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Il ruolo della giurisprudenza nei sistemi costituzionali multilivello

di - 10 Marzo 2010
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All’opposto, Schmitt – più consapevole della lezione di Machiavelli – ci dice che il diritto è qualcosa di terrificante e che esso coincide con la logica della decisione. Anzi, quasi rifiuta il nostro agire così blando per principi (i principi costituzionali – dice Zagrebelsky – non sono l’ossatura di una possibile mediazione tra questi due aspetti orfici del potere). Nella visione di Schmitt, il linguaggio per principi (linguaggio, cioè, che non definisce) è semplicemente la dilazione della decisione: ciò che conta è la decisione. Ogni indagine sul linguaggio, perciò, è in realtà una perdita di tempo, ed il momento della decisione coincide con la fissazione dell’ordine. Nel pensiero della destra politica, ideologica, c’è l’idea che in fondo ci sia un caos originario al quale si deve porre ordine in qualsiasi modo e c’è forse una riflessione sulla natura umana profondamente pessimistica, eppure realistica.
Forse, la radice del pensiero di sinistra (se ancora queste categorie hanno un senso) ha invece un’idea erasmiana della natura umana, alla Thomas More: più ottimistica, però irenica, tanto poi da cozzare con la realtà.
Nello stesso periodo di tempo in cui Kelsen e Schmitt costruivano queste loro potenti visioni del fenomeno giuridico, una terza via veniva elaborata da un pensatore eterodosso, un “filosofo della domenica” (come amava definirsi): Alexandre Kojève. Un esule russo che ad un certo punto, come tutti gli esuli russi, quale ad esempio Nabokov, finisce a Parigi – non certo all’angolo della strada … – a tenere un corso di filosofia alla Sorbona sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel: un corso al quale partecipano tutti i più grandi intellettuali francesi del ’900, i più autorevoli esponenti del pensiero continentale, filosofi, sociologi.
Kojève è anche l’autore di due libri fondamentali per il giurista.
Uno, non tradotto in italiano, è La notion d’authorité: un’indagine sul concetto di autorità, di cui lui elabora molte nozioni, la principale delle quali è l’autorità del Giudice (c’è anche quella del padre, del capofamiglia, dell’amministrazione, etc. …).
Un secondo testo è Linee di fenomenologia del diritto: un lavoro di stampo hegeliano in cui Kojève cerca di superare, come Hegel, le contraddizioni del presente: superare cioè quelle coppie oppositive che concettualmente si presentano ogni volta che leggiamo il fenomeno giuridico e quindi il ruolo della giurisprudenza con tutte le ambivalenze e le ambiguità che questo comporta.
Cosa sostiene Kojève? Che non si può dare fenomeno giuridico senza pensare al terzo. Il diritto, quindi, coincide con lo sguardo del terzo. Ora, che il diritto abbia a che fare con lo sguardo è cosa certa, perché la giustizia è bendata o, quanto meno, così è rappresentata: su questo per la verità non sono d’accordo, credo che il Giudice moderno debba avere lo sguardo ben fisso sulla realtà e che il problema per immunizzare la giurisprudenza da questi lati demoniaci e da queste ambiguità – sia della lex che dello jus – sia il ponte con la cultura, la sua terzietà ed il radicamento costituzionale.
La necessità del radicamento costituzionale sembra una cosa scontata, ma quando ho iniziato la vita professionale l’orizzonte concettuale era profondamente diverso da quello attuale. Negli anni ’70 c’era sicuramente uno Stato robusto in Europa, c’era un benessere materiale solido, c’era l’orgoglio dell’attuazione delle Costituzioni di seconda generazione ed un nesso che sembrava indissolubile tra Costituzione e Stato. Quindi il ruolo del Giudice, come quel terzo che assicura la possibilità stessa del diritto, era saldamente ancorato a questa realtà: esiste un Giudice, pertiene allo Stato, non è il Giudice arbitrale dell’ordinamento romano, non è un Giudice professionale come si pensava potesse essere nell’Europa dell’evo medio, ma è un Giudice burocrate, “sta” nello Stato. Egli per un pezzo è burocrate, per un pezzo è professionista. Il suo ruolo nello jus è guardare le vicende conflittuali dall’esterno e applicare una regola. La Costituzione era vista come l’extrema ratio, un fattore di moderata evoluzione dell’ordinamento, però sempre statuale, solo e soltanto dell’ordinamento statuale. Si poteva parlare di Costituzione tradita o programmatica, ma nessuno metteva in dubbio che fosse nell’ambito dell’ordinamento statuale che essa dovesse avere la sua attuazione e che l’opera del Giudice fosse profondamente legata a questo ordinamento statuale.
Se guardiamo invece a quello che è avvenuto ultimamente, vediamo che il quadro è profondamente mutato, perché il rapporto fra Stato, Costituzione, Giudice non è più lo stesso.
Nella relazione introduttiva per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, singolarmente il Primo Presidente della Corte di Cassazione – pur funzionario in uno Stato nazionale – con molta lucidità ha sottolineato due cose importantissime, che sono collegate a quel fenomeno che si chiama “globalizzazione” e che si traduce in una riduzione delle distanze, dovuta essenzialmente alla trasformazione industriale del mondo ed al suo passaggio ad una economia della conoscenza.

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