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L’istruttoria e il passato di una legge: i vecchi tribunali di commercio e le attuali sezioni d’impresa

di - 20 Ottobre 2012
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2. Da tribunale dei mercanti a tribunale del commercio
Per non intralciare la speditezza dei traffici, occorreva un giudice capace di far rientrare la lite tra gli eventi accidentali della vita economica. Quel giudice, naturalmente, doveva essere in grado di dare certezze molteplici: chiarezza e semplicità delle procedure, rapidità nella decisione, autorevolezza e indipendenza di giudizio. E doveva, poi, assicurare, con un processo rapido e come pretendevano i legislatori del tempo (nel bando per la creazione del Supremo Magistrato del Commercio Carlo di Borbone scriveva di opulenza, ricchezza, pubblica felicità, collegabili all’azione del nascente tribunale[10]), tutto ciò che gli economisti e i filosofi garantivano, nel clima d’ottimismo determinato dalla nascente stagione illuminista. In economia e nelle materie, anche giuridiche, che ne riflettevano l’importanza, si discuteva ampiamente di pubblica felicità[11]: quei temi legarono esperienze diverse, tennero insieme sul piano ideale uomini lontani, crearono convinzioni comuni. In una parola favorirono un clima propizio, adatto alle riforme: nella significativa esperienza del più vasto regno della Penisola, contemporaneamente alle nuove magistrature, si pensò ad una riorganizzazione normativa. Nel 1740 a Napoli si cercò di dar corpo ad una raccolta sistematizzata delle leggi civili, il cui tentativo, presto naufragato, prese il nome di Codice carolino. Il re che lo ispirò, Carlo di Borbone, sotto la guida sapiente di Bernardo Tanucci[12], aveva avviato un serio programma di riforme, che sarà completato proprio dal suo successore, Ferdinando IV[13]. Accompagnato da alterne fortune e non sempre assistito dalla necessaria decisione, ostacolato dall’opposizione di nobili ed ecclesiastici[14], esso mostrò il limite fondamentale del riformismo napoletano: la sua lentezza. Un esempio utile può essere rappresentato dalle vicende che precedettero la stesura di un Codice di Commercio, peraltro mai entrato in vigore come accadde anche per un analogo progetto, finalizzato a sistemare le leggi civili. Entrambi i piani furono pensati da Carlo, che, come primo re napoletano, dopo la lunga teoria di vicerè spagnoli e la più breve stagione di quelli austriaci, volle imprimere una svolta riformatrice alla gestione politica, se non di tutto il Regno, almeno della sua capitale. Un dato riassume la scarsa incisività e rapidità del programma borbonico: il Codice di Commercio, immaginato da Carlo nella prima metà del Settecento (intorno agli anni quaranta) soltanto alla fine del 1779 vide i propri lavori iniziare, per essere infine licenziato dal suo successore nel 1806. Inoltre, a completare il quadro di non voluta afasia[15], occorre porre l’accento come esso, curato da quel Michele De Jorio che fu uno tra i più importanti presidenti della corte di giustizia mercantile, stampati in soli venticinque esemplari, non entrò mai in vigore, al pari del Codice Civile del 1740, voluto da Carlo di Borbone e da Tanucci, restato allo stato di progetto e neppure steso in forma scritta[16].
Il Supremo Magistrato del Commercio, a Napoli e in Sicilia, segnò in maniera netta, anche se involontaria, il passaggio da una logica di status ad una più ampia. Carlo e gli ideatori tecnici di quel Tribunale, certo, non volevano sovvertire, con tutte le conseguenze del caso, l’assetto cetuale rappresentato dal particolarismo, molto ben simboleggiato dalle corti di giustizia dei mercanti[17]. Piuttosto esso s’inseriva nel programma riformista, come un oggettivo punto di forza.
In Toscana «anche le riforme municipali[18], giudiziarie[19], ecclesiastiche, contribuirono grandemente al risorgere dell’economia»[20].
Il dibattito, se non l’impulso riformatore, nella Penisola era animato dappertutto. A Milano, con l’azione di circoli illuministi che, come quelli napoletani, erano i più vivaci della Penisola[21]. In Piemonte (ove fu consigliere di Vittorio Amedeo III), a Genova e in Sardegna, con Domenico Alberto Azuni, che rappresentava come meglio non si potrebbe la commistione fra tradizione e modernità. La vicenda del prestito ad interesse non è che un esempio dell’opposizione alla logica d’impresa ed alla modernità, pronta ad esprimersi, sul piano soggettivo, con l’avversione al pensiero di Antonio Genovesi e dei philosophes, e su quello oggettivo con la polemica sul teatro, sui traffici ferroviari, l’uso di taluni alimenti: alcune di quelle resistenze, presenti alla fine del Settecento furono capaci di riaffiorare nel clima della Restaurazione[22]. Diversamente dal sassarese Azuni, un economista di Mondovì, Giambattista Vasco, sosteneva con un libro pubblicato nel 1792 (L’usura libera), idee liberali, apprezzate anche in Francia e lì portate a modello del ritardo anche teoretico del nostro Paese[23].
A Roma, come è noto, i vantaggiosi interessi offerti dalle banche e dai Monti di Pietà attiravano capitali ingenti e facevano della città un centro finanziario ed economico di un certo rilievo, nonostante la situazione poco felice dell’industria e dello stesso commercio.
Ma fu indubbiamente l’area meridionale della Penisola a presentare le trasformazioni più interessanti: anche la Toscana e la Lombardia, come si è detto, furono interessate da politiche riformiste, ma il Regno di Napoli, per le sue dimensioni e l’importanza, anche strategica nel Mediterraneo, si segnalò per l’impatto dei cambiamenti[24]. Lì operava quella che poteva considerarsi, almeno tra tutti gli Stati italiani, la più ampia e potente consorteria di giuristi: il ministero togato era stato capace di condizionare l’assetto complessivo della società napoletana, mutandone fin dal 1542, il profilo istituzionale[25].

Note

10.  ASR, SMC, Processi, b. 1, fs. 1.

11.  Aurelio Cernigliaro, Agricoltura e pubblica felicità. Dalla ragion economica alla ragion civile, in Frontiera d’Europa, 2000, 2, pp. 115-165. Giuseppe Ricuperati, I volti della pubblica felicità. Storiografia e politica nel Piemonte settecentesco, Meyer, Torino 1989.

12.  Fu tuttavia lo stesso ministro ad abbandonare l’idea di un Codice, assecondando le resistenze di giuristi ed ecclesiastici, favorevoli gli uni e gli altri al mantenimento del diritto comune, che il nuovo sistema avrebbe scardinato. Il professore pisano, protagonista per quasi mezzo secolo della politica napoletana, finì per ritenere, infatti, che la pur farraginosa normazione esistente e il legislatore (ossia lui stesso, oltre al sovrano) avrebbero sopperito alle inevitabili mancanze con la loro autorevolezza e le risorse sapienziali di cui disponevano: Ajello, Arcana juris. Diritto e politica nel Settecento napoletano, Jovene, Napoli 1976, pp. 29-108 e spec. pp. 53-66. Rinvio, infine, alla nt. 14.

13.  Il figlio di Carlo, sotto l’impulso di Tanucci, emanò nel 1774 una legge che imponeva ai magistrati di Napoli di motivare le loro sentenze e continuò il programma paterno tendente a dotare la città e il suo entroterra di segni tangibili del nuovo dominium. Si veda Ajello, La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone. La fondazione ed il «tempo eroico» della dinastia, in Storia di Napoli, Soc. Ed. Storia di Napoli, Napoli 1972, vol. VII, pp. 459-702. Per il provvedimento che istituiva l’obbligo di dar conto delle ragioni delle decisioni giurisprudenziali rinvio ad Ajello, Il tempo storico delle «Riflessioni». Nota critica a Gaetano Filangieri, Riflessioni politiche su l’ultima legge del sovrano, Morelli, Napoli 1774, riedizione anastatica Bibliopolis, Napoli 1982, e mi permetto di segnalare il mio Sentenze senza motivi. L’opposizione delle magistrature napoletane ai dispacci del 1774, Jovene, Napoli 2000.

14.  Ajello, Legislazione e crisi del diritto comune nel regno di Napoli: il tentativo di legislazione carolino, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico, 1, 1972, pp. 177-205; Giovanni Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, Il Mulino, Bologna, 1976, I, pp. 92- 5 e spec. 207-9.

15.  Sarebbe ingeneroso limitarsi a registrare questi dati e la loro negatività, senza considerare le reali, oggettive difficoltà e le indecisioni degli stessi leaders napoletani, per esempio Tanucci: un quadro descritto da Ajello in Il problema della riforma, cit. in nt. 9, e in Il preilluminismo giuridico. Il problema della riforma giudiziaria e legislativa nel Regno di Napoli durante la prima metà del secolo XVIII, II., Jovene 1965, e capace di spiegare il momentaneo fallimento dell’azione dei riformatori meridionali. Richiamo le pp. 143-4 di Ajello, Arcana juris, cit. in nt. 12, perché chiariscono in cosa consistesse «il timore di rompere un meccanismo insostituibile», condiviso da uomini come Ferdinando Galiani e Bernardo Tanucci.

16.  Segnalo la prossima pubblicazione di un Dizionario biografico dei giuristi italiani (sec. XII-XX) curato, per il Mulino di Bologna, da Italo Birocchi, Ennio Cortese, Antonello Mattone e Marco Nicola Miletti e rinvio alla voce De Jorio Michele.

17.  Più consapevoli e voluti saranno gli interventi successivi: il maggiore fu il già citato provvedimento tanucciano sulla motivazione delle sentenze, adottato a Napoli in funzione antimagistratuale, due anni dopo l’analogo atto del Cancelliere francese Maupeou, emanato nel 1772 per arginare lo strapotere dei giudici di Parigi.

18.  Contro «l’accentramento… che aveva ridotto la vita amministrativa a semplice apparenza, la ricostituzione del comune venne… stimolando lo zelo e la premura degli interessati nella buona condotta economica degli affari comunitativi, sottraendo all’arbitrio dello Stato e della città dominante gli interessi delle comunità e delle provincie » (p. 23 s).

19.  «I nuovi ordinamenti giudiziari stabiliti da Pietro Leopoldo, con i quali veniva a cessare la confusione, nella persona del giusdicente, della funzione di governatore locale con quello di rappresentante della giustizia, giovarono indirettamente all’economia, sia col dare maggiore garanzia al diritto di proprietà e a quelli da esso derivanti, sia col distrarre il meno possibile gli agricoltori dai lavori campestri, data la più semplice organizzazione dei tribunali provinciali e distrettuali e la semplicità della procedura posta in vigore» (p. 24).

20.  Carlo Di Nola, Politica economica e agricoltura in Toscana nei secoli 15-19, D. Alighieri, Genova 1948, a p. 23, scrive: «Circa il progresso finanziario del paese, è da rilevare che, all’avvento di Pietro Leopoldo, il debito pubblico ammontava (1767) a 87.589.775 di lire toscane; esso venne ridotto, nel 1789, a 20.764.354». Inoltre «con le riforme effettuate… risultava un avanzo di L. 1.547.301»; cfr. G. Cambray Digny, Cenni sui pericoli sociali in Toscana, in Atti dell’Accademia dei Georgofili, t. XXVII, 1849; Floriana.Colao, La giustizia criminale senese nell’età delle riforme leopoldine, Giuffrè, Milano 1989.

21.  Cavanna, La codificazione penale: le origini lombarde, Giuffrè, Milano 1987; Stefano Solimano, Paolo Risi e il processo penale (1766), Giuffrè, Milano 2000; Formare il giurista: esperienze nell’area lombarda tra Sette e Ottocento, (a cura di Maria Gigliola di Renzo Villata), Giuffrè, Milano 2004: si veda in part. il saggio introduttivo della Curatrice e di Loredana Garlati Giugni, Molto rumore per nulla? L’abolizione della tortura tra cultura universitaria e illuminismo giuridico: le note critiche di Antonio Giudici a “Dei delitti e delle pene”, in vol. misc. cit. in questa nota, pp 264-322.

22.  Quanto ad Azuni e alle critiche a Genovesi, rinvio alla voce Usura, in Dizionario Universale ragionato della giurisprudenza, Società Tipografica, Nizza 1788, IV. Per il riprodursi d’orientamenti passatisti in pieno Ottocento, richiamo l’esperienza intellettuale di Monaldo Leopardi, forse una delle più significative anche se non l’unica: al proposito si veda di quest’ultimo La giustizia nei contratti e l’usura, Soliani, Modena 1834. Infine Gaetano Cozzi, Note su Carlo Goldoni. La società veneziana e il suo diritto, in Atti dell’Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti, CXXXVII, 1978-9; Giorgio Zordan, Il dottorato padovano di Carlo Goldoni tra fonti documentarie ed autorappresentazione, in Quaderni per la storia dell’Università di Padova, 30, 1997, pp. 19-56; Serena Dainetto, «Se l’invenzione è tutt’opera infernale». Immaginario, turismo e letteratura da Belli a Campanile, in La maravigliosa invenzione. Strade ferrate nel Lazio, 5. Gangemi, Roma 2002, p. 129 s.

23.  Su Giambattista Vasco si veda la Voce a lui dedicata da Nouvelle Biographie universelle ancienne et moderne, a c. di Louis Gabriel Michaud, Delagrave et C., Paris, s. d., p. 671 s.

24.  Salvatore Rotta, Idee di riforma nella Genova settecentesca e la diffusione del pensiero di Montesquieu, in Il movimento operaio e socialista in Liguria, VIII, 1961, pp. 205-84. Infine, per un’evoluzione in senso nobiliare della mentalità forense e, in generale, per una sintesi sulla nobilitazione dei togati, si veda di Orazio Abbamonte, Dialettica degli status e rivendicazioni nobiliari a Napoli nel 1734, in Archivio Storico per le province napoletane, Napoli 1985, pp 355-375.

25.  Si veda Aurelio Cernigliaro, Sovranità e feudo nel Regno di Napoli: 1505-1557, Jovene, Napoli 1984, II voll., passim e spec. vol. II., pp. 389-568, dedicate al Parlamento generale che «contribuì, non solo formalmente, alle vicende del Regno, rispecchiandone puntualmente il clima politico, giuridico, economico e sociale» (p. 391); ID., Patriae leges privatae rationes. Profili storico-istituzionali del Cinquecento napoletano, Jovene, Napoli 1988, per i disordini contro il tentativo di introdurre, nel 1547, l’inquisizione a Napoli e, in generale, per la ricostruzione della dialettica politica e cetuale; Renata Pilati, Officia principis. Politica e amministrazione a Napoli nel Cinquecento, Jovene, Napoli 1994, passim, in part. pp. 265 ss., 276 ss., 307 s. e il cap. IV; Raffaele Ajello, Una società anomala. Il programma e la sconfitta della nobiltà in due memoriali cinquecenteschi, Esi, Napoli 1996, passim e spec. pp. 31-55. Richiamo i testi indicati nella nt. 26. Accanto all’ascesa dei giuristi, occorre considerare l’altra frazione del mondo borghese: rinvio dunque ad Aurelio Cernigliaro, Sovranità e feudo, cit. in questa nota, che osserva come l’ordine baronale «era indebolito nella capitale, a vantaggio di un ceto mercantile, evidentemente protetto, almeno per tutta la prima metà del Cinquecento, dalla Corona e dall’Amministrazione» (p. 504). Si veda l’intero paragrafo dedicato all’”antagonismo del ceto mercantile” (p. 504-510).

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