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Il ruolo della giurisprudenza nei sistemi costituzionali multilivello

di - 10 Marzo 2010
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Ad esempio, la scuola del diritto libero in Germania fiorisce con il nazismo e Carl Schmitt certamente ha un’anima oscura (che non è, come è stato detto, un dettaglio “nazi” di un pensiero sfolgorante, è parte della sua ambiguità e contraddittorietà: egli va preso in toto per quello che è). È un uomo che, mentre leggeva la Costituzione di Weimar, ne ricavava tutti i parametri per l’emersione del potere di uno solo. E Zagrebelsky ricorda che dopo l’uccisione di Röhm (il capo delle SA, il corpo paramilitare che circondava Hitler nei giorni della sua “resistibile” – dice Brecht – ascesa) – un atto terribile ordinato da Hitler e l’inizio della sua presa di potere – Carl Schmitt scrisse una difesa pubblica del Führer, e la scrisse in nome dello jus, cioè della possibilità di vedere incarnato al di fuori della norma scritta, in un atto, in un gesto di un uomo potente e capace di mettersi in sintonia con la coscienza del popolo (con il Volksgeist), questo elemento legittimante.
E quindi il fatto, la forza che sta dietro ad ogni ordinamento costituzionale – che qui si aggancia allo jus: non alla lex dunque, bensì al suo lato retrostante – è la forza che direttamente determina le scaturigini della regola. Vi è, dunque, un aspetto infernale sia nella lex che nello jus, e ciò non deve meravigliarci perché – per stare sempre ad un’altra coppia oppositiva – questa vicenda del ruolo della giurisprudenza nell’ordinamento è intrecciata profondamente con la vicenda della natura del potere.
E la natura del potere è demoniaca; anche solo in parte, come ricorda Gerhard Ritter, che pure scrisse durante il nazismo e che teorizzò le due grandi direttrici – altra coppia oppositiva – le quali si contendono il campo della politica occidentale e che non sono indifferenti per l’operare del Giudice. Secondo Ritter, la politica moderna, una volta sganciatasi dal riferimento alla divinità, è dotata di una duplice natura: una natura machiavellica ed una natura erasmiana.
Nella natura machiavellica, il potere giustifica se stesso innanzitutto con riferimento alla sua efficienza. Ciò che conta, quindi, è una condotta capace di conquistare il potere e poi di mantenerlo: la politica è lotta. E Carl Schmitt – uno dei grandi autori del pensiero della crisi, non solo autore di pensieri critici sulla modernità, ma anche teorico fra i più consapevoli del nazismo – ha pensato in termini fortemente machiavellici la vicenda del potere. Il potere è insomma irredimibile, è lotta fra amico e nemico. In questa chiave, bisogna vedere qual è il ruolo del Giudice, un untorello che opera in un luogo – soprattutto se deve dettar regole al potere – assai ostico, assai difficile. Ciò vale soprattutto per i giudici costituzionali, perché questi temi sono di rilevanza costituzionale. Le vicende amministrative sono più facilmente gestibili, riguardando questioni più specifiche o comunque di dimensione inferiore alle vicende di risalto costituzionale.
L’altra faccia del potere, per Ritter, è la faccia erasmiana. Egli analizza Thomas More, l’Utopia, e pensa che ad un certo punto gli uomini abbiano bisogno di sperare; che questa speranza sia sorta non a caso in un’isola (ricompare la distinzione anche in questo contrasto Machiavelli vs. Erasmo, la differenza cioè fra terra e mare: Terra e Mare è infatti un altro scritto di Carl Schmitt). More scrive probabilmente idealizzando alcune caratteristiche della Costituzione britannica, soprattutto lo splendido isolazionismo, la volontà di avere un atteggiamento pacifico in politica estera: da qui il rifiuto della concezione della politica come basata sulla lotta tra amico e nemico e come intervallo fra una guerra e l’altra. More, come Hobbes, aveva terrore delle guerre che si accompagnarono al consolidamento dello Stato e delle monarchie, delle guerre di religione. L’esito del pensiero di Thomas More, come quello di Erasmo, è per Ritter comunque ironico, perché alla fine questa politica così angelicata, così candida, è da lui collocata in un’isola, che è un nessun luogo. Egli sembra in qualche modo fare i conti con la difficoltà di conciliare queste due anime, queste due facce della coppia oppositiva: le quali, peraltro, non si presentano necessariamente associate alla lex o allo jus, ma sono sempre ad essi commiste, perché anche l’esercizio della giurisprudenza, come del potere, è in parte demoniaco, ha una componente demoniaca.
Mi piace pensare che un’altra coppia oppositiva emerga dal pensiero della crisi, dall’analisi dei due pensatori tedeschi – Kelsen e Schmitt – che più hanno riflettuto sulla crisi dello Stato agli inizi del ’900.
Una visione del pensiero giuridico “alla Kelsen” è tutta depurata dal riferimento ad elementi di carattere sociale e culturale, è vista cioè in una logica quasi matematizzante: l’ordinamento è ridotto ad una catena di comandi, e prevale un’accentuazione forte del ruolo della lex. La Costituzione è norma fondamentale (Grundnorm), e non ci si interroga su cosa c’è prima. L’ordinamento è una catena di comandi, e il ruolo del Giudice è quello di concretizzazione del comando. La sentenza è un atto in cui la norma s’incontra con un caso concreto, e l’opera del Giudice non è creativa, bensì di mera sussunzione di una fattispecie concreta in una fattispecie astratta.

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