Appunti sul sistema tributario

1 Introduzione
Con l’introduzione dell’Irap, che assorbe i contributi sanitari (e la tassa sulla salute), l’Ilor, e altri prelievi di minor entità[1], e con l’attribuzione a Regioni e Comuni delle addizionali sull’Irpef, la struttura del sistema fiscale prende, a partire dal 1998, una forma che manterrà fino ad oggi. Le entrate sul Pil nel 1998 si attestavano al 46,5%, e a questo livello le ritroviamo nel 2011 (46,6%), dopo aver avuto un minimo nel 2005 (45,5) e toccato un massimo nel 2009 (47,1)[2]. Nella seguente tabella si può notare come la composizione delle entrate non si sia modificata sostanzialmente:
Composizione percentuale delle entrate della pubblica amministrazione

1998 2011
Imposte dirette 33 30,7
Imposte indirette 33 30,2
Contributi sociali 27.7 29,4
Altre entrate di cui redditi da capitale 6,31,1 9,71,3

Per quanto riguarda la ripartizione tra Stato centrale ed Autonomie locali si può notare come il peso delle imposte locali sull’insieme delle imposte sia passato da 11,5% (1998) a 22% (2011); tuttavia il peso di questo prelievo delle Autonomie locali, sull’insieme del finanziamento degli Enti, resta nettamente al di sotto della metà (imposte dirette 9,8% ed imposte indirette 33,6% nel 1998 contro 13,7% – dirette – e 28,5% – indirette – nel 2011).
Per quanto riguarda le imposte erariali, mentre la ripartizione tra le imposte dirette e le indirette è rimasta sostanzialmente invariata (le imposte dirette erano al 53,6% nel 1998 e al 53,3 nel 2011), si può notare un peso maggiore dell’Irpef nell’ambito delle imposte dirette, con un aumento dal 69% al 74,1%.
Peraltro è opportuno un’avvertenza su questi dati: infatti l’Ici (ora Imu) e l’Irap sono classificate nelle statistiche comunitarie come imposte indirette. Non è questa la sede per una discussione sul tema, ma va ricordato che dal punto di vista economico si ritiene che mentre le imposte indirette si scaricano in avanti (classico esempio l’Iva, che è costruita proprio per trasferirsi sui consumatori), questo non succede (o succede solo parzialmente) per quanto riguarda le imposte dirette. In effetti è molto difficile condurre delle analisi statistiche circa l’effetto delle due imposte; nel caso dell’Irap si può dire che l’imposta sostituiva per oltre il 60% dei contributi, che costituivano un elemento di costo, e per il rimanente un prelievo sul reddito (o comunque un prelievo fisso). Quindi l’ipotesi più logica è che le imprese abbiano continuato a trasferire sui prezzi buona parte dell’imposta[3]. Tuttavia non molto tempo dopo l’introduzione dell’Irap le imprese hanno preso a considerarla sempre più come un’imposta sui loro utili, e quindi come un’imposta diretta[4], chiedendone l’eliminazione.

2. L’evoluzione di alcuni principali prelievi
L’Irpef

L’imposta sul reddito delle persone fisiche[5] costituisce il principale prelievo del nostro sistema tributario; nel 2012 il gettito ha raggiunto i 160 miliardi. L’irpef contava inizialmente 32 scaglioni, con aliquote che andavano dal 10% al 72%. Nel tempo gli scaglioni sono andati via via riducendosi, con un calo pronunciato dell’aliquota più alta ed un aumento di quella più bassa. Nella legge delega del 2003 Tremonti disegna un ambizioso progetto di riduzione a due soli scaglioni[6] (con aliquote al 23% per il primo scaglione fino a 100.000 euro, e al 33% successivamente). Le detrazioni d’imposta per tipologia di reddito, per carichi familiari e per spese fiscalmente riconosciute vengono trasformate in deduzioni dal reddito imponibile, e rese decrescenti rispetto al reddito, estinguendosi a livello di un reddito medio[7]. Tuttavia i c. d. due moduli (finanziarie 2003 e 2005) realizzano solo in piccola parte il progetto originario, determinando degli effetti anomali, dovuti alla compresenza di deduzioni decrescenti per tipologie di reddito e carichi familiari[8].
Per comprendere il problema si consideri che in un sistema a scaglioni, la caratteristica della deduzione fissa è quella di fornire un risparmio d’imposta al contribuente in funzione della sua aliquota marginale; pertanto, una deduzione fissa di 1.000 euro darà un risparmio di 230 euro se l’aliquota del primo scaglione è del 23%, di 330 se la seconda aliquota è 33%, e così via[9]. Che cosa succede invece nel caso in cui le deduzioni sono decrescenti rispetto al reddito, come quelle stabilite dai due moduli? Il risparmio d’imposta avrà un andamento decrescente finché si rimane nel primo scaglione, poi subirà un aumento nel passaggio al secondo scaglione, poi di nuovo andamento decrescente e ancora un salto verso l’alto col passaggio successivo. Il profilo del risparmio viene quindi a somigliare a quello di un paesaggio montagnoso[10], con una ovvia violazione dell’equità verticale.
I due moduli ispirati[11] alla delega del 2003 hanno comportato un minor prelievo valutato nell’ordine degli undici miliardi, restituendo in buona parte il fiscal drag che si era verificato negli anni precedenti. Il fatto di aver introdotto un sistema di deduzioni decrescenti determina una situazione in cui, se guardiamo all’imposta netta, le aliquote marginali effettive sono diverse, e più alte, di quelle formali relative ai vari scaglioni, perché oltre a tali aliquote bisogna aggiungere quelle implicite nella diminuzione della deduzione quando il reddito del contribuente aumenta. Inoltre la struttura delle aliquote effettive si diversifica a seconda delle diverse tipologie di reddito, a seconda dei familiari a carico, creando una struttura Irpef differenziata per le varie figure di contribuenti: dipendente single, autonomo con moglie e figlio a carico, e così via.

Nel 2006 il governo Prodi decide di dare attuazione alla promessa di riduzione di cinque punti del cuneo fiscale sul lavoro, di cui tre punti a favore delle imprese e due a favore dei lavoratori. Per quanto riguarda le imprese, lo strumento viene identificato in una diminuzione della componente Irap legata al lavoro (su cui si veda più avanti), mentre, per quanto riguarda i due punti ai lavoratori, per ragioni di bilancio[12], si conviene con i sindacati che si considererà il cuneo fiscale del lavoratore medio, cioè quello con una retribuzione sui 23.000 euro, in modo da fare scendere tale cuneo di due punti. Si ricorre a due strumenti: i) ristrutturazione dell’Irpef che accentua la progressività[13] dell’imposta, e ii) rimodulazione degli assegni al nucleo familiare, istituto, come è noto, destinato al sostegno dei lavoratori con figli e redditi bassi e medi.
La ristrutturazione dell’Irpef effettuata con la finanziaria 2007 è volta a favorire in particolare i lavoratori dipendenti ed i pensionati con redditi bassi e medi, e le famiglie di quattro e più componenti. Tuttavia le detrazioni per tipologie di reddito e per carichi familiari rimangono decrescenti rispetto al reddito; anche se vengono eliminate alcune anomalie del sistema precedente, rimane la stessa caratteristica, e cioè il fatto che la struttura delle aliquote effettive è diversa e più alta di quella formale[14]. Ad esempio, un lavoratore dipendente con coniuge e figlio a carico, rispetto alle cinque formali (dal 23% al 43%) si trova ad averne sostanzialmente due (una del 31-32% fino a 28.000 euro, ed una al 42-43% dopo).
L’Irpef ormai è divenuta un’imposta sui redditi da lavoro (dipendente ed autonomo[15]) e da pensione. Con la possibilità concessa a proprietari di immobili di optare per una cedolare secca, sono rimasti in Irpef praticamente i possessori di partecipazioni qualificate. Per la verità il numero dei contribuenti che ha optato per la cedolare è risultato nettamente inferiore a quanto preventivato; ma si tratta dei contribuenti appartenenti al terzo scaglione (o ai due superiori), cioè quelli che hanno aliquote marginali tali da rendere conveniente l’opzione. Gli altri sono rimasti in Irpef o perché i redditi sono molto bassi o perché continuano ad evadere. In altre parole, se l’opzione mirava a far emergere gli affitti in nero, bisogna dire che è fallita (ed è costata un paio di miliardi).
L’Irpef presenta quindi molte criticità: il continuo aumento (iniziato con la finanziaria del 1998) delle detrazioni o deduzioni volte a esentare i redditi più bassi (circa un quarto dei 41 milioni di contribuenti ha imposta netta nulla) ha fatto emergere il problema dell’incapienza, cioè di coloro che non riescono ad usufruire delle agevolazioni perché hanno un reddito insufficiente. Questo problema non è sentito negli altri paesi europei che hanno un sistema generale di assistenza, per cui intervengono dal lato della spesa; ma nel nostro paese (il discorso vale anche per la Grecia) in cui solo alcune categorie usufruiscono di un sistema assistenziale, il tema è più rilevante[16].
La seconda criticità è data dalla fortissima elasticità dell’imposta, soprattutto a livelli di reddito basso e medio. Cioè quando il reddito cresce, ad esempio, del 10%, l’imposta cresce del 50%. Ciò determina il noto fenomeno del fiscal drag, nonché un effetto freno alle decisioni, soprattutto delle donne, di entrare nel mercato del lavoro o di passare da un lavoro part time ad uno full time. Se, ad esempio, la lavoratrice ha un part time con retribuzione di 8.000 euro, non subisce aggravi d’imposta, perché la detrazioni annulla l’imposta lorda (entrambe sono pari a 1.840). Se volesse passare ad un lavoro full time a 16.000, si troverebbe con un’imposta di 2.417 euro, corrispondente al 15,1% (infatti l’imposta lorda sale a 3.720, mentre la detrazione si riduce a 1.303).
Infine, l’imposta non è trasparente, e la sua “vera” struttura è celata dalla caratteristica delle detrazioni per tipologia di reddito e per carichi familiari; nel senso che esattamente gli stessi risultati, in termini di imposta da pagare, si potrebbero ottenere con detrazioni fisse ed aliquote più elevate. Vi è un fenomeno che uno studioso di Scienza delle finanze[17] avrebbe definito di illusione finanziaria: avendo un reddito collocato nel primo scaglione credo che la mia aliquota marginale sia del 23%, ma non mi rendo conto che è in realtà del 30,2%. Se poi ho coniuge o figli a carico, mi rallegra avere delle detrazioni, ma non mi rendo conto che le mie aliquote marginali salgono. Da questo punto di vista i recenti aumenti delle detrazioni per i figli, decisi dal Parlamento rivedendo la legge di stabilità[18], hanno accentuato ulteriormente il fenomeno delle aliquote implicite (o, se vogliamo, nascoste).
Esiste poi, ovviamente, il problema dell’evasione, che riguarda in particolare il lavoro autonomo. Trattandosi di un tema che non riguarda solo l’Irpef, verrà affrontato successivamente.

L’Ires

Si è già accennato che l’Irpeg è stata ribattezzata Ires[19], ma i soggetti passivi dell’imposta sono rimasti in realtà gli stessi. Tra le novità principali troviamo l’eliminazione del credito d’imposta sui dividendi, sostituito dal sistema della participation exemption. In effetti, in seguito ad una pronuncia della Corte di giustizia europea, i paesi UE avevano l’alternativa tra estendere il sistema del credito d’imposta ai dividendi provenienti da qualunque società europea[20], oppure adottare metodi magari meno raffinati, ma senza discriminazioni tra le società. Imitando la soluzione tedesca, l’Ires stabilisce una esenzione[21] al 95% dei dividendi distribuiti da una società figlia alla società madre ed estende l’esenzione (ritoccata in ribasso dal 95% all’84% e poi rialzata dal 2008 al 95%) alle plusvalenze, mentre le minusvalenze non sono più fiscalmente rilevanti. Si può notare, in queste scelte, l’esigenza di adeguarsi alla concorrenza fiscale proveniente da altri paesi europei (Lussemburgo o Olanda) che, adottando l’esenzione delle plusvalenze, attirano le società holding nei loro paesi.

Uno dei problemi più rilevanti della imposizione delle società è la tendenza strutturale dell’imposta a favorire il capitale a debito, rispetto a quello proprio. Ciò è dovuto al fatto che gli interessi passivi sono un costo deducibile. Negli interventi fiscali del 1998 fu deciso di fornire un incentivo all’aumento del capitale proprio con la Dit; l’acronimo (dual income tax) riprende lo stesso termine usato nelle riforme scandinave[22] degli anni ottanta e novanta, ma il significato è diverso. Nella versione italiana infatti il riferimento è ad una imposizione più bassa sulla parte di reddito imponibile derivante da un aumento di capitale proprio. Se una società effettua un aumento di capitale di 100, una percentuale stabilita dal Ministero (allora delle Finanze) detta roc (rendimento ordinario del capitale) verrà tassata con una aliquota ridotta rispetto a quella ordinaria[23].
Le imprese impiegarono un po’ di tempo per capire il valore dell’incentivo; in effetti il vantaggio che la Dit offre al rendimento di un investimento non può essere valutato in un solo anno, ma tenendo conto del flusso di risparmi d’imposta lungo tutta la durata dell’investimento. Ma quando l’incentivo stava incominciando a dare i suoi frutti, il nuovo governo Berlusconi (dalla primavera 2001) procedette all’eliminazione della Dit, sulla quale gravava un giudizio totalmente negativo espresso da Tremonti. Il provvedimento che introduce l’Ires riduce al 33%[24] l’aliquota, e affronta il problema del favore al finanziamento con debito proponendo un disincentivo all’indebitamento piuttosto che un incentivo al capitale proprio, insomma un bastone invece di una carota. Il bastone è costituito dalla c.d. thin capitalization, espressione con la quale viene posta in luce la tendenza delle imprese multinazionali a ridurre al minimo il capitale proprio (e quindi gli utili) nei paesi dove il livello dell’imposizione societaria è più alto. Nell’Ires la thin capitalization blocca la deducibilità degli interessi passivi rapportati a quella parte di debito[25] di quattro volte superiore al capitale proprio.
La complessità della misura di disincentivo, nonché la possibilità di riuscire comunque ad aggirarla, hanno portato gli operatori interessati e la stessa amministrazione fiscale a dare un giudizio negativo sulla thin capitalization. Con la seconda finanziaria del governo Prodi (2008) si è provveduto ad eliminare la thin capitalization, sostituendola con un altro disincentivo[26]: la deducibilità degli interessi passivi (al netto di quelli attivi) è limitata, nell’anno[27], dal 30% dell’Ebitda (o Rol), cioè dagli utili al lordo degli interessi passivi, dell’imposta e degli ammortamenti[28]. La misura di disincentivo, formulata in un contesto di normalità dell’attività economica, è entrata in vigore alla vigilia dello scoppio della crisi finanziaria, che ha portato a drastici cali degli utili delle imprese. In questo contesto il calo dell’Ebitda diviene più stringente, per cui l’impresa può trovarsi con un utile (su cui versare l’imposta) che in realtà non c’è, anticipando un’imposta che potrà (forse) recuperare successivamente.
Ma più di recente (luglio 2011) interviene una novità: Tremonti presenta una delega fiscale nella quale è previsto l’Ace (aiuto alla crescita economica). In inglese l’acronimo sta per allowance for corporate equity; infatti si tratta della detassazione di un rendimento prestabilito relativo al capitale proprio[29], che diviene deducibile, volto ad incentivare il ricorso al capitale proprio piuttosto che al debito. La misura verrà effettivamente posta in essere dal decreto salva Italia del governo Monti nel dicembre dello stesso anno. La cosa di un qualche interesse è che evidentemente Tremonti ha cambiato parere rispetto alla sua critica della Dit, visto che l’Ace non è altro che una diversa versione della Dit[30].

L’Irap

Con l’introduzione dell’Irap vengono eliminati i contributi sanitari (che costituivano quasi i due terzi del prelievo), l’Ilor (una imposta sui redditi d’impresa, circa il 20% del complesso del prelievo) nonchè l’Iciap, l’imposta patrimoniale sulle imprese, la tassa di concessione sulla partita Iva e la tassa di concessione comunale, che possono essere considerate delle imposte fisse. È da notare che tutto questo prelievo era a carico delle imprese (o comunque dei datori di lavoro). Tuttavia in tempi molto rapidi dal mondo delle imprese è nata una polemica verso un’imposta che veniva considerata come un iniquo prelievo sugli utili, per lo più non commisurato all’utile lordo, ma al valore aggiunto, cioè ad un aggregato che comprende costo del lavoro (salari e contributi) e costo del capitale (limitatamente agli interessi, essendo gli ammortamenti deducibili). A proposito sembrano opportune alcune precisazioni.
Prescindiamo dal fatto che l’Irap dette un gettito inferiore di circa sei miliardi di euro, rispetto ai prelievi eliminati, e guardiamo la base imponibile, data dal valore aggiunto netto, cioè dal fatturato al netto degli acquisti di beni e servizi (e dell’affitto dei locali). A questo valore aggiunto venivano tolti gli ammortamenti. In tempi più recenti sono state introdotte detrazioni per le imprese, poi a partire dal 2007 sono stati eliminati i contributi sociali e introdotte detrazioni per l’occupazione, con particolare riguardo al sud; dal 2008 è stata ridotta l’aliquota di base (dal 4,25% al 3,9%). Dunque fino al 2006 la base imponibile corrispondeva al costo del lavoro, al costo del debito (cioè agli interessi passivi) e agli utili d’impresa. Da notare che se l’impresa è in perdita la base imponibile si riduce: se costo del lavoro e interessi passivi fanno 100, qualora l’utile sia positivo per 33 avremo una base imponibile di 133, ma se l’utile è negativo per 33, la base imponibile è 67, cioè la metà. L’impresa in perdita paga quindi l’Irap, ma versa metà rispetto all’impresa in utile. Se poi la perdita dovesse arrivare a 100, la base imponibile sarebbe nulla[31].

Rispetto ad una congerie di contributi, imposte e tasse che colpivano lavoro ed utili, adesso l’imposta colpisce lavoro, ma al netto dei contributi, utili ed interessi passivi. Già questa considerazione dovrebbe far riflettere sull’affermazione che l’Irap colpisca solo (o prevalentemente) il fattore lavoro. L’affermazione che l’Irap discrimini il lavoro a favore del capitale è data per assodata. Si tratta qui di capire bene le ipotesi di partenza del ragionamento: stiamo confrontando due metodi alternativi di produzione, uno che usa più capitale e meno lavoro, ed un altro con più lavoro e meno capitale? Oppure stiamo supponendo che, a partire da una tecnologia data, l’impresa, di fronte ad un aumento di domanda ed avendo della capacità inutilizzata, voglia incrementare le ore di lavoro?
Nel primo caso è del tutto evidente che l’impresa che usa più capitale avrà più ammortamenti, più interessi passivi e, forse, più utili (ante imposte). L’impresa che usa più lavoro avrà più remunerazioni, più contributi, meno interessi passivi. A priori non è affatto detto che l’Irap discrimini contro l’impresa ad alta intensità di lavoro; si possono costruire esempi ragionevoli in cui se vi è eguaglianza di roe prima dell’Irap vi sarà eguaglianza di roe dopo l’Irap. Ovviamente i risultati dipendono dal livello del costo del finanziamento a debito, dalle regole di ammortamento, e così via.
Nella seconda ipotesi sembra che la tesi, secondo la quale l’Irap disincentiva l’impresa a rispondere ad un aumento di domanda, si poggi sul seguente ragionamento: consideriamo un’aliquota unica[32] di contributi sanitari, ed esaminiamo l’effetto sul costo del lavoro col passaggio all’Irap; se non si tiene conto della indeducibilità dell’Irap dalle imposte sul reddito (sia imprese individuali che società) si ha una riduzione, ma se se ne tiene conto si ha un aumento del costo del lavoro, quindi una riduzione dell’occupazione e della produzione. Ora, se si ragiona a parità di gettito[33], questa tesi sarebbe corretta, ma solo nell’ipotesi in cui sia in vigore un regime di concorrenza perfetta, in cui il prezzo rimane fisso; in questo caso la produttività del fattore lavoro diminuisce e quindi il suo costo aumenta. Se invece si ipotizza un regime di concorrenza imperfetta o monopolistica, allora la tesi non è più valida, perché in questo caso il costo marginale può benissimo rimanere costante, perché è il ricavo marginale (e con lui il prezzo), a scendere[34].
In sostanza, l’Irap tassa sia il lavoro che il capitale, e quest’ultimo sia proprio che a debito. Da questo punto di vista ha costituito un disincentivo all’indebitamento delle imprese (mentre la Dit, introdotta nello stesso tempo, e ora l’Ace, costituiscono un incentivo alla crescita del capitale proprio). Dunque l’Irap è una imposta neutrale, rispetto al complesso dei prelievi sostituiti, per cui l’affermazione secondo la quale l’imposta distorce l’allocazione del capitale appare priva di fondamento. Si sostiene però che l’Irap alzi in modo rilevante il costo di produzione, togliendo competitività alle imprese italiane. In questa affermazione vi è un aspetto ovvio; un’imposta può sempre essere vista o come un aumento dei costi o come una riduzione dei profitti. Ma l’eccesso di pressione dipende però da quanto l’imposta è distorsiva, o almeno questo è ciò che ci dicono i libri di testo. L’altra affermazione coglie tuttavia un punto importante, che è probabilmente quello che interessa alle imprese. L’aspetto rilevante è che se l’Irap fosse sostituita da un aumento dell’Iva si effettuerebbe una svalutazione competitiva, l’unica possibile con l’euro; su questo aspetto si tornerà più avanti.

L’Imu

Pressoché in tutti i paesi sviluppati l’imposizione degli immobili costituisce la principale entrata degli enti locali. Le ragioni sono facilmente intuibili, e la teoria del federalismo fiscale le ha sviluppate in dettaglio, analizzando i vantaggi allocati del decentramento delle scelte collettive. Lo slogan “vedo, pago voto” riassume in sostanza l’idea per cui il valore di un immobile dipende anche dai servizi ed in generale dall’attività del Comune. Vi è dunque un aspetto di controprestazione nell’imposta, oltre che di capacità contributiva. Se poi il proprietario giudica eccessiva l’imposta che il Comune gli chiede di versare, potrà, al momento del voto, esprimere la sua preferenza per un sindaco che prometta minor imposta o migliori servizi.
Quando fu introdotta l’Ici (giusto venti anni fa, ai tempi della maxi-manovra del governo Amato per salvare la lira, e l’Italia), comparvero dei manifesti di un certo Comitato Anti Ici (CAI) il cui argomento fondamentale era: il proprietario che vive nel suo appartamento non riceve nessun reddito, inteso come quantità di denaro, e quindi non c’è capacità contributiva. L’argomento continua ad echeggiare ancora oggi. Un decennio prima Franco Reviglio, preparando un Libro Bianco sulla tassazione degli immobili, si era preoccupato di inserire nella premessa una citazione di Einaudi, in cui lo studioso di scienza delle finanze argomentava, giustamente, come il flusso di servizi resi dalla casa in cui si vive rappresentano un reddito ed un consumo; forse il CAI avrebbe potuto meditare sul brano per capire come l’argomento proposto fosse completamente infondato.
Se è vero che in tutti i paesi l’imposizione sugli immobili costituisce la principale fonte di finanziamento degli enti locali, non in tutti la base imponibile è costituita dai valori di mercato; ciò accade in Francia o negli USA, ma non nel Regno Unito. In Italia il problema dell’Imu è che i valori sono calcolati partendo dalle rendite catastali; ciò crea delle differenze di imposta molto forti tra case che hanno lo stesso valore di mercato. Se nella media nazionale troviamo che il rapporto tra valori basati sulle rendite e valori di mercato è, grosso modo, di uno a due, la variabilità è estremamente alta, e va da località dove il valore di mercato è addirittura più basso di quello stimato con le rendite, a località dove invece il primo (valore catastale) è neppure un quarto del secondo. È inutile spiegare l’iniquità di questa situazione, che è stata richiamata da un documento della Commissione di Bruxelles.

La variabilità del rapporto tra i valori veri e quelli stimati su base catastale è connessa con il grado di anzianità dell’immobile. Più le case sono vecchie, più hanno rendite catastali basse. Solamente in alcuni centri storici cittadini i comuni hanno proceduto a un aggiornamento delle rendite di case, spesso di alto pregio, che si trovavano collocate in A3 o A4 (case popolari o ultra-popolari). Ciò determina un effetto distributivo ai danni di coloro che vivono nelle periferie delle città, dove le costruzioni sono più recenti e quindi le rendite catastali più alte. Nella legge delega preparata dal sottosegretario Vieri Ceriani, al primo posto vi era l’adeguamento delle rendite ai valori di mercato, ma il Parlamento ne ha impedito l’approvazione.
Il profilo equitativo dell’imposta può ulteriormente essere migliorato. Già oggi nel suo insieme, ed anche limitatamente alla casa d’abitazione, vi è un non trascurabile grado di progressività[35], se guardiamo ai decili delle rendite dei nuclei familiari. Infatti l’imponibile è stato aumentato del 60%, ma la detrazione è stata raddoppiata, ed anche più, considerando l’introduzione della detrazione per i figli conviventi. Adeguando gli imponibili ai valori di mercato, e riducendo l’aliquota, si può accentuare la progressività con un innalzamento delle detrazioni.
Vi è tuttavia un limite alla possibilità di accentuare la progressività dell’Imu, dovuto al carattere reale e non personale dell’imposta. Per fare un riferimento ad un’imposta reale che fu introdotta dal governo della destra storica, l’Imposta di Ricchezza Mobile (Irm) era un’imposta reale che colpiva separatamente i singoli redditi (da lavoro, da rendite, da interessi ecc…). Quando si decise (dopo la prima guerra mondiale) di introdurre la progressività nel nostro sistema, ci si rese conto che non si poteva agire sulla Irm, e fu introdotta l’Imposta complementare (1923). Analogamente, un’accentuazione della progressività richiederebbe l’introduzione di un imposta personale sul patrimonio con una elevata deduzione di base.

3. Prospettive di riforma

La pressione fiscale ha raggiunto nel nostro paese livelli particolarmente alti; e tuttavia sarà ben difficile per il futuro governo decidere significative diminuzioni. Le ragioni le ha indicate chiaramente Ignazio Visco in un recente discorso[36]: “l’Italia non deve abbassare la guardia. L’attenzione degli investitori internazionali continua, giustamente, a concentrarsi sulla nostra capacità di preservare l’equilibrio dei conti pubblici e di perseguire, con determinazione, l’innalzamento del potenziale di sviluppo. Il riemergere periodico di tensioni ci ricorda la fragilità della situazione. Il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e tedeschi resta al di sopra dei valori coerenti con le condizioni di fondo della nostra economia. La sua ulteriore riduzione potrà facilitare la raccolta delle banche e la ripresa dell’erogazione del credito all’economia a condizioni più vantaggiose.
Va perseguito con ancora maggiore decisione il ritorno a una crescita bilanciata e sostenuta della nostra economia. Il mantenimento dell’equilibrio dei conti pubblici è la precondizione, non l’ostacolo. Solo la piena attuazione di un disegno di riforma organico, certamente impegnativo, potrà garantire i necessari guadagni di competitività e con essi favorire il recupero dell’occupazione. I suoi punti fondanti sono stati da tempo individuati: dobbiamo investire in conoscenza, ottenere servizi pubblici e privati di migliore qualità, contrastare l’illegalità, promuovere la concorrenza. Il cammino è appena iniziato, va proseguito con convinzione, consapevoli delle responsabilità di ciascuno ma fiduciosi nelle possibilità di noi tutti”.

L’evasione

Se quindi la pressione fiscale deve giocoforza rimanere elevata nei prossimi anni, una decisa lotta all’evasione può però ridistribuire il carico fiscale dai contribuenti a più alta evasione a quelli che, volenti o nolenti, non evadono[37]. L’evasione è un fenomeno complesso, che comprende anche l’economia criminale; in questo caso l’occultamento al fisco è il sotto-prodotto dell’attività criminale. In altri casi, invece, i reati sono strumentali al fine di evadere il fisco (e l’Inps); si pensi alle c.d. cartiere, cioè alla fabbricazione di false compravendite volte a ridurre gli imponibili. Ma il grosso dei fenomeni evasivi si verifica con la semplice sottofatturazione dei ricavi.
Vi è una stretta connessione tra evasione dell’Iva ed evasione delle imposte dirette; si stima in un 30% (circa) l’evasione dell’Iva (soprattutto quella interna). Nella fase degli scambi tra operatori dotati di partita Iva l’evasione è molto contenuta[38], mentre è molto alta nelle vendite ai consumatori finali. Questa evasione permette una ben più alta evasione delle imposte dirette[39]. Nel 1984, il Ministro delle Finanze Bruno Visentini si rese conto che la riforma fiscale[40] del 1973, ispirata al criterio del reddito effettivo risultante dalla contabilità di impresa, aveva involontariamente favorito le possibilità di evasione, soprattutto da parte dei piccoli operatori, dove i proprietari dell’azienda sono gli stessi gestori, e quindi hanno il controllo diretto dei veri ricavi dell’impresa[41]. Pertanto Visentini stabilì che il valore aggiunto delle imprese a contabilità semplificata sarebbe stato determinato, per un triennio[42], come una quota del volume d’affari, cioè una percentuale stabilita, settore per settore, dal Ministero. Oltre a versare l’Iva, su questa base veniva stabilita anche l’Irpef; infatti, una volta ottenuto il valore aggiunto, togliendo i costi documentati, si otteneva l’utile d’impresa.
Il piccolo imprenditore si trovò di fronte ad una scelta: o passare alla contabilità ordinaria, sobbarcandosi a costi maggiori, o pagare più Iva e più Irpef. Oltre trecentomila operatori passarono alla contabilità ordinaria[43]. Gli altri però trovarono un altro modo di reagire; infatti negli anni successivi il fatturato dichiarato dagli operatori rimasti in contabilità semplificata ebbe un andamento negativo (in valori assoluti), mentre il fatturato di quelli a contabilità ordinaria crebbe a tassi tra il 7 e il 9%. Ad una mossa del fisco era seguita la contromossa dei contribuenti: visto che mi fai versare le imposte sul volume d’affari, io lo abbasso.

Compiamo un salto di un decennio, durante il quale si susseguirono una serie di interventi, compreso la famosa, o famigerata, “minimum tax”[44] della finanziaria 1993, e giungiamo agli Studi di settore[45]. Dopo un lavoro preparatorio avvenuto negli anni novanta, nel 1997 inizia l’attività degli Studi, con una ampia raccolta di dati concernenti l’attività commerciale, dai metri quadri agli addetti, ai consumi elettrici, messi in rapporto con i volumi d’affare, per determinare il livello dei ricavi. Attività svolta con la partecipazione e l’accordo delle categorie. Come scrisse, dieci anni dopo, il Ministro di allora, Vincenzo Visco[46], “le situazioni soggettive dei contribuenticambiano continuamente. Perciò era prevista una assidua “manutenzione” diciascuno studio per consentire il necessario aggiornamento. Viceversa, dopo laloro prima applicazione nel ’99, quella manutenzione è stata di fattoabbandonata, anche a causa dell’introduzione dei ripetuti condoni tributari che,di fatto, sterilizzavano l’applicazione degli Studi”.

Inoltre “l’uso che si è diffuso di questo strumento – che, come si è detto, è uno strumento di analisi e non un metodo di tassazione – ha assunto caratteristiche che ne hanno in parte alterato la funzione. Pur essendo chiaro a tutti – e chiaramente scritto nella legislazione – che ogni contribuente è tenuto a pagare le imposte in base al proprio reddito effettivo, è invalso l’uso di interpretare gli indicatori riportati negli Studi di Settore come una sorta di “minimum tax” alla quale adeguarsi con la garanzia di essere in regola, prescindendo dal livello di tassazione effettiva al quale il reddito realmente prodotto avrebbe dovuto essere sottoposto. Al diffondersi di questo uso alterato (o addirittura distorto) degli Studi, hanno probabilmente contribuito sia un comportamento talvolta poco adeguato dell’Amministrazione fiscale (ora corretto dalle direttive impartite nel 2007) sia le scelte suggerite da consulenti fiscali in maniera eccessivamente semplicistica con l’obiettivo di prevenire il rischio di fastidiosi accertamenti, considerando in molti casi conveniente adattare le dichiarazioni agli indicatori degli Studi che, nella fase iniziale della loro applicazione, erano stati formulati in maniera estremamente prudenziale. Per conseguenza, nel caso in cui i risultati degli studi risultavano convenienti, i contribuenti e i loro consulenti tendevano a ritenerli una “minimum tax”, nel caso contrario a contestarli in quanto “minimum tax”!”

Se è vero quindi che gli Studi di settore hanno permesso di smussare alcune punte più accentuate, è vero anche che hanno favorito un processo di livellamento verso il minimo livello di congruità che permette di sfuggire alla rete gettata dagli Studi. Se i miei ricavi sono pari a 100, ma il commercialista mi dice che sono congruo a 80, perché dovrei dichiarare di più? Gli Studi possono quindi essere utili, ma non sono certo risolutivi ai fini del contrasto dell’evasione.

L’art. 38 del DPR 600/1973 intitolato “Rettifica delle dichiarazioni delle persone fisiche”, permetteva due diversi sistemi di contestazione delle dichiarazioni Irpef: uno c.d. “sintetico”, basato su specifici acquisti (esempio tipico, quello di un immobile), ed un altro basato su una serie di dati, cui applicare adeguati moltiplicatori per ricavare un reddito presunto. Nel 2010 –DL 78 – questo secondo metodo è stato oggetto di un intervento legislativo volto al fine di calibrarlo meglio alla realtà dell’economia italiana. Il provvedimento, varato a gennaio 2013, identifica un centinaio di voci di spese effettive, di spese presunte (su dati Istat), di variazioni patrimoniali, dai quali ricavare un reddito induttivo. Il “redditometro” ha avuto un sicuro successo sulla stampa, ma è dubbio che possa essere lo strumento risolutivo della lotta all’evasione.
Come detto, lo strumento non è nuovo, e l’uso che in passato se ne è fatto ha coinvolto poche migliaia di contribuenti. Quanto più si tenta di calibrare uno strumento che richiede l’integrazione di banche dati molto diverse, tanto più complessa diviene l’operazione; e ciò a prescindere dalla difficoltà di definire il nucleo familiare, di cui parla la legge. In Francia il foyer fiscal è definito, mentre in Italia, essendo l’Irpef individuale, non lo è. D’altra parte è evidente che un contribuente può comprare immobili o automezzi con il reddito del coniuge, e ciò rende necessario andare oltre i dati che riguardano il singolo contribuente. Probabilmente la maggiore preoccupazione è la disposizione di versamento del 30% della maggiore imposta richiesta dall’Agenzia dell’entrate all’atto dell’accertamento. Pertanto si può ritenere che un uso parsimonioso di questo strumento possa essere utile, ma non è risolutivo; non si può peraltro escludere che possa avere un effetto di deterrenza.
Una proposta che gode di molta popolarità è quella del conflitto d’interesse. L’idea è semplice: se posso dedurre (o detrarre) una certa spesa, ho interesse a farmi consegnare la ricevuta, costringendo il venditore a dichiarare l’ammontare incassato. Ovviamente una deduzione integrale di tutti i consumi, a parte il gigantesco problema gestionale, e l’impossibilità di controlli, significherebbe che la base imponibile dell’Irpef diviene il risparmio. Tuttavia, si dice, si potrebbe pensare ad una deduzione (o detrazione) parziale, ed anche limitata a spese non quotidiane, che possono andare dal carrozziere all’idraulico.
Questa proposta sicuramente favorisce i lavoratori dipendenti (o pensionati[47]), ma in realtà l’erario non ne trae vantaggio[48]. Infatti l’artigiano ed il cliente possono avere convenienza reciproca ad abbassare il prezzo del servizio, nel qual caso per l’erario non cambia nulla; se invece la convenienza non c’è, allora vuol dire che il risparmio d’imposta per il cliente è maggiore di quanto dovrà pagare l’artigiano, e cioè l’erario dovrà finanziare la differenza. Ciò è quello che si è ad esempio verificato con la detrazione per le ristrutturazioni immobiliari; l’incentivo fiscale ha avuto sicuramente il pregio di sostenere il settore edilizio (che è ad alto valore aggiunto), ma ha anche comportato un onere per l’erario.

La via maestra per la lotta all’evasione si può sintetizzare in tre aspetti: limitazione dell’uso del contante, tracciabilità dei flussi finanziari connessi alle operazioni commerciali, controllo dei dati finanziari presso la banca (o posta). La ragione della limitazione del contante è intuitiva; non a caso uno dei metodi di calcolo dell’economia sommersa, e quindi dell’evasione, è sulla base del maggior uso del contante. La tracciabilità, e quindi l’elenco clienti-fornitori, costituisce il modo con cui il mondo delle imprese e del lavoro autonomo diviene simile a quello del lavoro dipendente; il controllo dei dati finanziari permette di verificare la presenza di anomalie rispetto ai dati contabili. Per tale controllo non sono necessarie valanghe di dati: sono sufficienti le consistenze finali di anno (e quindi iniziali dell’anno successivo), il livello medio dei depositi, il numero e l’ammontare medio delle variazioni. Ovviamente il livello di informatizzazione dell’Agenzia delle entrate deve essere adeguato a questi compiti.

La struttura del prelievo

Il recupero dell’evasione dovrebbe essere finalizzato a ridurre le imposte versate dai contribuenti “onesti” sui quali la pressione fiscale grava per oltre il 50%, anche se è probabile che una parte serva a finanziare[49] alcune voci di spesa che sono state compresse negli ultimi anni, come l’istruzione e la ricerca. Ma oltre al recupero dell’evasione, vi è il tema della ricomposizione del prelievo.
Vari documenti della Commissione Europea e del FMI suggeriscono di spostare il prelievo dal lavoro e dall’impresa verso i consumi e gli immobili. Lo spostamento verso gli immobili è facilmente spiegato dal fatto che gli effetti distorsivi dell’imposizione degli immobili sono nettamente inferiori a quelli delle imposte sui redditi da lavoro e sugli utili delle imprese; e ciò prescindendo dal fatto che la tassazione degli immobili è particolarmente adatta alla logica federalista del decentramento delle scelte collettive.
L’indicazione di un aumento dell’imposizione dei consumi richiede invece qualche considerazione. La teoria economica ha da tempo mostrato come l’imposizione del consumo sia equivalente all’imposizione del lavoro, nel senso che un’imposta proporzionale sul consumo è perfettamente equivalente ad un’imposta proporzionale sul lavoro, al punto che nei modelli teorici le imposte sul consumo vengono prese in considerazione solo nei casi di imposte su determinati consumi, mai come imposte generali. Pertanto, lo spostamento dal reddito di lavoro al consumo viene ritenuto un nulla di fatto[50]; invece quello dal profitto d’impresa al consumo viene visto come uno spostamento dal reddito di capitale a quello di lavoro.
Tuttavia quanto detto sopra non tiene conto di un aspetto cruciale di cui i modelli teorici non si occupano; e cioè che nei paesi dell’euro lo spostamento dal prelievo sul lavoro all’imposta sul valore aggiunto è il modo con cui un singolo paese può effettuare una svalutazione “fiscale”, che è l’unica forma di svalutazione possibile[51]. Infatti i contributi sociali e l’imposta sui reddito da lavoro costituiscono il cuneo fiscale tra costo del lavoro e retribuzione netta del lavoratore, mentre l’Iva non rappresenta un onere per gli esportatori, gravando solo sui consumi interni. Ovviamente la Comunità Europea, rivolgendosi a tutti i paesi, non può argomentare lo spostamento del prelievo in termini di svalutazione fiscale, ma i singoli paesi sanno che è proprio questo il principale aspetto della questione.
Il governo tedesco di coalizione (2004) ha dato l’esempio con una diminuzione degli oneri sociali ed un aumento di due punti dell’Iva; Sarkozy quando vinse le presidenziali aveva proposto lo stesso tipo di manovra, ma poi non l’ha attuata, per la preoccupazione di innescare un aumento dei prezzi. È il governo di Hollande che sembra aver deciso di procedere ad una variante della svalutazione fiscale, concedendo una deduzione dal reddito d’impresa del 4% della massa salariale; l’incentivo ammonta a 20 miliardi, finanziati per metà da un aumento di un punto di Iva, e per l’altra metà da tagli alle spese[52]. Anche per l’Italia la Confindustria ha presentato delle proposte[53] che puntano nella stessa direzione: diminuzione di undici punti del costo del lavoro (calo di oneri sociali non previdenziali e della componente Irap sul lavoro), diminuzione dell’aliquota Ires di quattro punti e mezzo[54], oltre a incentivi agli investimenti. Il finanziamento dovrebbe avvenire, oltre che dal recupero dell’evasione e da tagli di spesa, dall’aumento di due punti delle due aliquote Iva ridotte, oltre al già previsto aumento, dalla normativa vigente, di un punto dell’aliquota normale (quindi le aliquote passano da 4 a 6%, da 10 a 12%, e da 21 a 22%)[55].
Siamo evidentemente in pieno processo di competizione fiscale; in assenza di un disegno complessivo di crescita economica per l’intera Europa (alla Delors, per intenderci), o almeno dell’area euro, ogni paese cerca di stimolare le proprie esportazioni , sperando che ciò inneschi una ripresa degli investimenti. Ovviamente, nella misura in cui la svalutazione fiscale viene applicata da ogni paese dell’area euro, queste misure si elidono tra loro, pur mantenendo un effetto nei confronti della concorrenza con altre moneta, dal dollaro alla yen allo yuan, e contrastando quindi l’attuale tendenza dell’euro a rivalutarsi.
È ben difficile che in queste condizioni si possa determinare quella crescita economica che il documento Confindustria auspica; anche perché, a livello macro, una buona parte degli investimenti dipende dalla domanda interna, non sono cioè “export led”. È chiaro però che le mosse della Francia comportano la necessità di una risposta da parte nostra, e che quindi una diminuzione del cuneo fiscale diviene una prospettiva ineludibile. Una parte delle risorse potrebbe però essere indirizzata a diminuire l’alta aliquota marginale che grava sui lavoratori dipendenti con redditi tra gli 8.000 ed i 15.000. Con un paio di miliardi l’aliquota potrebbe scendere da 30,2% a 26,9%[56], con un incremento del reddito disponibile di oltre un punto percentuale. Se vi fosse disponibilità di risorse si potrebbe procedere ad una diminuzione di un punto della prima aliquota[57].

Gli interventi sull’Irpef hanno un impatto diretto sul reddito netto dei lavoratori, ma solo indirettamente sui costi e profitti delle imprese. Il mondo delle imprese richiede invece degli sgravi a suo vantaggio, ed il primo pensiero va sicuramente all’Irap. Nel caso di questa imposta vale sicuramente il detto evangelico “nemo propheta in patria”; l’imposta, che in Italia non piace alle imprese ed a molti esperti, è invece molto apprezzata a livello internazionale (FMI) ed europeo. Nell’idea originale, l’imposta doveva avere come base imponibile il prodotto interno netto, e forse sarebbe stato preferibile il prodotto interno lordo, cioè al lordo degli ammortamenti. Visto il legame di fatto tra Irap (maggior prelievo delle Regioni) e spesa sanitaria (maggiore spesa delle Regioni), in effetti un finanziamento (almeno in parte) della sanità commisurato sul Pil ha una giustificazione facilmente intuibile.
Tuttavia, una serie di interventi avvenuti dal 2007 in poi hanno reso pressoché irriconoscibile la logica dell’imposta[58]; pertanto sembra di dover scegliere tra due alternative. La prima, suggerita dal documento Confindustria, consiste nell’eliminazione della componente legata al costo del lavoro; base imponibile diverrebbero quindi gli utili d’impresa e gli interessi passivi, venendo così ad assomigliare alle imposte locali tedesche e francesi[59]. Questa soluzione sarebbe la replica del provvedimento preso dalla Francia. La seconda consiste invece in un ritorno alla base imponibile originaria, con l’aggiunta degli ammortamenti; l’allargamento della base imponibile verrebbe compensata da una diminuzione dell’aliquota di base e dalla deducibilità dell’intera imposta[60] (solo all’aliquota base) dall’Ires o Irpef. Anche questa ipotesi determina effetti simili, in quanto la deducibilità dell’intera imposta, e non della sola parte connessa al lavoro è compensata dall’introduzione degli ammortamenti nella base imponibile. È chiaro che in entrambi i casi si tratterebbe di procedere con la necessaria gradualità imposta dai conti pubblici.
Per concludere, riprendendo quanto accennato in precedenza, qualche considerazione sulla tassazione degli immobili e dei patrimoni.
Per quanto riguarda l’Imu, la modifica più importante consiste nell’adeguamento ai valori di mercato, che permette una diminuzione delle aliquote, ed un innalzamento delle detrazioni[61]. In questo modo si potrebbe eliminare del tutto la tassazione degli immobili in sede di Irpef; l’effetto di progressività viene infatti assicurato dall’Imu. L’aumento delle case d’abitazione esenti potrebbe arrivare ad un 40%, accentuando la progressività del prelievo. Anche il problema di coloro (per lo più persone anziane) che hanno valori immobiliari alti rispetto al reddito (pensione), può essere risolto stabilendo che la parte d’imposta che supera una data percentuale (uno o due per cento) diviene un credito per il Comune, che verrà riscosso al momento della vendita o della successione.
L’Imu è ovviamente un’imposta patrimoniale ordinaria, cioè un’imposta che si paga con il reddito; negli ultimi tempi, con l’esplosione della crisi economica ed il lievitare dei debiti sovrani (ed il nostro ha superato i livelli di venti anni fa) si è molto parlato di imposta straordinaria sul patrimonio, o di imposta ordinaria ma concentrata sui grandi patrimoni, cioè un’imposta alla francese, che prevede una deduzione di oltre un milione; una variante è stata proposta da Bersani come imposta personale sui soli immobili, che costituiscono peraltro quasi i due terzi della ricchezza complessiva delle famiglie.
Allo stato attuale della legislazione e dell’organizzazione dell’amministrazione finanziaria, anche escludendo imposte straordinarie, che hanno controindicazioni molto serie, anche un’imposta ordinaria non sembra una scelta da porre all’ordine del giorno del primo Consiglio dei Ministri. Innanzitutto è necessario procedere a elevare a livello di valori di mercato le rendite catastali, il che già rappresenta un impegno serio. Inoltre, occorre organizzare il controllo dei flussi finanziari (dai conti correnti al deposito titoli) che è peraltro necessario per la lotta all’evasione. Si deve poi scegliere tra l’imposizione su base individuale e quella familiare. Infatti, come si è già detto, l’imposta francese di solidarietà fa riferimento al foyer fiscal, mentre nel nostro ordinamento l’Irpef, come è noto, è una imposta individuale[62]. D’altra parte, restare a livello individuale crea un problema, visto che i patrimoni, immobiliari o ancor più mobiliari, possono essere spostati da una persona ad un’altra, a differenza di quanto avviene per i redditi.
Ma il nodo più complicato deriva dal fatto che in Francia la base imponibile è data dall’insieme degli asset patrimoniali della famiglia, mentre le imprese non sono soggette all’imposta. Ciò implica che in Francia l’imposta mira a stabilire il valore della quota di proprietà delle imprese che fa capo ad un nucleo familiare, conformemente al criterio generale della tassazione dei valori effettivi. Le nostre Agenzie fiscali non sono in grado di effettuare una valutazione delle centinaia di migliaia di s.r.l. o s.p.a. esistenti, a parte gli immobili di proprietà di tali società, dove ovviamente è possibile applicare le stesse regole che valgono per gli immobili di proprietà delle persone fisiche. Pertanto, volendo accentuare la progressività del prelievo in tempi brevi, l’opzione più logica è quella di affiancare una Imu erariale a quella comunale. Si dovrebbe trattare di un’imposta personale, con una deduzione di base, ed una aliquota[63] pari a quella che si applica sugli immobili diversi dalla casa d’abitazione, in modo da evitare forme elusive.

Note

1.  Tutti prelievi a carico dei datori di lavoro (o lavoratori autonomi); questo aspetto verrà ripreso più avanti.

2.  Quest’ultimo dato dipende ovviamente dalla forte recessione economica conseguente alla crisi finanziaria, e dal fatto che il livello del debito pubblico aveva sconsigliato di ricorrere a manovre di alleggerimento fiscale.

3.  Un discorso simile vale anche per quanto riguarda l’Ici-Imu; da alcune analisi effettuate non si ottengono indicazioni chiare; sembrerebbe che vi sia stata una leggera tendenza ad aumentare gli affitti, il che tenderebbe a confermare la classificazione dell’imposta come indiretta, ma si tratta di un’indicazione piuttosto incerta.

4.  In questo le imprese sono spinte anche dal fatto che nel bilancio l’Irap è presentata come una sottrazione dall’utile lordo.

5.  In alcuni documenti pubblici (anche del MEF) al posto di Irpef si legge Ire. In effetti nella legge delega di riforma tributaria del 2003 si proponeva il cambio di nome, in quanto oltre alle persone fisiche l’imposta si sarebbe applicata anche agli enti non profit (mentre l’Irpeg sarebbe divenuta Ires, imposta sul reddito delle società). Ma in effetti gli enti non profit sono rimasti con la normativa precedente, anche se l’Irpeg è divenuta ufficialmente Ires (nel 2003); pertanto soggetti all’Irpef continuano ad essere le sole persone fisiche.

6.  In questo progetto è possibile notare l’influenza dei sostenitori della flat tax, cioè di un’imposta con una sola aliquota, e delle deduzioni per i lavoratori dipendenti.

7.  Nel primo modulo di attuazione della riforma (finanziaria 2003) la deduzione per i lavoratori dipendenti si esaurisce a 33.500 euro, superiori al reddito medio, ma non lontanissimi. Nella finanziaria 2005 le deduzioni per familiari a carico arrivano a superare gli 80.000 euro, che invece sono oltre tre volte il reddito medio. La legge delega spiegava la decrescenza con l’obiettivo della progressività, ma in realtà questa può essere assicurata anche da una detrazione fissa. Solo che con quest’ultimo metodo emergerebbero le vere aliquote marginali; si veda più avanti.

8.  Le spese fiscalmente riconosciute rimangono invece con la normativa preesistente.

9.  Un contribuente che si trovi a cavallo tra due scaglioni avrà un risparmio dato dalla media ponderata, ad esempio un risparmio tra 230 e 330.

10.  Si veda P. Bosi – C. Guerra, I tributi nell’economia italiana, 2006. Un altro curioso fenomeno, dovuto alla formula della deduzione, faceva sì che se due genitori avevano esattamente lo stesso reddito, conveniva che i figli fossero a carico di uno solo dei due; la divisione della deduzione a metà comportava una perdita di risparmio d’imposta.

11.  Per la precisione mentre il primo modulo va attribuito a Tremonti, il secondo può essere attribuito direttamente a Berlusconi, che impose la sua volontà a Siniscalco (che aveva sostituito Tremonti al MEF), il quale avrebbe preferito usare le risorse per un alleggerimento dell’Irap.

12.  Il governo infatti si trova di fronte ad un aumento, iniziato nel 2005, del rapporto debito-Pil, e ritiene necessario invertire questa tendenza ricostituendo quell’avanzo primario che, nella legislatura 1996-2001, era arrivato al 5%. Pertanto Padoa Schioppa attua una finanziaria piuttosto restrittiva, che in effetti otterrà l’obiettivo desiderato (il rapporto debito-Pil scenderà nel 2007 di tre punti), anche se non gioverà alla popolarità del governo.

13.  Lo spartiacque è, in linea di massima, rappresentato da un reddito imponibile sui 40.000 euro, con guadagni sotto ed aggravi sopra (si tenga presente che i contribuenti sotto i 40.000 euro sono tuttora il 93%).

14.  Per un approfondimento di veda il Libro Bianco: L’imposta sul reddito delle persone fisiche e il sostegno alle famiglie, Rivista Tributi, Supplemento n. 1, 2008, consultabile al sito www.ssef/documenti/riviste.

15.  Al netto dei contribuenti c.d. minimi che hanno optato per l’imposta sostitutiva (di Irpef, Iva e Irap). Si tratta (dichiarazioni 2011) di oltre 700.000 soggetti.

16.  Nella finanziaria 2008 fu introdotta una detrazione di 1.200 euro per coloro che avevano tre o più figli. Fu specificato che la parte di detrazione non goduta (per azzeramento dell’imposta netta) doveva divenire un trasferimento, cioè un’imposta negativa; dai dati risultava infatti che quasi la metà dei contribuenti interessati era a rischio di incapienza.

17.  Cesare Puviani, Teoria dell’illusione finanziaria, Palermo 1903.

18. Il governo aveva proposto di diminuire di un punto le prime due aliquote Irpef, e di aumentare tutte le aliquote dell’Iva. I due relatori (Baretta (Pd) e Brunetta (Pdl) hanno eliminato la diminuzione dell’Irpef e limitato l’aumento alla sola aliquota Iva maggiore (dal 21 al 22%), aumentando le detrazioni per i figli.

19.  Si veda L’imposizione fiscale sulle società, Scuola Superiore di economica e finanza, Rivista Tributi, Supplemento n. 1, 2008, consultabile al sito www.ssef/documenti/riviste.

20.  Soluzione questa che crea qualche perplessità; se una società versa l’imposta sui suoi utili in Italia, il fisco italiano può eliminare la c.d. doppia tassazione (economica) sui dividendi con un credito d’imposta, ma se la società è, poniamo, francese o tedesca, e quindi ha versato la sua imposta al fisco francese o tedesco, perché riconoscergli lo stesso il credito? Tuttavia, distinguere tra le società crea, in linea di principio, un ostacolo alla libera scelta d’investimento.

21.  L’esenzione è sottoposta ad alcune condizioni tese ad evitare gli investimenti speculativi.

22.  Nelle riforme scandinave l’idea era quella di separare l’imposizione dei redditi da capitale da quelli da lavoro; in linea di principio la progressività si applicava solo a quest’ultimi, con una aliquota iniziale pari a quella applicata sui redditi da capitale.

23.  Nel 1998 l’aliquota ordinaria era al 36% e quella ridotta al 19%. Successivamente fu introdotta la “superdit” che permetteva di recuperare ad agevolazione il capitale proprio già esistente. In sostanza, ad una società che effettuava un incremento di 100 si riconosceva un incremento di 140, in modo da recuperare ad agevolazione, progressivamente, il capitale iniziale.

24.  Cioè al livello dell’aliquota del secondo scaglione Irpef, secondo  quanto previsto dalla legge delega.

25.  Nel calcolo si comprende anche il debito dei soci, o garantito da essi. La misura era compensata dalla riduzione di tre punti dell’aliquota.

26.  La misura è accompagnata da un sostanziosa carota, cioè la diminuzione dell’aliquota da 33 a 27,5%. Per i soci che hanno partecipazioni qualificate però la percentuale di utili distribuiti da dichiarare in Irpef è stata elevata al 49,72%, in modo che coloro che si trovano nello scaglione più alto abbiano un’incidenza complessiva del 43%. La diminuzione dell’aliquota quindi mira ad incentivare l’aumento del capitale proprio delle società. Da segnalare anche un intervento di semplificazione nel passaggio dal bilancio civilistico a quello fiscale; le circa quaranta poste di variazione tra i due bilanci sono state notevolmente ridotte, in modo da riavvicinare l’utile civilistico e quello fiscale. Un esempio per tutti è quello degli ammortamenti; è stato eliminato l’uso diffuso di iscrivere ammortamenti più bassi nel bilancio civilistico, per far emergere maggiori utili, e più alti nel bilancio fiscale, per pagare meno imposte.

27.  La parte eccedente viene riportata in avanti, per essere eventualmente recuperata, se gli interessi scendono sotto il 30%.

28.  Earnings before interests, taxes and depreciation allowances.

29.  L’Ace viene applicata agli aumenti di capitale proprio, con un rendimento del 3%.

30.  Nel senso specifico che con le opportune modifiche nei parametri si può passare dall’Ace alla Dit.

31.  Da notare che prima dell’introduzione dell’Irap la sola imposta che le imprese non avrebbero versato era l’Ilor.

32.  In realtà questa semplificazione non risponde al vero: i contributi sanitari erano strutturati in modo da essere regressivi sulle remunerazioni, ma per semplicità prescindiamo da ciò.

33.  Ricordando che in realtà non c’è stata parità di gettito.

34.  Una dimostrazione di questa affermazione si trova in un lavoro citato in un articolo sul sito Nens: Irap, troppe polemiche poco documentate (30-10-2009).

35.  Si veda Antonio Misiani:Imu prima casa. Restituzione? Sarebbe un altro regalo ai più ricchi, sul sito Nens. Il decile più basso di rendite catastali versa il 2,4% dell’Imu, mentre quello più alto il 26,1%. Tra i decili delle rendite e quelle dei redditi familiari complessivi vi è una stretta correlazione. Rimane comunque il fatto che non sempre la distribuzione dei valori catastali riflette quella dei valori di mercato, e a volte vi possono essere divergenze tra le due distribuzioni; in particolare tra gli anziani vi possono essere redditi (pensioni) basse e rendite catastali (relativamente) elevate.

36.  Intervento all’Assiom Forex del 9-2-13.

37.  Le stime sull’evasione convergono su un ordine di grandezza di circa 120 miliardi, quasi otto punti di Pil.

38.  Tuttavia poiché l’ammontare degli scambi tra imprese è più elevato del Pil, anche una percentuale molto limitata determina un’evasione cospicua, stimata in un terzo di quella totale.

39.  Se il volume d’affari di un’impresa è 100, e l’utile 30, una riduzione del fatturato del 10% permette di ridurre di un terzo l’utile.

40.  Bruno Visentini era subentrato alla vicepresidenza della Commissione di riforma tributaria quando Cesare Cosciani si era dimesso, protestando proprio per l’inadeguatezza mostrata dai responsabili politici verso il tema della preparazione dell’amministrazione finanziaria.

41.  In un supermercato non capiterà mai di non ricevere lo scontrino. Le imprese di maggiori dimensioni ricorrono piuttosto a forme elusive, e a volte a vere e proprie truffe.

42.  La limitazione ad un triennio era dovuta alla consapevolezza che la misura era di dubbia costituzionalità.

43.  L’opzione valeva per tutti i tre gli anni, sia per chi rimaneva nella contabilità semplificata, sia per chi passava a quella ordinaria.

44.  L’imposta veniva determinata sulla base di un “contributo diretto lavorativo” dell’artigiano e del commerciante, cioè di un reddito imputato per il lavoro da questi svolti nella sua ditta. Se il reddito dichiarato fosse stato inferiore, gli uffici avrebbero mandato direttamente la cartella esattoriale; un vero e proprio “solve et repete”, misura incostituzionale. L’anno dopo Franco Gallo abolisce il provvedimento.

45.  Con gli studi di settore riprendevano vita i lavori delle commissioni dipartimentali delle imposte dirette dell’epoca della Imposta di ricchezza mobile, che annualmente compivano una radiografia di un settore produttivo, stabilendo la redditività delle imprese sulla base degli addetti, delle macchine, dei consumi di materie prime e prodotti intermedi, etc. Studi che si erano interrotti proprio con i primi anni settanta.

46. Introduzione al rapporto della Commissione su Le problematiche di tipo giuridico ed economico inerenti alla materia degli Studi di Settore, TRIBUTI, Supplemento n. 4, 2008 consultabile al sito www.ssef/documenti/riviste.

47.  Cioè i contribuenti a minor rischio di evasione; purché ovviamente siano capienti.

48.  Su Econpubblica 2006, i primi tre articoli delle Short Notes sono dedicati al tema del contrasto d’interesse.

49.  Forse è più corretto dire che la politica di bilancio del nuovo governo dovrà verificare le stime sugli andamenti dei conti pubblici nel quinquennio, per vedere se dall’evasione, dalla diminuzione del costo del debito pubblico, dalla ripresa dell’economia, emergeranno delle risorse che possano essere usate per una diminuzione delle aliquote tributarie o per finanziare alcune spese.

50.  L’affermazione va qualificata: un aumento dell’imposizione sui consumi e una diminuzione dei contributi sociali sposta l’onere dai lavoratori ai cittadini in genere, compresi i pensionati o quanti non svolgono attività lavorative. I modelli teorici non tengono conto di questi dettagli, che determinano peraltro delle differenze solo transitorie.

51.  Ovviamente questa svalutazione fiscale vale anche nei confronti dei paesi dell’Unione Europea che non fanno parte dell’euro; questi però possono reagire svalutando il cambio.

52.  In questo mix si può notare la preoccupazione di non determinare aumenti dei prezzi al consumo. Questa preoccupazione è giustificata; in effetti una diminuzione del costo del lavoro finanziata integralmente da aumento dell’Iva determina un aumento dei prezzi. Infatti la diminuzione degli oneri sociali (o, il che è equivalente, la diminuzione dell’imposta sugli utili in proporzione alla massa salariale) agisce solo su una componente del prezzo netto, mentre l’Iva si applica sull’intero prezzo.

53.  Il progetto Confindustria per l’Italia: crescere si può, si deve, 23 gennaio 2013, consultabile sul sito.

54.  Il progetto Confindustria non specifica se si mantenga l’orientamento della finanziaria di Prodi per cui l’agevolazione non si estende agli utili distribuiti (a coloro che hanno partecipazioni qualificate), e quindi se la percentuale che va dichiarata in Irpef viene fatta salire a 60,4%.

55.  Per controbilanciare (almeno in parte) l’effetto dell’aumento delle due aliquote Iva ridotte il documento propone una parziale restituzione dell’incapienza e una diminuzione delle aliquote Irpef dei primi (due?) scaglioni. Le famiglie monoreddito più numerose, anche appartenenti ai primi decili di reddito, si troverebbero comunque svantaggiate.

56.  Attualmente la detrazione per lavoro scende più velocemente fino a 15.000 euro, e poi più lentamente fino a 55.000. Eliminando questa spezzata si ottiene l’effetto segnalato nel testo. Le aliquote di cui si parla nel testo sono quelle di un lavoratore single; con carichi di famiglia le aliquote risultano più alte.

57.  Una riforma completa dell’Irpef dovrebbe prevedere tre punti in meno sulla prima aliquota, due punti sulla terza, in modo da avere cinque aliquote 20-27-36-41-43. Le detrazioni dovrebbero essere fisse e non decrescenti. Ma ciò richiede circa trenta miliardi. Si veda Paladini-Violetti, Un contributo al dibattito sull’Irpef, giugno 2011 su Nens.

58.  Anche le decisioni giudiziarie legate alla presenza o meno dell’autonoma organizzazione hanno influito su questo risultato; se tutti i titolari di prodotti netti (cioè di valore aggiunto) che compongono il Pil sono tenuti a versare l’imposta, la presenza o meno di autonoma organizzazione non rileva minimamente.

59.  In questo caso il prelievo dovrebbe essere considerato come un’imposta diretta, e quindi potrebbe rimanere la non deducibilità in sede Ires o Irpef.

60.  L’indeducibilità dell’Irap è sempre stata una delle lamentele da parte delle imprese; stabilire la deducibilità, ma limitata alla aliquota base, permette di eliminare il problema ed essere coerente con la logica federalista, secondo cui manovre di aliquote da parte delle Regioni non devono ripercuotersi sul gettito erariale.

61.  Si potrebbero combinare le detrazioni attuali con una detrazione del 0,133% dell’imponibile della casa d’abitazione, come proposto dalla finanziaria 2008; inoltre si potrebbe permettere ai Sindaci delle città medio-grandi di dare una deduzione di un tot a metro quadro, per sgravare le costruzioni delle periferie e gravare quelle con più alta rendita urbana. Il carattere reale dell’imposta permette anche la deduzione dei mutui ipotecari dai valori imponibili.

62.  È dal lato della spesa che troviamo più riferimenti alla famiglia, come nel caso degli assegni al nucleo familiare o di altri istituti di assistenza.

63.  Le aliquote potrebbero essere anche più di una, ma non molte, perché la massima deve essere pari a quella standard degli immobili diversi dalla casa d’abitazione. Ovviamente la deduzione dipende dal gettito che si intende realizzare.