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L’istruttoria e il passato di una legge: i vecchi tribunali di commercio e le attuali sezioni d’impresa

di - 20 Ottobre 2012
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3. Competenza, composizione, produttività e stile del vecchio giudice speciale
I nobili, che altrove, e non solo in Italia, costituivano l’ossatura del governo, oltre che della comunità[26], avevano subìto a Napoli una clamorosa sconfitta: espulsi dal Collaterale, furono sostituiti, nel maggiore organo amministrativo del Regno come nella vita pubblica, in molte delle loro funzioni dagli uomini di formazione forense. Mentre a Venezia[27], a Genova[28], a Firenze[29], nella struttura anche politica della societas, si riconosceva il ruolo della nobiltà, nel più meridionale dei nostri regni, dal Cinquecento, partiva un processo che avrebbe portato i giuristi al centro della vita politica.
Oltre ai nobili, nella geografia del particolarismo d’antico regime, ove più ove meno[30], i togati occupavano un posto preminente. Subito dopo, i mercanti; le loro corti di giustizia costituivano, infatti, il modello tipico della giurisdizione speciale: il Tribunale dell’Arte della lana e della seta a Napoli, poi il Supremo Magistrato anche in Sicilia, il Tribunale romano, fiorentino o veneziano di Commercio, le più antiche Logge nell’Italia Centrale e Settentrionale, il Consulat catalano, tutti insieme disegnavano, con la straordinarietà delle loro procedure e dei loro tempi, il profilo della giurisdizione speciale. I confini e il contenuto di quel modo di dicere jus sono il risultato delle semplici risposte che, sulla scorta delle risultanze processuali e delle indicazioni bibliografiche, possono essere date in ordine agli elementi che caratterizzavano il giudizio mercantile.
E così, anzitutto, occorre dire che la competenza era amplissima: tutti gli “atti di commercio”, quindi quasi ogni contratto, e, di fatto, un’area larga quanto l’intero campo delle obbligazioni, potevano essere conosciuti dalle corti mercantili[31]. La procedura si esauriva in pochi giorni e in ogni caso in tempi non superiori a quelli richiesti per concludere o avviare una trattativa o un vero e proprio affare[32].
A completare il quadro d’eccezionalità di quella corte di giustizia, l’estrazione sostanzialmente non togata dei suoi componenti: ne facevano parte mercanti, banchieri, coloro che potevano vantare una perizia certa nelle materie economiche e, infine, giuristi che dovevano essere compatibili con il mondo del commercio e dunque capaci di mantenere una sufficiente autonomia dal ceto d’appartenenza. Francesco Ventura, ideatore e primo presidente del Supremo Magistrato del Commercio, ne è l’esempio: giurista politico, fu capace, per le sue entrature a Corte, di condizionare molte scelte della vita pubblica ai tempi di Carlo di Borbone[33].
Si è già detto di Michele De Jorio, capo di quella magistratura nei primi anni dell’Ottocento[34]: uomo d’estrazione forense ma di formazione ampia, giurista colto e attento alla dimensione europea, di certissima competenza finanziaria ed economica (come racconta Giuseppe Maria Galanti[35]), fu curatore di un’opera monumentale in quattro volumi di oltre mille pagine l’uno, quasi un codice universale del diritto della navigazione e del commercio o, quantomeno, un compendio della materia. Chiamato a dare risposte adeguate a richieste giuridiche ed economiche né episodiche, né soggettive (si trattava di situazioni comuni, quali il debito cambiario o capaci di interessare tutti i consociati, come la compravendita di beni alimentari), il giudice commerciale, peraltro autorevolmente rappresentato, si segnalò quasi sempre e quasi ovunque come un modello di operosità. Con un’eccezione: ai suoi albori, il Supremo Magistrato del Commercio mostrò una laboriosità inferiore alle attese e lo stesso re rivolse una stringente critica ai componenti il collegio giudicante[36].
Le perplessità del sovrano si spiegano con la necessità di richiamare all’ordine una corte di giustizia che, pur non essendo di soli giuristi, mostrava di non sapere o volere aderire ai desideri del potere centrale, verso cui si poneva come ogni altro giudice togato, ossia in rapporto dialettico e non strumentale.
Si trattò di un fatto di una certa rilevanza perché nel riformismo del Settecento un peso decisivo era assegnato all’istituzione dei tribunali di commercio. I governi del tempo riconoscevano a quelle corti di giustizia un compito che andava al di là delle mere funzioni giudiziarie, come dimostra, per esempio, la storia del Supremo Magistrato del Commercio. Le vicende, la composizione, la qualità dei componenti dei Collegi giudicanti nella materia mercantile, indicano senza dubbio quali attese politiche vi si collegassero[37]. A queste bisogna aggiungere le aspettative della comunità o di una parte cospicua di essa: il loro livello doveva essere molto alto, a giudicare dalla durata dei giudizi innanzi al tribunale dei mercanti. I consociati confidavano, infatti, nella rapidità dei procedimenti per dare un corso sicuro ai loro affari. La realtà giudiziaria realizzava le istanze non solo delle parti processuali, ma dell’intero ceto mercantile: e così, si può affermare che il tempo medio di risoluzione delle controversie (considerando anche quanto occorreva per decidere sul gravame) fosse non superiore ai venti giorni. Il dato è desumibile dalle sentenze ordinate nell’Archivio di Stato di Roma, di Napoli, di Firenze, di Venezia[38] e dagli elementi ricavabili dalle raccolte di giurisprudenza francesi ed italiane[39]. E dunque la durata dei giudizi mercantili può essere ritenuta, per la sua costante rilevazione in luoghi e ambienti diversi, un aspetto tipico di quella giurisdizione.
Giudice laborioso e laico, il tribunale commerciale ebbe una certa autorevolezza sia sul piano politico, sia su quello giuridico, come prova il suo ruolo primario nell’opposizione alla legge che nel 1774 istituiva a Napoli l’obbligo di motivare le sentenze[40] e il numero non troppo rilevante di impugnazioni alle sue decisioni di prima istanza[41].

Note

26.  Werner Sombart, Il Borghese: lo sviluppo e le fonti dello spirito capitalistico, Milano Longanesi, 1983, con una presentazione di F. Ferrarotti.

27.  Piero Del Negro, Venezia allo specchio. La crisi delle istituzioni repubblicane negli scritti del patriziato (1670-1797), in Studies on Voltaire and the Eighteenth Century, II, 1980. Il saggio evidenzia come i nobili veneziani fossero consapevoli sia del declino della Repubblica e dell’aristocrazia sia della necessità di ripensarne funzioni e struttura: lo dimostrano i loro memoriali indicati, alle pp. 9-26, dello scritto.

28.  Rodolfo Savelli, La Repubblica oligarchica: legislazione, istituzioni e ceti a Genova nel Cinquecento, Milano 1981. Sulla situazione genovese, Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, Einaudi, Torino 1982, p. 141. Una riflessione convincente sulla nobiltà genovese è in Rodolfo Savelli, Carlo Bitossi, Giorgio Doria, Edoardo Grendi, La repubblica aristocratica dei genovesi. Politica, carità e commercio fra Cinque e Seicento, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 13-48. In part. alla dialettica tra nobili e borghesi sono dedicate le pp. 31-8. Cfr., quanto alle vicende di natura politica ed istituzionale, Vito Piergiovanni, Il Senato della Repubblica di Genova nella Riforma di Andrea Doria, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza, IV, 1, Genova, 1965, pp. 230-275. Infine ID., Banchieri e falliti nelle ‘Decisiones de mercatura’ della Rota civile di Genova, in Diritto comune, diritto commerciale, diritto veneziano a cura di K. Nehlsen-von- Stryk-D. Norr, Centro Tedesco di Studi Veneziani, Venezia, 1985, pp. 17-38.

29.  Franco Angiolini, Nobles et marchands dans l’Italie moderne, in Cultures et formations négociantes dans l’Europe moderne, Éditions de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris 1995, a cura di Franco Angiolini e Daniel Roche, p. 110.

30.  Per la preponderanza del ministero togato a Napoli, richiamo i libri indicati nella nota 17 e segnalo, di Renata Pilati, La fortuna cinquecentesca del ceto ministeriale, in Frontiera d’Europa, 1, 1999, pp. 93-110. Per la situazione siciliana, rinvio a Vittorio Sciuti Russi, Stabilità ed autonomia del ministero togato siciliano in un dibattito del secolo XVIII, in Rivista storica italiana, 1975, pp. 47-86; ID., Astrea in Sicilia. Il ministero togato nella società siciliana del secolo XVI e XVIII, Jovene, Napoli 1983. Per i caratteri del patriziato veneziano e genovese, e per i problemi istituzionali nelle due repubbliche, rinvio ai saggi di Del Negro, Piergiovanni e Savelli indicati nelle note 27 e 28.

31.  Un’idea di quanto fosse ampia la definizione di “atto di commercio” è nella voce Commercio e Commercianti, in Enciclopedia del Negoziante ovvero Gran Dizionario del Commercio, dell’Industria del Banco e delle Manifatture, Antonelli, Venezia 1841, vol. 3, p. 531 s.

32.  Rinvio, per i dati di dettaglio, alle note 35, 37 e 38.

33.  Oltre al nipote di Gaetano Argento, facevano parte del Tribunale, tre nobili come “Cavalieri ministri”, tre ministri togati (Carlo Puoti, Pietro Contegna e D. Matteo Ferrante), due ministri negozianti, un referendario e un segretario.

34.  Richiamo la nota 15.

35.  Giuseppe Maria Galanti, Testamento forense, Graziosi, Venezia 1806. Si veda inoltre la riedizione dell’opera curata da Ileana Del Bagno, Di Mauro, Cava dei Tirreni 2003, ad ind. e la ricca introduzione.

36.  ASN, Effemeridi, fogli sciolti, Dispaccio 7 luglio 1742 a Francesco Ventura.

37.  Richiamo ancora una volta, come modello di una tale situazione, il Supremo Magistrato del Commercio, attivo dalla metà del Settecento a Napoli e a Palermo.

38.  Sono dati reperibili agevolmente nell’Archivio di Stato veneziano e in quello di Firenze, meno facilmente a Roma e con molta difficoltà a Napoli, per l’ordine originario e i criteri con cui erano tenuti i fascicoli di causa e organizzate le cancellerie: mirabile la cura del tribunale veneziano che consente analisi quantitative e statistiche di una certa ampiezza temporale, di cui darò conto in un prossimo libro sulle magistrature commerciali. Si veda, per un confronto tra le istituzioni giudiziarie e cetuali del Nord della Penisola e meridionali, Orazio Abbamonte, Tribunali di commercio nel regno di Napoli tra decennio e restaurazione in Il Mezzogiorno preunitario: economia, società istituzioni (a cura di Angelo Massafra), Dedalo, Bari, 1988, pp 507-517, che segnala le ragioni di tipo economico e politico, capaci di ostacolare lo sviluppo delle istituzioni giudiziarie e corporative del regno di Napoli.

39.  Si rinvia alle raccolte di decisioni di Albisinni, Agresti, Dalloz, Merlin. In particolare si veda di Dalloz, Giurisprudenza Generale di Francia in materia civile, commerciale, criminale, amministrativa e di diritto pubblico, Tipografia dell’Ateneo, Napoli 1833, XII, pp. 488-9: i dati indicano che in poco più di tre mesi una vicenda di usura e frode veniva decisa dai giudici di Parigi e di Colmar.

40.  ASN, Casa Reale Antica, fascicolo 912.

41.  In ASR si possono consultare le buste del Tribunale di Commercio, per gli anni 1810-1814: anche un esame sommario consente di ritenere che le impugnazioni avevano quasi sempre lo scopo di allontanare l’effettiva esecuzione dell’obbligo contrattuale. Si consulti in particolare la busta 5.

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