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Appunti sul sistema tributario

di - 21 Marzo 2013
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Rispetto ad una congerie di contributi, imposte e tasse che colpivano lavoro ed utili, adesso l’imposta colpisce lavoro, ma al netto dei contributi, utili ed interessi passivi. Già questa considerazione dovrebbe far riflettere sull’affermazione che l’Irap colpisca solo (o prevalentemente) il fattore lavoro. L’affermazione che l’Irap discrimini il lavoro a favore del capitale è data per assodata. Si tratta qui di capire bene le ipotesi di partenza del ragionamento: stiamo confrontando due metodi alternativi di produzione, uno che usa più capitale e meno lavoro, ed un altro con più lavoro e meno capitale? Oppure stiamo supponendo che, a partire da una tecnologia data, l’impresa, di fronte ad un aumento di domanda ed avendo della capacità inutilizzata, voglia incrementare le ore di lavoro?
Nel primo caso è del tutto evidente che l’impresa che usa più capitale avrà più ammortamenti, più interessi passivi e, forse, più utili (ante imposte). L’impresa che usa più lavoro avrà più remunerazioni, più contributi, meno interessi passivi. A priori non è affatto detto che l’Irap discrimini contro l’impresa ad alta intensità di lavoro; si possono costruire esempi ragionevoli in cui se vi è eguaglianza di roe prima dell’Irap vi sarà eguaglianza di roe dopo l’Irap. Ovviamente i risultati dipendono dal livello del costo del finanziamento a debito, dalle regole di ammortamento, e così via.
Nella seconda ipotesi sembra che la tesi, secondo la quale l’Irap disincentiva l’impresa a rispondere ad un aumento di domanda, si poggi sul seguente ragionamento: consideriamo un’aliquota unica[32] di contributi sanitari, ed esaminiamo l’effetto sul costo del lavoro col passaggio all’Irap; se non si tiene conto della indeducibilità dell’Irap dalle imposte sul reddito (sia imprese individuali che società) si ha una riduzione, ma se se ne tiene conto si ha un aumento del costo del lavoro, quindi una riduzione dell’occupazione e della produzione. Ora, se si ragiona a parità di gettito[33], questa tesi sarebbe corretta, ma solo nell’ipotesi in cui sia in vigore un regime di concorrenza perfetta, in cui il prezzo rimane fisso; in questo caso la produttività del fattore lavoro diminuisce e quindi il suo costo aumenta. Se invece si ipotizza un regime di concorrenza imperfetta o monopolistica, allora la tesi non è più valida, perché in questo caso il costo marginale può benissimo rimanere costante, perché è il ricavo marginale (e con lui il prezzo), a scendere[34].
In sostanza, l’Irap tassa sia il lavoro che il capitale, e quest’ultimo sia proprio che a debito. Da questo punto di vista ha costituito un disincentivo all’indebitamento delle imprese (mentre la Dit, introdotta nello stesso tempo, e ora l’Ace, costituiscono un incentivo alla crescita del capitale proprio). Dunque l’Irap è una imposta neutrale, rispetto al complesso dei prelievi sostituiti, per cui l’affermazione secondo la quale l’imposta distorce l’allocazione del capitale appare priva di fondamento. Si sostiene però che l’Irap alzi in modo rilevante il costo di produzione, togliendo competitività alle imprese italiane. In questa affermazione vi è un aspetto ovvio; un’imposta può sempre essere vista o come un aumento dei costi o come una riduzione dei profitti. Ma l’eccesso di pressione dipende però da quanto l’imposta è distorsiva, o almeno questo è ciò che ci dicono i libri di testo. L’altra affermazione coglie tuttavia un punto importante, che è probabilmente quello che interessa alle imprese. L’aspetto rilevante è che se l’Irap fosse sostituita da un aumento dell’Iva si effettuerebbe una svalutazione competitiva, l’unica possibile con l’euro; su questo aspetto si tornerà più avanti.

L’Imu

Pressoché in tutti i paesi sviluppati l’imposizione degli immobili costituisce la principale entrata degli enti locali. Le ragioni sono facilmente intuibili, e la teoria del federalismo fiscale le ha sviluppate in dettaglio, analizzando i vantaggi allocati del decentramento delle scelte collettive. Lo slogan “vedo, pago voto” riassume in sostanza l’idea per cui il valore di un immobile dipende anche dai servizi ed in generale dall’attività del Comune. Vi è dunque un aspetto di controprestazione nell’imposta, oltre che di capacità contributiva. Se poi il proprietario giudica eccessiva l’imposta che il Comune gli chiede di versare, potrà, al momento del voto, esprimere la sua preferenza per un sindaco che prometta minor imposta o migliori servizi.
Quando fu introdotta l’Ici (giusto venti anni fa, ai tempi della maxi-manovra del governo Amato per salvare la lira, e l’Italia), comparvero dei manifesti di un certo Comitato Anti Ici (CAI) il cui argomento fondamentale era: il proprietario che vive nel suo appartamento non riceve nessun reddito, inteso come quantità di denaro, e quindi non c’è capacità contributiva. L’argomento continua ad echeggiare ancora oggi. Un decennio prima Franco Reviglio, preparando un Libro Bianco sulla tassazione degli immobili, si era preoccupato di inserire nella premessa una citazione di Einaudi, in cui lo studioso di scienza delle finanze argomentava, giustamente, come il flusso di servizi resi dalla casa in cui si vive rappresentano un reddito ed un consumo; forse il CAI avrebbe potuto meditare sul brano per capire come l’argomento proposto fosse completamente infondato.
Se è vero che in tutti i paesi l’imposizione sugli immobili costituisce la principale fonte di finanziamento degli enti locali, non in tutti la base imponibile è costituita dai valori di mercato; ciò accade in Francia o negli USA, ma non nel Regno Unito. In Italia il problema dell’Imu è che i valori sono calcolati partendo dalle rendite catastali; ciò crea delle differenze di imposta molto forti tra case che hanno lo stesso valore di mercato. Se nella media nazionale troviamo che il rapporto tra valori basati sulle rendite e valori di mercato è, grosso modo, di uno a due, la variabilità è estremamente alta, e va da località dove il valore di mercato è addirittura più basso di quello stimato con le rendite, a località dove invece il primo (valore catastale) è neppure un quarto del secondo. È inutile spiegare l’iniquità di questa situazione, che è stata richiamata da un documento della Commissione di Bruxelles.

Note

32.  In realtà questa semplificazione non risponde al vero: i contributi sanitari erano strutturati in modo da essere regressivi sulle remunerazioni, ma per semplicità prescindiamo da ciò.

33.  Ricordando che in realtà non c’è stata parità di gettito.

34.  Una dimostrazione di questa affermazione si trova in un lavoro citato in un articolo sul sito Nens: Irap, troppe polemiche poco documentate (30-10-2009).

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