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L’Unione europea: federazione o confederazione?

di - 22 Marzo 2014
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Anche quello di ‘stato federale’ è un concetto descrittivo, che connota il connubio tra principio federale e forma statuale.  Tuttavia, essendo le varianti organizzative e funzionali degli esistenti stati federali tali e tante da impedire la costruzione di una teoria unitaria dello stato federale capace di adattarsi a tutte le diversità fenomeniche, l’approccio comparativo si è spesso accontentato di operare una ricognizione-classificazione dei sistemi politici federali.  Se è possibile rintracciare nel mondo antico molte tracce di istituzioni federali e di comunità politiche che si sono date ordinamenti giuridici ispirati a principi federali, è solo con la rivoluzione americana e con l’adozione e la ratifica della costituzione federale statunitense che si ha il big bang della modernità federale.
Alla luce di queste categorizzazioni si deve negare alla UE la qualifica di Stato federale. Ma pur riconoscendo che il federalismo abbraccia uno spettro assai più ampio di quello della statualità, esso è pervenuto in Europa ad un assetto federale o confederale? Al riguardo Habermas ha acutamente osservato che “l’Unione europea potrà stabilizzarsi a lungo termine soltanto se sotto la coazione degli imperativi economici farà i passi ormai indispensabili per coordinare le politiche essenziali, non nello stile burocratico-gabinettistico sinora consueto, ma percorrendo la via di una sufficiente ratificazione giuridica democratica. Invero noi saremo ingarbugliati nei prossimi passi politico-costituzionali, sinché ci muoveremo nello spettro concettuale oscillante fra confederazione di Stati e Stato federale o ci accontenteremo di respingere in maniera vaga questa alternativa”.[5]
L’Unione europea potrebbe allora essere qualificata come un esempio di federalismo senza federazione. Le sue origini, trasformazioni ed assetti istituzionali sono stati ispirati da idee e strategie federali senza tuttavia mai pervenire allo stato formale di federazione. La UE è quindi un puzzle intellettuale, un esperimento istituzionale che funziona, ma che resiste precise concettualizzazioni. La grande maggioranza degli osservatori ha finito per notare che la UE è un’istituzione sui generis, oppure che si tratta di un nuovo fenomeno all’interno della galassia federale. Molte teorie federali sono state costruite intorno a fenomeni storici di formazione di entità statali e la UE non è uno stato; si è preferito allora parlare più genericamente di processo di community-building, di un processo politico teso ad integrare comunità politiche ed ordinamenti giuridici. La combinazione dell’espandersi dell’arena di formazione di policies che è sottoposta alle procedure di voto a maggioranza qualificata e la persistenza del trattato internazionale come base giuridica hanno corrisposto alla trasformazione della Comunità in Unione, in cui elementi sovranazionali e federali coesistono con tratti confederali e intergovernativi. Ad uno sguardo generale l’assetto istituzionale vigente appare come un’unione federale decentralizzata di stati e cittadini. Pur non essendo uno stato, l’Unione europea è un’unione politica con elementi federali e confederali, un nuovo mix istituzionale che resiste alla classificazione in categorie forgiate su esperienze del passato e che spesso viene qualificato come una nuova forma di confederazione, o come un nuovo modello federale.
Prima di discutere le implicazioni politico-ideologiche della scelta tra federazione e confederazione per qualificare l’assetto corrente delle istituzioni della UE, nonché l’insufficienza della sola critica a questa dicotomia, passo a ricapitolare le principali trasformazioni avvenute all’ambizioso progetto di integrazione economico-funzionale giunte alle soglie della possibile costituzionalizzazione del diritto internazionale nello spazio giuridico europeo.

III. LE TRASFORMAZIONI DELLE ISTITUZIONI COMUNITARIE
Dove va  l’Europa?  Ancora una volta il processo di integrazione europea affronta una crisi costituzionale, che è anche una crisi d’identità. Mentre l’economia globale affronta nuove fasi recessive e le democrazie nazionali vengono insidiate da nuove forme di populismi autoritari, il più avanzato esperimento di cosmopolitismo istituzionalizzato[6] – l’Unione europea – si trova di fronte ad una semiparalisi organizzativa e ad uno spaesamento progettuale probabilmente senza precedenti.
È noto che la spinta principale all’avvio del processo di integrazione europea fu rappresentata dal secondo conflitto mondiale.  Tuttavia, come recita un celebre adagio hegeliano, ciò che è noto, non per questo è anche conosciuto.  Quello che gli scienziati della politica chiamano path-dependency, vale a dire il fatto che la realtà delle istituzioni è determinata dal processo che le ha generate, rivela una sorta di simbiosi tra equilibrio bipolare post-bellico e la capacità dei vecchi stati nazionali europei di negoziare soluzioni sovranazionali capaci di abbattere antiche barriere e di ridisegnare i confini delle comunità politiche.
Le visioni che si contesero il campo della progettualità europea furono notoriamente quella funzionalista e quella federalista.  La prima dispiegava una strategia per l’addomesticamento dei nazionalismi e dei protezionismi dei singoli ordinamenti statali erodendo le sovranità nazionali.  I padri fondatori del funzionalismo europeo (Schuman e Monet) condividevano la visione atlantica di Rostow[7], secondo cui la modernizzazione di Francia e Germania avrebbe creato una dinamica di spill over capace di portare all’allargamento dei mercati nazionali e, di conseguenza, alla stabilizzazione politica di stati che avevano sconvolto il pianeta con le loro politiche di potenza.  Il lucido programma funzionalista – politico sin dalle origini – prevedeva adattamenti graduali e periodici capaci di istituire prima una zona di libero scambio, quindi un’unione doganale, e di poi un mercato comune.  A questa prima fase di integrazione negativa – in cui il diritto comunitario si occupava principalmente di rimuovere le disposizioni nazionali che ostacolavano il commercio interstatale – si sarebbe poi giunti ad una fase di integrazione positiva in cui il diritto e le istituzioni comunitarie si occupano di coordinare le politiche nazionali mediante istituzioni comuni, per realizzare dapprima un’unione economica, quindi un’unione monetaria, per giungere infine ad una piena unione politico-costituzionale.  Pur promettendo un happy ending federalizzante, la narrazione funzionalista si è presentata sin dall’inizio come una sobria  ragione civilizzatrice rispetto agli eccessi delle passioni nazionalistiche[8].

Note

5.  J. HABERMAS, Questa Europa è in crisi, Bari, 2012, 51.

6.  così U. BECK, E. GRANDE, LEuropa cosmopolita, Roma 2006, p. 34.

7.  Su cui v. N. GILMAN, Mandarins of the Future. Modernization Theory in Cold War America, Baltimore & London, 2003, p. 50.

8.  J.H.H. WEILER, To Be A European Citizen: Eros and Civilization, in The Constitution of Europe, Cambridge 1999, pp. 324 ss.; tr. it. La Costituzione dellEuropa, Bologna 2003.

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