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Il ruolo della giurisprudenza nei sistemi costituzionali multilivello

di - 10 Marzo 2010
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Questa radice nichilistica è combattuta dal neogiusnaturalismo, che non ha certo Ratzinger fra i suoi seguaci, nei cui scritti sul diritto naturale si legge che esso – inteso come produzione culturale, non certo come messaggio divino – è uno strumento spuntato, un’arma spuntata. Con riferimento alla mutabile natura umana e al messaggio divino c’è tutto un filone di pensiero costituzionalistico – si pensi a Böckenförde – che sostiene la paradossalità di un fondamento dei diritti umani che voglia prescindere da un riferimento alla trascendenza. Se le nostre Costituzioni sono rigide, tanto da essere in alcune parti assolutamente immodificabili – non solo la forma repubblicana, ma soprattutto i diritti inviolabili dell’uomo – il fondamento dell’inviolabilità non può risiedere, per la contraddizione che non lo consente, altro che in una dimensione trascendente – cioè non storicamente – posta. E quindi la Costituzione farebbe – per così dire – delle promesse che non può mantenere: in questa chiave concettuale, la Costituzione moderna prometterebbe un’inviolabilità che non può mantenere, perché è essa stessa esposta alle forza umane della storia, e il solo modo per sottrarla è assicurarle un fondamento trascendente.
Ora, a questa dimensione concettuale, a questo tipo di lettura che fa tornare in auge il diritto naturale – lettura che ha delle caratteristiche di profonda serietà, che fanno riflettere sui limiti del nostro costituzionalismo e anche sulla natura sacrale del fondamento pregiuridico del costituzionalismo, che è la stessa natura sacrale dello jus, se vogliamo – si può rispondere con una riflessione che non ci porti fuori dall’orizzonte secolare e laico.
Come? Notando che oltre una certa misura il diritto naturale irrigidisce le posizioni. Un conto è identificare il diritto naturale con una sorta di emozione o di natura emozionale di ciascuno di noi, per cui l’uomo per sua natura reagirebbe alle ingiustizie: ritenere insomma che una sorta di moderno giusnaturalismo sia quello che rifiuta le ingiustizie e quindi si identifica nel Cristo come paradigma dell’uomo che è stato ingiustamente crocifisso e la cui situazione va rifiutata; nel Cristo, cioè, come soggetto nel quale si possono vedere le vicende di ciascuno degli ultimi, a partire dai quali si deve dunque interpretare ogni norma. Altro conto è assumere nell’ambito del diritto naturale un corpus di fedi, di religioni, di credenze. Questo, in una società globale, multiculturale, multireligiosa, ci porterebbe in un vicolo cieco, al conflitto e allo scontro inevitabile dei valori.
Quindi, c’è un riferimento al diritto naturale, ma non a quello cui siamo abituati – quello tradizionale che ha accompagnato la storia del diritto positivo in tutto l’evo medio – ma ad una sorta di canone etico, di esigenza etica che informa di sé tutta l’esperienza giuridica e che potremmo definire come il tentativo di un sano rifiuto dell’ingiustizia legata alla consumazione soprattutto della violenza arbitraria. Su questo, che però è un canone minimale, potremmo anche essere d’accordo come giuristi. Oltre questo limite le questioni diventerebbero più difficili. Cioè, se assumessimo il diritto naturale come corpus di fedi e dovessimo poi applicarlo alle situazioni che la bioetica ci pone innanzi (come l’eutanasia), il dissidio prevarrebbe sulla possibilità di composizione.
Il diritto per principi, quindi, pone innanzi a noi una possibilità di una franca ammissione del ruolo creativo della giurisprudenza: la quale nell’ordinamento giuridico costituzionale multilivello ha un ruolo creativo, e ce l’ha perché opera con fenomeni linguistici, perché il linguaggio non ha nessuna univocità di significati ma ha una pluralità di significati dipendente dai contesti culturali, ed i contesti si presentano oggi interdipendenti in un mondo globalmente aperto.
Anche le tecniche dell’interpretazione rivelano questo tasso di creatività e lo ammette lo stesso legislatore perché nell’art. 12 delle preleggi, che canonizza l’illusione di poter metter regole all’attività interpretativa e quindi creativa del Giudice, in realtà ci sono regole straordinarie che permettono la creatività del Giudice.
C’è, per esempio, il metodo del riferimento ai principi generali: al di là delle formule di interpretazione letterale, sistematica, teleologica, riduttiva, estensiva (metodiche tradizionali attinenti al testo), ci sono dei riferimenti alle metodiche interpretative extratestuali come, appunto, il riferimento ai principi generali e ancor più l’analogia.
In un’epoca, tra l’altro, come questa, in cui c’è lo scontro – che Irti vede con lucidità – tra la tecnica e la politica, la politica sta dietro a fatica alla tecnica, e la politica è all’origine del mito moderno dell’autodeterminazione dell’uomo come singolo e come collettività.
Quindi, la vicenda che si è aperta con le rivoluzioni borghesi nel ’700 è fondata sul mito della politica assoluta, oggi in crisi nettissima. Peraltro il decennio appena trascorso è molto istruttivo da questo punto di vista, perché è un decennio nel quale anche la tecnica che si è proposta come funzione trainante della società moderna e globalizzata ha consumato la sua crisi (pensiamo alla crisi finanziaria: è essenzialmente crisi dell’autoregolazione dei mercati, e quindi della tecnica dell’autoregolazione dei mercati, e del mito della regolazione tecnica degli stessi attraverso le Amministrazioni indipendenti): anche la tecnica, cioè, ha esaurito la sua spinta produttiva.

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