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Il ruolo della giurisprudenza nei sistemi costituzionali multilivello

di - 10 Marzo 2010
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A questa circolazione noi in Europa siamo in realtà abituati, perché – pur avendo linguaggi differenti che ostacolano la formazione di un’opinione pubblica unitaria – abbiamo però creato istituzioni nelle quali circolano i modelli giuridici. Si tratta di istituzioni prevalentemente giudiziarie, perché il processo costituente europeo ha camminato molto sulle gambe dei giudici: la CGCE, e la Corte di Strasburgo per quanto riguarda la CEDU, sono luoghi in cui si confrontano modelli per esperienze giuridiche differenti, cercando di elaborare una grammatica comune.
Ma anche i giudici costituzionali nazionali possono guardare alle esperienze giuridiche degli altri (si noti: torna il tema dello sguardo), perché guardare l’esperienza giuridica di un altro popolo significa capire meglio se stessi: non bisogna farlo né con uno spirito esterofilo, né con un atteggiamento troppo scettico. Bisogna avere un sano dubbio, cioè mettere le nostre soluzioni alla prova: fare il test.
La Corte costituzionale lo ha fatto, con la sentenza n. 303 del 2003, proprio sul Titolo V: quando si è trattato di ricostruire lo sbilenco sistema che il legislatore costituzionale ci aveva consegnato e di farlo sull’asse più coerente verso un federalismo possibile, la Corte ha dovuto esaminare sistemi generali più maturi del nostro (quello tedesco, quello americano), ricavando da quelle esperienze giuridiche una costante, una sorta di invariante: un momento decisorio di ultima istanza che è affidato a livello nazionale per i problemi che non possono essere risolti a livello locale (per il principio di sussidiarietà ascendente). E questo la Corte ha fatto citando in una sentenza esperienze straniere.
Talvolta fatico a far accettare da qualche Presidente citazioni in lingue che non siano l’italiano: si discute anche se sia ammesso il latino! Da un Presidente che intenda applicare rigidamente i canoni posti dal c.p.c. il latino è meramente tollerato. Le lingue straniere non lo sono, e questo nell’epoca della globalizzazione! Oggi, però, è abbastanza comune trovare nelle sentenze della Corte di Cassazione o del Consiglio di Stato consapevoli ribellioni a questo “nazionalismo del linguaggio”.
Il tema del ruolo della giurisprudenza – sono approdato al nucleo forse più difficile del mio dire – coincide col tema del linguaggio. Più ci penso, più mi convinco che l’esperienza giuridica è essenzialmente un’esperienza linguistica. E non è un caso che una persona ossessionata dal linguaggio come Walter Benjamin si sia molto interessata all’esperienza giuridica, però poi guardando – evidentemente di fronte al nazismo incombente – alla capacità del linguaggio di fare argine alla violenza con un pessimismo tale da risolversi nell’identificazione del diritto con la violenza. Il suo saggio sulla violenza e sul diritto è su una linea che potremmo definire non dissimile da quella schmittiana: però in chiave critica, mentre Schmitt è in chiave apologetica.
Benjamin, quindi, è la vittima che vede esattamente negli stessi termini del suo antagonista il ruolo del diritto nell’epoca dei totalitarismi, la perversione della lex in violenza e ci consegna, tuttavia, una qualche speranza nella possibilità del linguaggio di fare da argine, perché Benjamin scavava nel linguaggio, scavava anche nelle superfici del mondo moderno, andava dentro le mode per scoprire quello che nelle mode c’era di più antico. Pensate agli scritti da lui dedicati alle vetrine delle città moderne, al fatto di passeggiare in queste città dove la moda s’impone perché evoca continuamente citazioni e fenomeni culturali del passato (questa è la grandezza dei creatori della moda che noi ammiriamo).
I giuristi, oggi, fanno un po’ la stessa cosa del flâneur di Walter Benjamin; e lo possono fare perché l’ordinamento, nella sua frammentazione enorme, offre al giurista che non voglia rinunziare minimamente alla cassetta degli attrezzi del giuspositivista la possibilità di passeggiare tra le fonti come il flâneur passeggia tra le vie della città che si modifica in continuazione. Le città si modificano in continuazione, le fonti si modificano in continuazione, gli ordinamenti si aggiungono agli ordinamenti, gli Stati perdono la presa sui territori, il diritto si sgancia dagli Stati e dai territori, i giuristi possono navigare in spazi che non sono consueti.
E in questi spazi dispongono di uno strumento: il linguaggio.
Il linguaggio si concretizza in tre dimensioni nella vita giuridica, fondamentalmente tre: la dimensione dei valori, la dimensione dei principi, la dimensione delle regole.
Per un giurista di diritto positivo tradizionale la cosa più importante è la regola. Ragionare in forma di sentenza è porre in essere un sillogismo. Già Calamandrei aveva parecchi dubbi che fosse così, perché temeva che nella logica motivazionale della sentenza vi fossero elementi di precomprensione, di irrazionalità che scalfivano l’apparente rigore della motivazione sillogistica. Ancora oggi, questo rigore acquieta molti colleghi e non a caso il Primo Presidente della Corte di Cassazione, pur delineando le magnifiche sorti e progressive dello jus globale, ad un certo punto dice, forse spaventato del suo stesso ardire: “dobbiamo preferire Porzia, perché poi ha salvato il suo amante con un sofisma giuridico, ad Antigone, che si è opposta alla lex”; e non ci si può opporre alla lex, tanto meno se si ha un compito nomofilattico …

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