Deleuze ed il diritto comico (e tragico)
Sade è ironico (ed abissale) nel porre il Male come principio fondante la storia umana ma è umoristico nel delirio anarcoide senza meta, nella celebrazione dell’evento rivoluzionario, che sposa perversione e sovversione, cosciente della loro inanità politica. L’inanità politica è il coerente esito sadiano del politico nell’epoca delle pretese palingenetiche della politica e dei crescenti populismi che si intrecciano.
Masoch è umoristico nell’accettazione della logica del castigo kantiano, divenuto godimento per contratto, il castigo masochistico disvela simbolicamente il funzionamento della filosofia dell’osservanza estrema, radice di ogni perversione burocratica e di ogni mondo orwelliano. Nel futuro ci aspettano castighi senza ragione per ogni più piccola violazione.
Sade è anarchico e paterno, Masoch è totalitario e materno.
Il legislatore moderno è sadiano la burocrazia masochista.
Il primo è prevalentemente ironico, l’altro in fondo umoristico nello scrupolo applicativo.
Ultima figura del comico evocata da Deleuze per descrivere il fenomeno giuridico è la satira, essa è arte della regressione, restituendo la profondità senza fondo e l’altezza illimitata del caos sottostante al diritto, del caos al quale il diritto non riesce a dare ordine.
Kafka poi usa l’umorismo però in modo alto : smonta il kantismo alla radice; l’uomo è colpevole a priori, la legge è inconoscibile, è vuoto, deserta forma, non ha interiorità, essa è solo consegnata in uffici che rimandano gli uni agli altri essa dipende da macchine indiziarie, da procedure astratte, da catene di connessioni procedurali e macchiniche.
Ne risulta un mondo dove la legge è ovunque (prolifera) cambia continuamente (innova) ed occupa ogni spazio, alla fine per la sua onnipervasività non regge, consegnando il mondo ad un caos masochistico-sadiano.
Deleuze ci ha detto molte cose.
Non è solo – come spesso viene rappresentato – il filosofo del 1968, è soprattutto un filosofo che ha difeso il diritto di filosofare nell’epoca della consumazione / consunzione di ogni pensiero filosofico, consunzione avvenuta a favore dell’arte, della poesia, del racconto o della scienza o dell’analisi linguistica.
Per Deleuze queste vie d’uscita non sono interessanti, la filosofia non lascia il posto ad altro che ad una nuova aurora del pensiero, tutta positiva, tutta ottimistica. Autore profondamente inattuale quindi.
Eppure fa bene leggerlo perché descrive tratti della modernità giuridica.
Egli ci dice che se la filosofia è finita, è ora, tuttavia, di iniziare a pensare.
E a pensare confidando nel mondo più che nel concetto, così credendo nell’amore, nella vita, nella morte, nella radicale empiria.
Impossibili a volersi sono i concetti o le rappresentazioni non le esperienze.
Ciò significa che le esperienze, per essere concettualizzate, non hanno bisogno di un sostegno, nell’infinito, nel trascendente, alla fine nella Legge intesa nel modo classico, aurorale, del felice momento greco.
La trascendenza è abbandonata ma l’esito non è nichilistico ma anarchico-libertario.
Il diritto kantiano diviene oggetto di un’operazione di smontaggio ironico-umoristico che si serve di Kafka come di Sade e Masoch.
Ma lo smontaggio a ben vedere non è fine a se stesso.
Il nostro modo di pensare ogni sistema è l’entropia : come alternativa all’ordine dato si coglie solo la minaccia dell’indifferenziato.
L’infinito è l’informe, il caos che ci aspetta appena fuori dall’ordine.
Per Deleuze l’infinito non è caotico, ma univoco, un processo di produzione incessante della forma.
Il luogo dal quale nascono la molteplicità illimitata delle forme finite.
Il diritto come esperienza quindi perde la sua comicità per divenire processo, esperienza, continua mutevolezza, accadere che accade, senza un soggetto che lo pensa.
Il divenire, il nostro passare, è l’unico assoluto : il diritto è comico per la sua tentazione di fissità, per la sua pretesa di vincere l’indifferenziato, è nichilistico nel suo fondo kantiano infondato; ma è un gioco estremamente serio (e divino come nel pensiero bruniano) quando, nella legislazione o, più ancora, nel suo divenire complessivo, accetta il divenire ed identifica nuove forme di tutela per bisogni sociali.
Deleuze non aveva un’alta considerazione dei giudici ma piuttosto della giurisprudenza (in quanto intesa come liquidazione delle pretese veritative della filosofia).
Il diritto è un meccano sociale con una storia identificabile nelle fasi del costume (pre-diritto), poi del diritto casistico problematico (topica) poi del diritto legislativo (assiomatico simboleggiato dalla codificazione) che tende a far nascere società disciplinari.
Il diritto però è fatto anche di tradizione, di sguardo nel passato, non un passato empirico, ma un passato trascendentale, significativo; in questa ottica il precedente giudiziario appare come la negazione dell’effimero, come un elemento performativo, come data che segna un prima ed un poi (prova ne sia che la sentenza della Cassazione n. 500 del 1999 inaugura la stagione della risarcibilità dell’interesse legittimo).
Ultima lezione : la repressione passa dalla condanna di ciò che si muove (anche se il movimento è rischioso oscilla fra poli estremi quello autoritario fascisteggiante che reclama sovranità illimitata e quello schizo-rivoluzionario del desiderio senza legge, per questo sempre, nella vita sociale, occorre sorvegliare il fascista, il suicidiario, il demente che è dentro di noi e tenere le corti al riparo da estremismi e rigori normativistici e, nel contempo, da anarchia creatrice priva di fondamento che non sia il desiderio ed il bisogno sociale).
Sposare il movimento senza cadere nella rivolta né nella ripetizione.
Una danza su un filo.
La modernità come finitudine che non ha come riferimento altro che se stessa va superata evitando la secca alternativa ordine-caos verso l’accettazione del molteplice, del plurale, della rete di connessioni, del processo.
Tutto ciò comporta l’identificazione dell’essere nell’attualità della contraddizione.
Ma non comporta alcuna eclissi delle istanze ordinatrici.
Esse però non sono nella giurisprudenza ma in un certo modo di intendere la legislazione o meglio la capacità ordinatrice del diritto.
La filosofia di Deleuze pur essendo una filosofia dell’esperienza, dell’evento, del plurale, non è un elogio della magistratura (egli ha detto parole molto dure contro i giudici; “meglio essere uno spazzino che un giudice” intendendo riferirsi però ad un giudice vindice di virtù che creda di rovesciare la verità o la morale mettendosi al centro dell’esperienza ordinatrice, mentre è della verità e della morale che occorre sbarazzarsi) ma di una capacità di innovare che ha il diritto come meccano sociale, una volta che lo si liberi dal giudizio.
Ciò sgancia per Deleuze dalla morale la dinamica giuridica.
1. La legge è un composizione di illegalismi. La esigenza di protezione di un illegalismo diviene lo strumento per la sua legalizzazione.
2. La pratica del diritto non consiste nell’applicazione di un modello, ma nella definizione di mappe : le strategie processuali. La legge non è comprensibile se la si vede solo nella sua contrapposizione all’illegalità.
3. Lo stato di natura non è uno stato sociale (il diritto non si giustifica con ancoraggio alla legge, alla società, ai doveri, ai saperi dei saggi). Il diritto – visibile a partire dallo stato di natura – è potenza. Tutto quello che si può fare è consentito. L’attenzione si sposta dai doveri ai diritti.
4. Il diritto non smette mai di estendersi a nuovi fenomeni, esso è onnipervasivo.
5. Il diritto poi è inclusivo esso si estende a luoghi ed ambiti e persone sempre più numerose (si pensi alle questioni migratorie fra diritto naturale e diritto delle genti).
6. Il diritto abbandona la Potestas dello Stato in favore della Potentia trasformatrice del moderno.