dalle categorie concettuali utilizzate da economisti e sociologi per poi tornare a quelle giuridiche. Peraltro, come riconosciuto anche da molti contributi giuridici al tema dei beni comuni, la crescita di sensibilità verso tale tematica è dovuta in larga misura all’assegnazione del premio Nobel per l’economia a Elinor Ostrom nel 2009, che fa riferimento esplicito al libro Governing the commons: the Evolution of Institutions for colletctive action, appunto dedicato al tema dei commons e del loro governo.
Gli economisti hanno elaborato una classificazione dei beni, che si fonda sul criterio oggettivo delle loro caratteristiche sostanziali e che prescinde completamente dal criterio soggettivo (ovvero l’appartenenza proprietaria). Si tratta però di un criterio diverso da quello oggettivo – funzionale utilizzato dai giuristi, fondato sulla destinazione del bene (ovvero sull’utilità che il bene è destinato a soddisfare).
Il criterio utilizzato dagli economisti si fonda sulla presenza o meno per un determinato bene delle due caratteristiche della escludibilità (la proprietà di un bene in forza della quale a un individuo può esserne impedito l’uso) e della rivalità (proprietà di un bene in forza della quale l’uso da parte di un individuo ne limita le possibilità di godimento da parte di un altro). Sulla base di tali caratteristiche oggettive, la teoria economica distingue quattro tipologie di beni: i beni privati, rivali ed escludibili (ad esempio, gli abiti, i gelati, ecc); i beni di club, non rivali ma escludibili (ad esempio, le strade a pagamento, la televisione a pagamento, ecc); le risorse collettive anche dette commons, rivali ma non escludibili (ad esempio, le riserve ittiche, l’ambiente, ecc.); i beni pubblici, non rivali e non escludibili (ad esempio, la difesa nazionale, l’illuminazione stradale, ecc).
Sarebbe però sbagliato acriticamente sovrapporre la categoria dei commons (o risorse naturali) a quella di bene comune in senso giuridico, poiché quest’ultima è certamente più vasta e articolata e può comprendere beni che appartengano anche ad altre delle categorie richiamate dagli economisti.
Tuttavia, lo studio dei beni che hanno la caratteristica della non escludibilità (che ricorre tanto nei beni pubblici che nei commons) appare utile all’individuazione di alcune criticità che la teoria economica ha ben individuato.
Tale caratteristica può creare esternalità positive che possono condurre a problemi di opportunismo (c.d. freerider) per causa di soggetti che ne traggono beneficio senza sopportarne gli oneri. A tale criticità, quando si aggiunge la caratteristica della rivalità nel consumo (nel caso dei commons), si associa anche quella del possibile sovracon­sumo da parte della collettività, tale da mettere a rischio nel lungo periodo la stessa esistenza del bene (la c.d. tragedia dei commons evocata da Hardin).
A tali problematicità la letteratura economica tradizionale ha dato soluzione attraverso l’assoggettamento di tali beni alla mano pubblica ovvero attraverso la privatizzazione degli stessi beni. Ciò ha come conseguenza il ricadere nella consueta polarizzazione pubblico – privato che comporta l’esclusione di terze forme proprietarie.
Tuttavia, la stessa teoria economica mostra come possono verificarsi fallimenti dell’intervento pubblico, sia sotto la forma della gestione diretta che della regolazione. Anche l’intervento privato può fallire, qualora si verifichi la c.d. seconda tragedia dei commons, consistente nella loro trasformazione in commodities, ovvero in beni oggetto di scambio, qualora venga meno la caratteristica della non escludibilità. Detto in altri termini, da una tragedia si passerebbe ad una diversa tragedia ovvero quella che si fonda sull’esclusione dei gruppi di riferimento dei beni comuni dal loro uso. Inoltre, la privatizzazione dei beni comuni trova anche un altro ostacolo nella considerazione che spesso tali beni hanno elevati valori di non uso, dal momento che possono generare utilità e benessere individuale per i membri di un determinato gruppo o collettività per la loro sola esistenza e indipendentemente dal fatto che vengano usati o consumati in modo diretto. Ancora, ulteriore cause di fallimento dell’intervento pubblico e delle privatizzazioni può essere la frammentazione dei diritti proprietari e la c.d. tragedia degli anticommons.
La conclusione del ragionamento è che tanto l’assoggettamento del bene alla mano pubblica quanto la sua privatizzazione possono, almeno nel caso di alcuni beni (e, in particolare per quelli a destinazione comune) e in determinate situazioni, non costituire una soluzione efficiente ed equa di governo degli stessi.
Può, inoltre, essere superato il presupposto teorico dell’homo economicus – egoista razionale, che fonda la necessità (al fine di evitare il comportamento da free rider e la tragedia dei commons) dell’intervento dello Stato o della privatizzazione dei beni pubblici e dei commons. Si può, infatti, pensare che nello sfruttamento di risorse comuni, gli individui adottino comportamenti (diversi da quello dell’uomo egoista – razionale) fondati su un atteggiamento cooperativo che rafforza (in modo antitetico al bipolarismo mano pubblica – privatizzazione) l’idea della comunità. Tale comportamento cooperativo può caratterizzare il rapporto tra comunità e beni comuni, coerentemente con quanto sostenuto dai sociologi sulla base della rivisitazione della teoria della “scelta razionale”, ovvero che determinate azioni umane sono fondate da motivazioni che dagli economisti politici sarebbero considerate irrazionali. L’assunto è quello che ha ispirato il lavoro di E. Ostrom, fondato su una casistica concreta, che su tale base ha teorizzato forme di auto-governo dei commons da parte delle collettività di riferimento, ricorrendo determinati presupposti e condizioni.
Dunque, per ciò che maggiormente interessa il presente studio, i membri di una comunità possono essere indotti a cooperare nella gestione dei beni comuni e, anzi, sarebbe proprio la natura comune di tali beni a rafforzare la cooperazione. Ciò può consentire esperienze di auto-governo degli stessi beni da parte delle comunità (fondate sulla cooperazione), senza che si verifichino le varie tragedie a cui si è fatto riferimento (che sono conseguenza dei comportamenti fondati sull’egoismo – razionale).

3. Ritorno alle categorie giuridiche: commons e beni comuni.
Sulla base di tali approdi, si è potuto fare ritorno alle categorie giuridiche visto che la definizione di beni comuni che emerge dal dibattito giuridico in corso non coincide con la categoria dei commons a cui fanno riferimento gli economisti, pure se a questa si aggiungano i beni pubblici (sempre intesi nel senso degli economisti). La caratteristica naturale della non escludibilità[10] (che caratterizza i commons e i beni pubblici per gli economisti) appare troppo stringente poiché si riferisce a caratteristiche intrinseche del bene (ad esempio, l’atmosfera o la pubblica illuminazione non sarebbero escludibili per loro caratteristiche oggettive). Tale rigido presupposto conduce a una nozione di beni pubblici e di commons che non considera i beni per i quali la non escludibilità (intesa come caratteristica che, in ogni caso, il bene viene a possedere) derivi da una scelta politica o sociale. Ciò contraddice l’esperienza empirica, nella quale sempre più spesso un bene (che di per se potrebbe essere escluso) viene destinato ad un uso generale per una scelta dell’Autorità pubblica.
In tali casi, più che di escludibilità / non escludibilità di un bene viene a trattarsi di effettiva esclusione / non esclusione[11]. Potrebbero, ad esempio, esservi beni teoricamente escludibili ma effettivamente non esclusi dal consumo generalizzato per scelta politico-legislativa e, dunque, non commercializzabili (ad esempio, un parco aperto all’uso generale, teoricamente recintabile ma per decisione politica aperto a tutti).
La nuova diversa prospettiva introdotta consente di rielaborare la tradizionale classificazione dei beni degli economisti (beni privati, beni di club, beni pubblici e commons), attraverso la sovrapposizione delle due diverse caratteristiche della escludibilità / non escludibilità e dell’effettiva esclusione / non esclusione (Franzini).
Si individuano così tre categorie di beni[12] che comprendono: a) beni privati e i beni di club per i quali la caratteristica dell’escludibilità è associata alla effettiva esclusione. Tali beni sono, dunque, assoggettati alle logiche del mercato e l’accesso agli stessi può essere subordinato al pagamento di un prezzo; b) beni pubblici e commons (non escludibili per loro caratteristiche intrinseche) devono essere destinati necessariamente al consumo generalizzato (si pensi, ancora alla pubblica illuminazione o all’aria che si respira o a riserve naturali non recintabili, ecc.), ponendosi necessariamente fuori dal mercato; c) beni privati e beni di club che hanno caratteristiche oggettive che ne consentirebbero l’esclusione (ovvero l’assoggettamento alla logica del mercato), ma che il Legislatore o l’Autorità amministrativa decidono di destinare all’uso generale, così sottraendoli al mercato e rendendoli liberamente accessibili.
Si sono individuate, dunque, due categorie di beni non esclusi corrispondenti a tutti i beni pubblici e i commons (non escludibili e, dunque, non esclusi), da un lato, e da quota parte dei beni privati e beni di club (escludibili ma non esclusi per scelta), dall’altro.
Alcune considerazioni possono essere fatte.

3.1 Ancora sulla distinzione tra beni pubblici aperti all’uso generale e beni comuni.
Tornando alle categorie giuridiche, il riferimento ai beni concretamente non esclusi consente di creare un’ampia categoria di beni all’interno della quale potrebbero trovarsi i beni comuni oltre a parte dei beni pubblici (ovvero quelli aperti all’uso generale, ma si ricordi che la destinazione pubblica può dipendere anche dall’essere il bene strumentale all’esercizio di funzioni o servizi pubblici).
Il problema diviene così quello di verificare quale sia la distinzione tra i beni pubblici non esclusi (a destinazione pubblica) e i beni comuni (a destinazione comune), dal momento che entrambe le due categorie appaiono caratterizzate dalla non esclusione dall’uso generale. Detto in altre parole, occorre capire se vi sia lo spazio per individuare un’ulteriore tipologia di destinazione, quella comune, che giustifichi un peculiare regime giuridico comune (da attribuire ai beni comuni).
Ebbene, la peculiarità dei beni comuni è che essi appaiono relazionati ad una comunità di riferimento. L’utilità che l’uso (compreso il c.d. non uso) di tali beni arreca ai membri della comunità, come affermato dalla dottrina (Rodotà), ha particolare valenza poiché è fondamentale per la vita, afferisce a diritti fondamentali della persona (la stessa esistenza, la salute, la conoscenza, la qualità della vita, ecc.) nonché al suo libero sviluppo, investe ragioni identitarie o evoca radici culturali comuni (come può avvenire, ad esempio, per taluni beni culturali o del paesaggio). Per tali ragioni, intorno ad essi il gruppo – comunità trova coesione e si rafforza il legame sociale degli individui. Ciò, inoltre, può portare i membri della comunità a superare l’egoismo razionale e a cooperare tra loro (così, evitando le tragedie di cui si detto).
Diversamente, nel caso dei beni pubblici ad uso generale, il libero accesso al bene (derivante dalla caratteristica oggettiva della non escludibilità ovvero da scelte pubbliche) può avere altre giustificazioni di pubblico interesse ma il bene non afferisce al alcuna comunità e non è riconosciuto come comune.
I beni comuni, dunque, sono legati a comunità di individui che possono corrispondere ad un gruppo ristretto che non necessariamente deve avere un connotato territoriale (ad esempio, gli abitanti di una città) ovvero ad una categoria trasversale di cittadini (ad esempio, una categoria professionale, una comunità scientifica, ecc.). In taluni casi, peraltro, la comunità può anche essere costituita dalla totalità della popolazione, verificandosi il caso dei c.d. global commons.
La relazione bene – gruppo opera anche in senso contrario, dal momento che anche la comunità di riferimento si costituisce o si rafforza in funzione del bene comune. Detto in altri termini, esiste una relazione a doppio senso tra bene e comunità: da un lato il bene è qualificato comune in relazione alla sua destinazione a realizzare l’interesse della comunità (ovvero, di ciascuno dei suoi membri); dall’altro lato, la stessa comunità si identifica o si rafforza per il suo rapporto con il bene. Ciascuno dei due elementi del rapporto (bene comune e comunità) è elemento costitutivo per l’altro.

La caratteristica decisiva dei beni comuni appare, dunque, la relazione particolare e qualificata tra la comunità e il bene, che deve emergere con evidenza. Solo in tale caso, la destinazione comune del bene (che si viene a differenziare da quella pubblica) giustifica il suo assoggettamento ad un regime giuridico particolare (proprietà comune) e la sua distinzione rispetto ai beni pubblici (intesi sempre in riferimento alla loro destinazione pubblica e non riferiti alla titolarità del bene) ad uso generale.
Ciò consente di allargare astrattamente la casistica delle tipologie di beni che possono rientrare in tale definizione ma tra le varie tipologie astratte di beni non esclusi dal libero accesso, potranno essere considerati beni comuni solo quelli per i quali concretamente vi sia la relazione bene – comunità che si è individuata come elemento qualificante della definizione in questione.
Dunque, non tutti i beni ambientali sono comuni (non tutti i boschi, i pascoli, i fiumi); non tutti i beni culturali o del paesaggio; non tutti i centri urbani o i parchi cittadini. Tra tali beni sono beni comuni solo quelli nei confronti dei quali esiste la relazione qualificata comunità – bene di cui si è appena detto. I beni comuni non sono comuni per tutti gli individui indistintamente, ma solo per i membri della comunità di riferimento del bene.
Siamo, dunque, di fronte ad un allargamento concettuale della categoria dei beni comuni (che può comprendere ogni tipologia di bene non escluso dalla pubblica fruizione, dal momento che di tale categoria possono fare parte oltre a beni pubblici e commons anche beni privati e beni di club concretamente non esclusi) ma alla necessità di identificare il bene comune in relazione all’effettiva esistenza di una comunità di riferimento, per la quale lo stesso bene possa definirsi comune. In assenza di tale gruppo di riferimento, il bene qualora destinato all’uso generale (attraverso la non esclusione) torna ad essere un bene pubblico. In tutti tali casi, è bene ribadirlo, la definizione di bene comune prescinde completamente dalla dimensione della titolarità soggettiva della pro­prietà (che potrebbe essere tanto della pubblica amministrazione come di privati).
Occorrono però alcune altre precisazioni.

4. Conclusioni: il confronto tra categorie giuridiche ed economiche.
Il percorso svolto ha consentito anche di confrontare la classificazione economica (beni pubblici, commons, beni di club e beni privati) e quella giuridica (ovvero beni pubblici, beni comuni e beni privati). La prima, come si è visto, è fondata sul criterio oggettivo delle caratteristiche naturali dei beni (escludibilità e rivalità) mentre la seconda sul criterio oggettivo della destinazione del bene (ovvero pubblica, comune, privata)[13]. Entrambe tali classificazioni prescindono dall’appartenenza del bene (criterio soggettivo).
Il ragionamento parte ancora dalla distinzione tra beni esclusi e non esclusi dal libero accesso (pubblica fruizione).
I beni esclusi (che fanno parte delle categorie dei beni privati e i beni di club, individuati dalla classificazione economica tradizionale come escludibili) corrispondo, per una loro parte, al regime proprietario privato (secondo la definizione che si è data, fondata sulla destinazione dei beni all’uso privato) e, dunque, ai beni privati. In questa categoria di beni entrano anche i beni che il codice civile assegna al patrimonio disponibile dello Stato (che, come si è visto, sono beni caratterizzati da un regime giuridico privatistico e, dunque, di proprietà privata della pubblica amministrazione).
Vi sono tuttavia altri beni esclusi (dunque, ancora appartenenti alla categorie dei beni privati e dei beni di club secondo la tradizionale teoria economica) che, seppure esclusi dal libero accesso sono comunque destinati al soddisfacimento dell’interesse pubblico. Ad esempio, si pensi alle caserme, agli uffici pubblici, in generale (grosso modo) ai beni che la vigente disciplina del codice civile assegna al patrimonio indisponibile dello Stato. Tali beni non sono liberamente accessibili ma soddisfano interessi pubblici quali la difesa, lo svolgimento della funzione amministrativa, ecc.

Si passi, poi, ai beni non esclusi. In primo luogo, vi sono quelli non escludibili per loro caratteristiche naturali (ovvero i beni pubblici e i commons) che, secondo la vigente classificazione del codice civile (grosso modo) appaiono corrispondere ai beni demaniali. Vi sono però anche i beni non esclusi ma teoricamente escludibili (ovvero, ancora, una terza parte dei beni privati e i beni di club) ma concretamente, per scelta politico amministrativa, non esclusi (ad esempio, taluni beni culturali, ecc.).
Tali beni esclusi possono essere distinti in due sottoinsiemi.
Il primo è quello dei beni comuni, che si ha quando i beni non sono esclusi (dunque a libera fruizione) e correlati ad una comunità di riferimento (nel senso che si è chiarito), con loro destinazione a soddisfare l’interesse comune dello stesso gruppo in questione.
Il secondo è quello dei beni pubblici, che si ha quando i beni non esclusi e a libera fruizione non siano correlati ad una comunità di riferimento e per tale motivo, non potendo essere considerati beni comuni, rimangono esclusivamente preordinati a realizzare un interesse pubblico.
Dunque, appaiono individuate le corrispondenze tra le categorie giuridiche fondate sulla destinazione (privata, pubblica o comune) dei beni e le categorie oggetto della classificazione degli economisti.
I beni privati (in senso giuridico, ovvero assoggettati ad un regime prevalentemente privatistico) sono beni esclusi dalla pubblica fruizione e assoggettati al mercato. Essi corrispondono ad una prima quota dei beni privati e dei beni di club della teoria economica tradizionale. In tale categoria rientrano i beni del patrimonio disponibile.
I beni pubblici (in senso giuridico, ovvero assoggettati ad un regime prevalentemente pubblicistico) si compongono di due categorie.
La prima è quella dei beni concretamente esclusi (dunque per gli economisti facenti parte dei gruppi dei beni escludibili, ovvero dei beni privati e dei beni di club) ma, per ragioni di interesse pubblico, incommerciabili. Essi (grosso modo, come si è detto) corrispondono al patrimonio indisponibile (caserme, uffici pubblici, ecc). La loro sottrazione al mercato (incommerciabilità) non è conseguenza della libera fruizione ma del fatto che sono destinati a realizzare diversi e ulteriori interessi pubblici (ad esempio, per le caserme, quello della difesa).
La seconda è quella dei beni pubblici non esclusi (che per gli economisti corrisponderebbero ai beni pubblici e ai commons, non escludibili e ad una terza quota di beni privati e beni di club, escludibili ma concretamente non esclusi) e per tale motivo sottratti al mercato. Tali beni rimangono destinati a soddisfare generali interessi pubblici e sono assoggettati ad un regime pubblicistico.
L’ultima categoria, per la quale si è individuato il giusto spazio tra le prime due è quella dei beni comuni. Si tratta di beni appartenenti ai medesimi due sottoinsiemi dei beni non esclusi appena individuati (ovvero beni pubblici e commons non escludibili, da un lato, e beni di privati e beni di club, dall’altro lato) ma per i quali si aggiunge la circostanza (decisiva al fine della loro distinzione dai beni pubblici non esclusi) del sussistere la relazione qualificata comunità – bene, nel senso che si è chiarito. .
Dunque, il criterio giuridico oggettivo di distinzione dei beni sulla base della loro destinazione alla realizzazione di interessi (privati, pubblici, comuni), al quale devono corrispondere particolari regimi giuridici, appare trovare le adeguate corrispondenze nelle categorie economiche tradizionali. Rispetto a tali corrispondenze, si può notare che la categoria degli economisti dei commons non coincide con quella di bene comune in senso giuridico, che è più vasta della prima e la comprende.

Note

1.  La discussione non può prescindere dalle tesi degli autorevoli Autori che hanno classificato i beni secondo un criterio oggettivo (A.M. Sandulli, voce Beni pubblici, in Enciclopedia del diritto, V, 1959, Milano, pp. 277 ss.), soggettivo (S. Cassese, I beni pubblici, circolazione e tutela, Milano, 1969) o misto (Giannini M.S., I beni pubblici, Dispense per l’anno accademico 1962/1963, Roma, 1963; V. Cerulli Irelli, La proprietà pubblica e i diritti collettivi, Padova, 1983, pp. 26 ss.).

2.  A. Di Porto, Res in usu publico e beni comuni – Il nodo della tutela, Torino, 2013; Rodotà S., Il diritto di avere diritti, Roma – Bari, 2012.

3.  Si confronti, E. Reviglio, Per una riforma del regime giuridico dei beni pubblici. Le proposte della Commissione Rodotà, in Pol. dir., 2008, 531 ss.; U. MATTEI – E. REVIGLIO – S. RODOTÀ (a cura di), Invertire la rotta, Bologna, 2007; U. Mattei – E. Reviglio – S. Rodotà (a cura di), I beni pubblici. Dal governo democratico dell’economia alla riforma del codice civile, Roma, 2010.

4.  Ad esempio, U. Mattei, Beni Comuni un manifesto, Roma-Bari, 2011.

5.  Si confrontino, M.R. Marella (a cura di) Oltre il pubblico e il privato, Verona, 2012; S. Rodotà, Il terribile diritto – studi sulla proprietà privata e i beni comuni, III ed., Bologna, 2013, pp. 459 ss.; in Bombardelli M. (a cura di), Prendersi cura dei beni comuni per uscire dalla crisi, Napoli, 2016.

6.  Cass, sez. un., 14.2.2011, n. 3665; Cass, sez. un., 16.2.2011, n. 3811; Cass, sez. un., 16.2.2011, n. 3812; Cass, sez. un., 18.2.2011, n. 3936; Cass, sez. un. 18.2.2011, n. 3937; Cass, sez. un. 18.2.2011, n. 3938; Cass, sez. un. 18.2.2011, n. 3939. Si confrontino: A. Lalli, I beni pubblici. Imperativi di mercato e diritti della collettività, Napoli, 2015, pp. 268 ss.; A. Di Porto, Res in usu publico e beni comuni – Il nodo della tutela, Torino, 2013, pp. 45 ss.; E. Caliceti, Il regime dei beni comuni: profili dominicali e modelli di gestione, in M. Bombardelli (a cura di), Prendersi cura dei beni comuni per uscire dalla crisi, Napoli, 2016, pp. 63 ss.; S. LIETO, “Beni comuni”, diritti fondamentali e Stato sociale. La Corte di Cassazione oltre la prospettiva della proprietà codicistica, in Pol. dir., 2/2011; E. PELLECCHIA, Valori costituzionali e nuova tassonomia dei beni: dal bene pubblico al bene comune, in Foro it., 2012, I, cc. 573 ss; C.M. CASCIONE, Le Sezioni Unite oltre il codice civile. Per un ripensamento della categoria dei beni pubblici, in Giur. it., 2011, 12 ss; F. CORTESE, Dalle valli da pesca ai beni comuni: la Cassazione rilegge lo statuto dei beni pubblici?, in Giorn. dir. amm., 2011, 1170 ss; P. Chirulli, I beni comuni, tra diritti fondamentali, usi collettivi e doveri di solidarietà, in Giustamm.it, 2012; V. Cerulli Irelli – L. De Lucia, Beni Comuni e diritti collettivi, in Pol. dir., 2014, p.10.

7.  Si confronti, G. Arena – C. Iaione (a cura di), L’Italia dei beni comuni, Bari, 2012; G. Arena, Introduzione al Rapporto Labsus 2015 – sull’amministrazione condivisa dei beni comuni, 2015, sul sito labsus.org.

8.     F. Marinelli, Gli usi civici, Milano, 2013.

9.  V.  Cerulli Irelli- L. De Lucia, Beni comuni e diritti collettivi, in Pol. dir., 2014, 1.

10.  La non escludibilità è definita come la proprietà intrinseca di un bene in forza della quale a un individuo non può esserne impedito l’uso o perché sia tecnicamente impossibile (da un punto di vista tecnico, giuridico) ovvero perché i costi di tale esclusione siano troppo elevati.

11.  M. Franzini, Il significato dei beni comuni, in Labsus Papers (211), Paper n. 21. Si confronti anche M. Franzini, I beni comuni: questioni di efficienza e di equità, in G. Arena- C. Iaione, L’Italia dei beni comuni, Bari, 2012, pp. 59 ss. Sia consentito anche rinviare a G. Fidone, Proprietà pubblica e beni comuni, Pisa, 2017.

12.  La quarta categoria che si individua costituisce un’ipotesi impossibile, poiché i beni non escludibili non possono essere esclusi.

13.  Sia consentito ancora rinviare a G. Fidone, Proprietà pubblica e beni comuni, Pisa, 2017.