Un nuovo diritto per l’economia italiana

Esperienza giuridica ed esperienza economica sono, in positivo e in negativo, intrecciate. Lo sono particolarmente nel mondo contemporaneo, che negli ultimi due secoli ha affidato alla economia di mercato capitalistica il suo benessere materiale. Questo sistema tende a permeare di sé, dei suoi valori e disvalori, l’intera società, financo nelle sfere meno prossime a quella delle merci.

Norme, giurisprudenza, dottrina giuridica sono quindi chiamate a un compito apparentemente contraddittorio: da un lato, salvaguardare i cittadini dalla pervasiva intrusione dell’economico nei momenti meta-economici della vita della comunità, dall’altro lato corrispondere nelle forme più acconce al modo di operare dell’economia di mercato, nel nome di un progresso materiale sostenibile ed equo. Sul primo fronte rilevano i diritti civili – della persona, della famiglia, politici – che la Costituzione della Repubblica Italiana fissa nei Titoli I, II, IV della sua Parte Prima. Sull’altro fronte – a cui si rivolgono queste note – vanno ricercate le soluzioni di volta in volta capaci di valorizzare le potenzialità positive e di comprimere le potenzialità negative del sistema. Di volta in volta, poiché l’evolvere nel tempo continuo è caratteristica precipua dell’economia di mercato capitalistica, fermi restando i suoi connotati di fondo: produzione, da parte di imprese private con lavoro salariato, di merci vendute sul mercato a prezzi il più possibile eccedenti i costi, per il profitto monetario di chi possiede il capitale.

Questa economia ha dimostrato nei fatti una formidabile attitudine ad accrescere nel lungo periodo produttività e redditi. Dall’inizio dell’Ottocento a oggi su scala mondiale il volume del prodotto si è moltiplicato per sessanta, la popolazione per sei, il reddito reale pro capite per dieci. Per l’Italia gli stessi “moltiplicatori” si stimano in cinquanta, tre, diciassette, rispettivamente. Con un reddito pro capite di livello europeo, l’Italia supera di tre volte la media mondiale, di venti volte le economie più povere. Il paese è “ricco” anche sotto altri profili: patrimonio delle famiglie, longevità, salute, istruzione, sicurezza sociale.

Ma tale condizione, frutto dell’impegno fattivo di generazioni, non è per sempre acquisita. E’ a rischio. Nell’ultimo ventennio la produttività del capitale e del lavoro ha ristagnato, con una tendenza post-2000 alla diminuzione. E’ quindi la crescita il primario problema d’ordine economico alla cui soluzione l’esperienza giuridica italiana è chiamata a concorrere: attraverso l’accumulazione del capitale, l’efficienza produttiva, il progresso tecnico.

Instabilità, esternalità, iniquità costituiscono al tempo stesso la triade negativa, da contrastare, che l’economia di mercato capitalistica associa alla capacità di sviluppare le forze produttive. Le fluttuazioni degli affari, degli investimenti, dell’occupazione, violentissime fino ad allora, si sono dopo gli anni Trenta-Quaranta attenuate. Peraltro sussistono, come testimonia la recessione 2008-2009 in diversi paesi occidentali, Italia inclusa. Le crisi finanziarie – delle monete, delle banche, delle borse – si sono nello stesso arco di decenni aggravate, nella frequenza e nell’intensità. Sono pur esse socialmente costose, anche allorché non si risolvono in recessione dell’economia “reale”. L’Italia fa eccezione solo in parte. Così, il caso italiano si inscrive nel drammatico problema planetario dell’inquinamento e del surriscaldamento della Terra. Nel “bel paese” dall’ambiente ampiamente devastato è lunga la lista delle esternalità negative che l’attività produttiva privata genera. Gli italiani sfruttano 3,8 ettari di spazio bio-produttivo a testa, rispetto alla media mondiale di 2,2 e agli 1,8 che sono compatibili con la civiltà sostenibile. La distribuzione del reddito si fa più iniqua fra i cittadini delle diverse parti del mondo. Stenta a divenire meno sperequata all’interno degli stessi paesi più ricchi. In Italia la disuguaglianza si accentua, anche fra il Nord e il Sud del territorio, ed è fra le più alte dell’Occidente.

Il diritto è, per l’economia, più importante di quanto non pensino i suoi cultori e di quanto non abbiano a lungo pensato non pochi economisti. Lo conferma una dovizia crescente di analisi empiriche, comparate e per singoli paesi. Da esse risulta che nelle sue parti rilevanti per il funzionamento dell’economia il diritto va adeguato con particolare urgenza in Italia. Va adeguato per parti specifiche, ma movendo da una visione d’assieme secondo una scala di priorità.

Il fine principale è che l’economia italiana ritrovi la via della crescita. Se la produttività continuasse a ristagnare l’impoverimento della Nazione inasprirebbe anche gli altri problemi che abbiamo evocato. Semplicemente, mancherebbero le risorse necessarie per stabilizzare l’attività economica e la finanza, correggere le disparità distributive, sanare e preservare l’ambiente.

Per la crescita, occorre in primo luogo continuare a promuovere il risparmio, nel lungo termine presupposto dell’investimento. La mobilità internazionale dei capitali può consentire l’investimento anche a paesi che risparmiano poco, come da anni avviene per gli Stati Uniti. In percentuale importante il risparmio si forma, quale autofinanziamento attraverso i profitti non distribuiti, presso le stesse imprese che lo impiegano in impianti, macchinari, scorte. Spetta a una accorta gestione delle pubbliche finanze di evitare che lo Stato e gli altri enti distruggano risparmio attraverso l’eccesso delle loro uscite correnti sulle loro entrate correnti. Ma la parsimonia delle famiglie – circa metà del risparmio nazionale in Italia – continua a rappresentare la base per la crescita equilibrata dell’economia attraverso l’accumulazione di capitale. Lavoro e risparmio sono legati. Per circa tre quarti la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane fa capo a famiglie il cui capo-famiglia è un lavoratore dipendente, ovvero un pensionato ex lavoratore dipendente.

L’articolo 47 della Costituzione, il Testo unico bancario, il Testo unico della finanza, gli organismi di supervisione, il ruolo di lender of last resort della Banca d’Italia (seppure dimidiata nella sua discrezionalità amministrativa da una legge del 2005) costituiscono la cornice di regolamentazione, supervisione, sostegno di banche e mercati che presidia la componente monetaria del risparmio favorendo per quanto possibile la funzionalità e la stabilità del sistema finanziario. La crisi internazionale del 2007-2008 ha sollecitato governi e parlamenti a potenziare ulteriormente le reti di protezione. E’ bene che nell’ordinamento italiano tale non facile ricerca resti affidata alle leggi speciali. Il settore è irto di specificità rispetto agli altri rami dell’economia e non può ignorare le tendenze europee e internazionali, che oscillano tra liberismo e interventismo statale.

Efficienza e innovazione “spiegano” per quasi due terzi le risultanze delle moderne economie in termini di crescita. Nel tempo hanno assunto un rilievo già quasi doppio rispetto alla stessa scala quantitativa dell’accumulazione di risparmio. Dipendono da un lato dalle possibilità, dall’altro lato dalla propensione delle imprese di produrre di più e meglio. Possibilità e propensione sono a propria volta riconducibili a una congerie di elementi. Su alcuni, il diritto dell’economia può positivamente influire.

Quanto alle possibilità, l’ordinamento italiano – a cominciare dal Codice civile – tutela ampiamente l’impresa sui tre cruciali fronti della proprietà, del contratto, della responsabilità. Le carenze gravi e l’incertezza del diritto si annidano nel processo e nella composizione delle liti, che implicano tempi e oneri di insicura valutazione, molto spesso lunghi e pesanti. L’arretrato delle cause civili pendenti – circa cinque milioni – coinvolge in larga misura imprese. Prosegue l’espansione di una domanda di giustizia civile di massa largamente eccedente un’offerta che non è stata a sufficienza potenziata. Filtri per l’accesso alla Cassazione, tribunali sempre aperti, telematica, sanzione delle pratiche dilatorie delle parti, soluzioni non giudiziarie delle controversie (arbitrato, conciliazione, ombudsman sino al giudice di pace), sentenze semplificate, termini accorciati, depotenziamento delle questioni di competenza e dei formalismi, più agevole escussione dei testimoni, recupero forfettario delle spese processuali: il legislatore è orientato a seguire queste vie operative, piuttosto che a riformare per l’ennesima volta le strutture portanti del rito. Per le liti d’impresa, occorre altresì una magistratura con cultura economica adeguata, espressa da una rinnovata facoltà di giurisprudenza e da un ritorno per le controversie societarie e finanziarie a sezioni dedicate, con sede distrettuale. Alla privatizzazione e alla specializzazione devono unirsi maggiori risorse di bilancio devolute una tantum alla giustizia: uno sforzo eccezionale, volto ad abbattere l’arretrato.

Nel diritto dell’impresa – a cominciare dalla riscrittura dell’algido art. 2082 del Codice Civile – è essenziale valorizzare all’interno delle aziende la funzione imprenditoriale. La efficiente e corretta ordinaria amministrazione delle imprese, la sorveglianza sugli amministratori a vantaggio di proprietari, creditori e altri stakeholders, non fanno di per sé crescere l’economia. Solo l’innovazione e il progresso tecnico, affidati a una funzione imprenditoriale definita, domiciliata e autonoma, possono riuscirvi. Più in generale, occorrono soluzioni che semplifichino gli adempimenti, amplino la gamma delle scelte organizzative, rispettino le differenze qualitative fra i pochi grandi gruppi rimasti e i milioni di piccole unità da sempre presenti nell’economia italiana. Va favorita la dinamica dimensionale e qualitativa della piccola impresa. La sua trasformazione in impresa medio-grande non può restare un’eccezione.

Nelle procedure concorsuali l’accento va decisamente posto  sull’allarme precoce che può utilmente scattare quando la redditività aziendale scema. Allorché compaiono perdite che preludiano all’insolvenza l’impresa sta già dissipando risorse orientabili verso impieghi a più alta produttività. Se si arriva all’insolvenza i creditori recuperano poco e tardi. Sono, di fatto, molto meno protetti di quanto non avverrebbe se l’imprenditore sfortunato, ma non scorretto, venisse incentivato a dichiarare per tempo le difficoltà insorte e se l’impresa venisse confortata nella ricerca delle vie per superarle da curatori professionali, più che da magistrati inesperti della materia.

Dalle possibilità consentite dal contesto esterno, alla propensione: il profitto facile, non meno del rischio eccessivo, dissuade l’impresa dal ricercare l’efficienza e l’innovazione.

Le sollecitazioni, le pressioni, sull’impresa – Maffeo Pantaleoni diceva “la minaccia” – affinché essa impieghi nel modo più efficiente e innovativo le risorse che gestisce devono provenire dal mercato. Il mercato può indicare  la direzione dell’investimento. La condizione, tuttavia, è che il mercato sia reso più concorrenziale. La legge antitrust esiste dal 1990. Da allora, il grado medio di concorrenza nell’economia italiana, lungi dall’aumentare, è diminuito. Il tasso di crescita della produzione e della produttività è sceso, mentre il tasso di profitto si è innalzato. La legge va meglio applicata, dall’Autorità chiamata a interpretarla. Soprattutto, va riformata, andando oltre i riferimenti alla categoria “concorrenza” così come definita nel Trattato europeo. L’accezione del Trattato, e della legge italiana del 1990, è statica e non anche dinamica, è micro e non anche macroeconomica.

Concorrenza vuol dire costi e prezzi più bassi, per data struttura dell’economia. Ma concorrenza vuole soprattutto dire rimozione degli ostacoli che frenano le innovazioni e la riallocazione dei fattori produttivi. La dimensione dinamica della concorrenza è nella differenziazione – schumpeteriana – e poi nel livellamento – ricardiano – dei tassi di profitto tra le imprese:  nella spinta a far sì che le risorse, di capitale e di lavoro, siano rilasciate dalle produzioni divenute inefficienti, per indirizzarsi verso gli impieghi che l’innovazione rende in prospettiva più redditizi.

L’azione antitrust va svolta secondo priorità. Deve soprattutto assicurare concorrenza nei settori che offrono inputs strategici: gli sraffiani “prodotti base”, i quali entrano direttamente o indirettamente in tutte le produzioni. L’autorità non può demagogicamente cercare facili consensi aprendo pratiche casualmente innescate dalla protesta di gruppi di consumatori interessati solo al consumo di determinati beni, spesso molto a valle nella composizione della domanda finale. In una visione d’assieme, la promozione della concorrenza dovrebbe avere sempre chiaro il saldo netto delle forze che influiscono sulla pressione competitiva nel sistema produttivo. L’impegno contro le vie facili al profitto deve aver presenti anche le determinanti macroeconomiche degli utili. L’Autorità antitrust non può ignorarle. Una spesa pubblica gestita con rigore, un tasso di cambio che precluda illusori recuperi di competitività di prezzo, una progressione dei salari che non ecceda ma nemmeno segua con ritardo quella della produttività possono esprimere incentivi potenti – date le forme di mercato – affinché le imprese perseguano il profitto attraverso l’efficienza e l’innovazione, e non imponendo prezzi alti.

Bisogna minare ogni forma di difesa del “vecchio” rispetto al “nuovo”: monopoli, abusi di posizione dominante e intese, ma anche sussidi pubblici, collusioni fra capitale e lavoro, intrecci tra industria e finanza, norme protettive, comportamenti opportunistici. Da ultimo, va contrastata l’irresponsabilità. Concorrenza, in ultima analisi, è piena assunzione di responsabilità da parte dell’impresa. Il valore vero della concorrenza coincide con produttori che facciano conto in primo luogo su se stessi, escludano di percorrere scorciatoie al profitto, non pensino di trasferire ad altri le eventuali perdite.

Scolpire questi concetti nella Costituzione, superando la lettera del Trattato, sarebbe d’ausilio. Lo stesso primo comma dell’articolo 41 potrebbe recitare: “L’iniziativa economica privata è libera; chi la intraprende ne è esclusivo responsabile; deve svolgersi in condizioni di concorrenza”.

Il secondo comma dell’articolo 41 opportunamente vieta l’iniziativa economica privata in contrasto con la “utilità sociale”. Questa, tuttavia, va meglio definita, almeno in via interpretativa.

Di “utilità sociale” può darsi una accezione a un tempo estesa e precisa se si fa riferimento ai contributi dell’analisi economica sui cosiddetti “fallimenti del mercato”. Oltre al difetto di concorrenza, i casi in cui iniziativa privata, prezzi e mercati ledono l’interesse generale sono fondamentalmente due: carenze informative ed esternalità. Le informazioni che le imprese forniscono ai consumatori, ai lavoratori, alle altre imprese, al fisco possono essere parziali, asimmetriche, false. Le imprese possono non includere nel calcolo dei costi le diseconomie, i danni, che provocano a terzi.

In situazioni siffatte – e la casistica è vasta – i mercati esprimono prezzi che non riflettono i reali costi. Le risorse sono mal impiegate. L’utilità sociale è diminuita. Al fine di tutelarla, l’intervento dello Stato trova ampia giustificazione. La trasparenza su ciò che le imprese fanno, sul loro stato patrimoniale, deve essere massima, compatibilmente con il costo dell’assicurarla. Norme munite di sanzione per prevenire il danno ambientale, diritti negoziabili di inquinare per limitarlo, risorse pubbliche per ripararlo sono vie da seguire in modo sinergico, secondo un piano di difesa e recupero dell’“habitat”.

A cominciare dal livello costituzionale, è necessario quindi ripensare l’intera cornice di diritto positivo entro cui l’economia italiana opera. Urge un nuovo ordinamento, per una economia di mercato con regole: conforme ai dettami comunitari, sì, ma capace di corrispondere alle esigenze specifiche del sistema economico italiano così da innalzarne il potenziale di crescita e la capacità competitiva.

Vanno in particolare ricercate coerenza e complementarità fra gli obiettivi di fondo che si assegnano ai quattro grandi blocchi dell’ordinamento dell’economia che abbiamo evocato. Lo schema razionale strumenti/obiettivi, capace di evitare sovrapposizione e contraddizioni, sembra il seguente:

L’iniquità – il terzo elemento che con instabilità ed esternalità compone la triade negativa del capitalismo – evoca il ruolo dello Stato, nel suo rapporto con il mercato. In Italia è la Costituzione che chiama lo Stato a un’azione perequatrice delle opportunità, dei redditi, delle garanzie economiche: nella disciplina del rapporto di lavoro (art. 36), nella funzione redistributrice del bilancio pubblico, nell’offerta di istruzione (art. 34), sanità (art. 32), sicurezza sociale (art. 38). Ogni regresso dell’ordinamento in questi campi sarebbe contrario allo spirito e alla lettera della Carta costituzionale.

La Repubblica è “fondata sul lavoro”. I cittadini hanno “diritto al lavoro”. La cura e le tutele speciali che la Costituzione  (artt. 3, 4, 35-40) e più in generale l’ordinamento rivolgono al lavoro hanno una giustificazione economico-sociale fondamentale, che persiste. Essa è da ravvisare nello strutturale eccesso d’offerta di lavoro in una penisola avara di risorse naturali e da sempre densamente popolata, verso la quale si è fatto di recente cospicuo il flusso di manodopera immigrata. La larghezza d’offerta espone il lavoro a sottoccupazione, dipendenza, povertà, per non dire dei rischi per la salute, per la stessa vita. I morti sul lavoro dopo l’Unità  superano i caduti nella prima grande guerra. Non è quindi ammissibile che il lavoro venga in Italia trattato alla stregua delle merci scambiate nei mercati.

L’efficienza non è, di per sé, nemica dell’equità. Una finanza pubblica riequilibrata e una pubblica amministrazione orientata all’efficienza, oltre a  contribuire allo sviluppo dell’economia, agevolano la progressività dell’intervento statale, apprestano le risorse di bilancio necessarie alla spesa “civile”. Per non intaccare pensioni, sanità, istruzione la correzione delle uscite va incentrata su tre macrovoci di spesa pubblica, prossime al 20 per cento del prodotto interno lordo: consumi intermedi, monte salari, trasferimenti a imprese ed enti vari. Oltre che doveroso, uno sforzo senza precedenti, ancorché graduale, volto a contenere queste spese è tecnicamente possibile. Dall’impegno che la correzione richiede discende l’obbligo di interrogarsi, con grande attenzione ai conti, sulla compatibilità fra l’urgenza di limitare la spesa pubblica e un decentramento regionale, o federalismo, non indispensabile e nell’immediato certamente costoso.

Sul piano dei principi, né l’articolo 81 della Costituzione né gli stessi criteri di Maastricht sono sufficienti. Essi consentono qualsivoglia livello di spesa, anche inefficace e onerosa, purché finanziato da ultimo con tasse. Il principio di copertura, reso cogente, andrebbe integrato con vincoli concernenti peso relativo, composizione e qualità della spesa, pressione tributaria, funzionalità della P.A. La spesa poco utile o inefficiente non va coperta. Non va fatta. Il controllo ex-post e l’eventuale sanzione devono vertere sulla sostanza dello spreco di risorse, piuttosto che sul rispetto formale dei passaggi nel procedimento amministrativo di spesa. Priorità va data agli investimenti per le infrastrutture materiali e immateriali, da cui in notevole misura dipende la produttività dell’intera economia. Pubblici devono essere quei servizi la cui offerta lo Stato, a differenza dei privati, è in grado di sostenere nel tempo garantendone la qualità e minimizzandone i costi. Infine, esistono limiti alla sostenibilità macroeconomica della tassazione, inspecie se resa sperequata dall’evasione.