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Un nuovo diritto per l’economia italiana

di - 5 Dicembre 2008
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Le sollecitazioni, le pressioni, sull’impresa – Maffeo Pantaleoni diceva “la minaccia” – affinché essa impieghi nel modo più efficiente e innovativo le risorse che gestisce devono provenire dal mercato. Il mercato può indicare  la direzione dell’investimento. La condizione, tuttavia, è che il mercato sia reso più concorrenziale. La legge antitrust esiste dal 1990. Da allora, il grado medio di concorrenza nell’economia italiana, lungi dall’aumentare, è diminuito. Il tasso di crescita della produzione e della produttività è sceso, mentre il tasso di profitto si è innalzato. La legge va meglio applicata, dall’Autorità chiamata a interpretarla. Soprattutto, va riformata, andando oltre i riferimenti alla categoria “concorrenza” così come definita nel Trattato europeo. L’accezione del Trattato, e della legge italiana del 1990, è statica e non anche dinamica, è micro e non anche macroeconomica.

Concorrenza vuol dire costi e prezzi più bassi, per data struttura dell’economia. Ma concorrenza vuole soprattutto dire rimozione degli ostacoli che frenano le innovazioni e la riallocazione dei fattori produttivi. La dimensione dinamica della concorrenza è nella differenziazione – schumpeteriana – e poi nel livellamento – ricardiano – dei tassi di profitto tra le imprese:  nella spinta a far sì che le risorse, di capitale e di lavoro, siano rilasciate dalle produzioni divenute inefficienti, per indirizzarsi verso gli impieghi che l’innovazione rende in prospettiva più redditizi.

L’azione antitrust va svolta secondo priorità. Deve soprattutto assicurare concorrenza nei settori che offrono inputs strategici: gli sraffiani “prodotti base”, i quali entrano direttamente o indirettamente in tutte le produzioni. L’autorità non può demagogicamente cercare facili consensi aprendo pratiche casualmente innescate dalla protesta di gruppi di consumatori interessati solo al consumo di determinati beni, spesso molto a valle nella composizione della domanda finale. In una visione d’assieme, la promozione della concorrenza dovrebbe avere sempre chiaro il saldo netto delle forze che influiscono sulla pressione competitiva nel sistema produttivo. L’impegno contro le vie facili al profitto deve aver presenti anche le determinanti macroeconomiche degli utili. L’Autorità antitrust non può ignorarle. Una spesa pubblica gestita con rigore, un tasso di cambio che precluda illusori recuperi di competitività di prezzo, una progressione dei salari che non ecceda ma nemmeno segua con ritardo quella della produttività possono esprimere incentivi potenti – date le forme di mercato – affinché le imprese perseguano il profitto attraverso l’efficienza e l’innovazione, e non imponendo prezzi alti.

Bisogna minare ogni forma di difesa del “vecchio” rispetto al “nuovo”: monopoli, abusi di posizione dominante e intese, ma anche sussidi pubblici, collusioni fra capitale e lavoro, intrecci tra industria e finanza, norme protettive, comportamenti opportunistici. Da ultimo, va contrastata l’irresponsabilità. Concorrenza, in ultima analisi, è piena assunzione di responsabilità da parte dell’impresa. Il valore vero della concorrenza coincide con produttori che facciano conto in primo luogo su se stessi, escludano di percorrere scorciatoie al profitto, non pensino di trasferire ad altri le eventuali perdite.

Scolpire questi concetti nella Costituzione, superando la lettera del Trattato, sarebbe d’ausilio. Lo stesso primo comma dell’articolo 41 potrebbe recitare: “L’iniziativa economica privata è libera; chi la intraprende ne è esclusivo responsabile; deve svolgersi in condizioni di concorrenza”.

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