L’istruttoria e il passato di una legge: i vecchi tribunali di commercio e le attuali sezioni d’impresa

Sommario 1. Il presente è storico: cenni sulla giustizia commerciale tra antico e nuovo regime 2. Da tribunale dei mercanti a tribunale del commercio 3. Competenza, composizione, produttività e stile del vecchio giudice speciale 4. Giudici specializzati o eguali? 5. La preparazione di una riforma

1. Il presente è storico: cenni sulla giustizia commerciale tra antico e nuovo regime
La dialettica passato-presente è tema che dovrebbe interessare il legislatore più attento, perché strumentale all’azione politica. Gli effetti di una legge, misurabili in concreto con i dati giurisprudenziali, amministrativi o privati, possono essere previsti, almeno in parte, ricorrendo alle analogie offerte dall’esperienza storica. È in una tale precisa accezione (ossia per quanto riesce a dare in termini di previsioni normative) che il rapporto tra l’attualità e le situazioni già consolidate è considerato in queste pagine. Che si aprono con una domanda: cercare le tracce di ciò che è stato in quanto ora accade (per ricavarne indicazioni per il tempo a venire) è attività per economisti, futurologi, storici oppure può trovare spazio nell’istruttoria di una legge?
La funzione predittiva del passato, così utile ad individuare la reiterazione dei fenomeni (le serie statistiche e i cicli storici), o i precedenti politici, sembra essere esclusa dalle indagini del legislatore[1]. Eppure il controllo delle sopravvenienze, l’azione di contrasto alla conflittualità giuridica o addirittura sociale che una legge è capace di generare, può realizzarsi in maniera soddisfacente, seppure parziale, con uno studio serrato delle assonanze, delle similitudini tra presente e passato. Se la previsione del futuro, per la sua incertezza, resta appannaggio delle scienze esatte, la protezione del presente impone una qualche relazione con gli antecedenti storici.
Le “sezioni d’impresa”, introdotte di recente all’interno dei Tribunali civili, offrono materia sufficiente perché s’indaghi, se non sulla preparazione del provvedimento normativo[2], almeno sulle condizioni che favorirono il sorgere e il perpetuarsi delle antiche magistrature di commercio. La nuova legge richiama alla mente una corte speciale, che fu il prototipo della giurisdizione non ordinaria e può essere in un certo senso un modello per le odierne sezioni specializzate, suscettibili di esservi comparate ratione materiae. Il Tribunale di Commercio rappresentò, infatti, a diversi livelli (tempi della giustizia, composizione dell’organo giudicante, forma della procedura, motivazione della decisione) un elemento di modernizzazione dell’esperienza non solo giuridica. Nelle intenzioni e nelle convinzioni di chi si occupava a vario titolo della legge, il rapporto tra pubblica felicità e strutture giudiziarie era diretto, almeno nel settore della giurisprudenza commerciale. La materia mercantile, all’epoca qui presa in considerazione, richiedeva incertezze minime sul piano legislativo e dell’interpretazione. Gli anni che chiusero l’Antico Regime e aprirono davvero l’età moderna, furono tempi, in campo pratico, di traffici ampi e dell’affermazione piena, sul piano teorico, d’ideologie mercantilistiche.
Tra Sette e Ottocento si affermò, senza possibilità d’incertezze, l’idea del denaro come misura universale delle cose[3] e del mercato come luogo che identificava non solo le singole città, ma il mondo intero[4]. La fine dell’Ancient Régime aveva sgomberato il campo da ogni dubbio su quali erano state le dinamiche e i gruppi sociali prevalenti: con l’affermazione politica dei ceti medi, dei mercanti, il divario indicato dall’abate Sieyès (il terzo stato, che era tutto sul piano economico, non contava nulla su quello politico) era stato colmato e la borghesia, portata a termine la sua ascesa, era ormai al centro della scena[5].
Fu tuttavia nella prima metà del Settecento che quelle idee moderniste si profilarono: a Napoli, per esempio, come in Sicilia, le politiche riformiste riservarono un ruolo di primo piano alle Corti della giustizia mercantile. Nel resto della Penisola, e soprattutto a Nord, operavano da molti secoli, e con più forza rispetto al Sud[6], i tribunali delle arti: si trattava di giudici di settore che, nella società distinta in status o ceti, non solo perpetuavano la logica del pluralismo d’antico regime, ma realizzavano le aspettative di gruppi sociali molto organizzati e in attesa di risposte anche in campo giudiziario. Un pluralismo che era relativo sia alla legislazione sia alla sfera giurisdizionale. E così, ad ogni gruppo socialmente rilevante, corrispondeva un complesso normativo e una corte di giustizia speciale. Tra questi ultimi, il tribunale di commercio ebbe un rilievo particolare. Le logge dell’Italia centrale, e le corti mercantili in ogni dove, assolvevano dunque ad una funzione sociale di tipo conservativo: in altre parole, erano il riflesso di una comunità divisa in ordini e caratterizzata fin nel profondo dall’esistenza di società intermedie (dei mercanti innanzitutto, e poi dei giuristi di ogni funzione[7], degli ecclesiastici e di tutti gli altri status)[8].
A metà Settecento, vi fu uno scarto qualitativo nella politica giudiziaria di settore: nel 1739 Carlo di Borbone istituì a Napoli, prima il Supremo Magistrato di Commercio – il 30 ottobre – e poi, il 29 dicembre, il Consolato di Terra e di Mare[9]. Con i nuovi organi della giustizia mercantile, il sovrano intendeva affrontare temi e risolvere problemi di natura opposta a quelli tipici del mondo d’antico regime. Non si trattava di mettere a disposizione di un solo ceto, seppure il più dinamico, un sistema normativo e giudiziario efficace, ma di approntare per tutta la societas il rimedio della soluzione delle controversie influenti sulla situazione economica.

2. Da tribunale dei mercanti a tribunale del commercio
Per non intralciare la speditezza dei traffici, occorreva un giudice capace di far rientrare la lite tra gli eventi accidentali della vita economica. Quel giudice, naturalmente, doveva essere in grado di dare certezze molteplici: chiarezza e semplicità delle procedure, rapidità nella decisione, autorevolezza e indipendenza di giudizio. E doveva, poi, assicurare, con un processo rapido e come pretendevano i legislatori del tempo (nel bando per la creazione del Supremo Magistrato del Commercio Carlo di Borbone scriveva di opulenza, ricchezza, pubblica felicità, collegabili all’azione del nascente tribunale[10]), tutto ciò che gli economisti e i filosofi garantivano, nel clima d’ottimismo determinato dalla nascente stagione illuminista. In economia e nelle materie, anche giuridiche, che ne riflettevano l’importanza, si discuteva ampiamente di pubblica felicità[11]: quei temi legarono esperienze diverse, tennero insieme sul piano ideale uomini lontani, crearono convinzioni comuni. In una parola favorirono un clima propizio, adatto alle riforme: nella significativa esperienza del più vasto regno della Penisola, contemporaneamente alle nuove magistrature, si pensò ad una riorganizzazione normativa. Nel 1740 a Napoli si cercò di dar corpo ad una raccolta sistematizzata delle leggi civili, il cui tentativo, presto naufragato, prese il nome di Codice carolino. Il re che lo ispirò, Carlo di Borbone, sotto la guida sapiente di Bernardo Tanucci[12], aveva avviato un serio programma di riforme, che sarà completato proprio dal suo successore, Ferdinando IV[13]. Accompagnato da alterne fortune e non sempre assistito dalla necessaria decisione, ostacolato dall’opposizione di nobili ed ecclesiastici[14], esso mostrò il limite fondamentale del riformismo napoletano: la sua lentezza. Un esempio utile può essere rappresentato dalle vicende che precedettero la stesura di un Codice di Commercio, peraltro mai entrato in vigore come accadde anche per un analogo progetto, finalizzato a sistemare le leggi civili. Entrambi i piani furono pensati da Carlo, che, come primo re napoletano, dopo la lunga teoria di vicerè spagnoli e la più breve stagione di quelli austriaci, volle imprimere una svolta riformatrice alla gestione politica, se non di tutto il Regno, almeno della sua capitale. Un dato riassume la scarsa incisività e rapidità del programma borbonico: il Codice di Commercio, immaginato da Carlo nella prima metà del Settecento (intorno agli anni quaranta) soltanto alla fine del 1779 vide i propri lavori iniziare, per essere infine licenziato dal suo successore nel 1806. Inoltre, a completare il quadro di non voluta afasia[15], occorre porre l’accento come esso, curato da quel Michele De Jorio che fu uno tra i più importanti presidenti della corte di giustizia mercantile, stampati in soli venticinque esemplari, non entrò mai in vigore, al pari del Codice Civile del 1740, voluto da Carlo di Borbone e da Tanucci, restato allo stato di progetto e neppure steso in forma scritta[16].
Il Supremo Magistrato del Commercio, a Napoli e in Sicilia, segnò in maniera netta, anche se involontaria, il passaggio da una logica di status ad una più ampia. Carlo e gli ideatori tecnici di quel Tribunale, certo, non volevano sovvertire, con tutte le conseguenze del caso, l’assetto cetuale rappresentato dal particolarismo, molto ben simboleggiato dalle corti di giustizia dei mercanti[17]. Piuttosto esso s’inseriva nel programma riformista, come un oggettivo punto di forza.
In Toscana «anche le riforme municipali[18], giudiziarie[19], ecclesiastiche, contribuirono grandemente al risorgere dell’economia»[20].
Il dibattito, se non l’impulso riformatore, nella Penisola era animato dappertutto. A Milano, con l’azione di circoli illuministi che, come quelli napoletani, erano i più vivaci della Penisola[21]. In Piemonte (ove fu consigliere di Vittorio Amedeo III), a Genova e in Sardegna, con Domenico Alberto Azuni, che rappresentava come meglio non si potrebbe la commistione fra tradizione e modernità. La vicenda del prestito ad interesse non è che un esempio dell’opposizione alla logica d’impresa ed alla modernità, pronta ad esprimersi, sul piano soggettivo, con l’avversione al pensiero di Antonio Genovesi e dei philosophes, e su quello oggettivo con la polemica sul teatro, sui traffici ferroviari, l’uso di taluni alimenti: alcune di quelle resistenze, presenti alla fine del Settecento furono capaci di riaffiorare nel clima della Restaurazione[22]. Diversamente dal sassarese Azuni, un economista di Mondovì, Giambattista Vasco, sosteneva con un libro pubblicato nel 1792 (L’usura libera), idee liberali, apprezzate anche in Francia e lì portate a modello del ritardo anche teoretico del nostro Paese[23].
A Roma, come è noto, i vantaggiosi interessi offerti dalle banche e dai Monti di Pietà attiravano capitali ingenti e facevano della città un centro finanziario ed economico di un certo rilievo, nonostante la situazione poco felice dell’industria e dello stesso commercio.
Ma fu indubbiamente l’area meridionale della Penisola a presentare le trasformazioni più interessanti: anche la Toscana e la Lombardia, come si è detto, furono interessate da politiche riformiste, ma il Regno di Napoli, per le sue dimensioni e l’importanza, anche strategica nel Mediterraneo, si segnalò per l’impatto dei cambiamenti[24]. Lì operava quella che poteva considerarsi, almeno tra tutti gli Stati italiani, la più ampia e potente consorteria di giuristi: il ministero togato era stato capace di condizionare l’assetto complessivo della società napoletana, mutandone fin dal 1542, il profilo istituzionale[25].

3. Competenza, composizione, produttività e stile del vecchio giudice speciale
I nobili, che altrove, e non solo in Italia, costituivano l’ossatura del governo, oltre che della comunità[26], avevano subìto a Napoli una clamorosa sconfitta: espulsi dal Collaterale, furono sostituiti, nel maggiore organo amministrativo del Regno come nella vita pubblica, in molte delle loro funzioni dagli uomini di formazione forense. Mentre a Venezia[27], a Genova[28], a Firenze[29], nella struttura anche politica della societas, si riconosceva il ruolo della nobiltà, nel più meridionale dei nostri regni, dal Cinquecento, partiva un processo che avrebbe portato i giuristi al centro della vita politica.
Oltre ai nobili, nella geografia del particolarismo d’antico regime, ove più ove meno[30], i togati occupavano un posto preminente. Subito dopo, i mercanti; le loro corti di giustizia costituivano, infatti, il modello tipico della giurisdizione speciale: il Tribunale dell’Arte della lana e della seta a Napoli, poi il Supremo Magistrato anche in Sicilia, il Tribunale romano, fiorentino o veneziano di Commercio, le più antiche Logge nell’Italia Centrale e Settentrionale, il Consulat catalano, tutti insieme disegnavano, con la straordinarietà delle loro procedure e dei loro tempi, il profilo della giurisdizione speciale. I confini e il contenuto di quel modo di dicere jus sono il risultato delle semplici risposte che, sulla scorta delle risultanze processuali e delle indicazioni bibliografiche, possono essere date in ordine agli elementi che caratterizzavano il giudizio mercantile.
E così, anzitutto, occorre dire che la competenza era amplissima: tutti gli “atti di commercio”, quindi quasi ogni contratto, e, di fatto, un’area larga quanto l’intero campo delle obbligazioni, potevano essere conosciuti dalle corti mercantili[31]. La procedura si esauriva in pochi giorni e in ogni caso in tempi non superiori a quelli richiesti per concludere o avviare una trattativa o un vero e proprio affare[32].
A completare il quadro d’eccezionalità di quella corte di giustizia, l’estrazione sostanzialmente non togata dei suoi componenti: ne facevano parte mercanti, banchieri, coloro che potevano vantare una perizia certa nelle materie economiche e, infine, giuristi che dovevano essere compatibili con il mondo del commercio e dunque capaci di mantenere una sufficiente autonomia dal ceto d’appartenenza. Francesco Ventura, ideatore e primo presidente del Supremo Magistrato del Commercio, ne è l’esempio: giurista politico, fu capace, per le sue entrature a Corte, di condizionare molte scelte della vita pubblica ai tempi di Carlo di Borbone[33].
Si è già detto di Michele De Jorio, capo di quella magistratura nei primi anni dell’Ottocento[34]: uomo d’estrazione forense ma di formazione ampia, giurista colto e attento alla dimensione europea, di certissima competenza finanziaria ed economica (come racconta Giuseppe Maria Galanti[35]), fu curatore di un’opera monumentale in quattro volumi di oltre mille pagine l’uno, quasi un codice universale del diritto della navigazione e del commercio o, quantomeno, un compendio della materia. Chiamato a dare risposte adeguate a richieste giuridiche ed economiche né episodiche, né soggettive (si trattava di situazioni comuni, quali il debito cambiario o capaci di interessare tutti i consociati, come la compravendita di beni alimentari), il giudice commerciale, peraltro autorevolmente rappresentato, si segnalò quasi sempre e quasi ovunque come un modello di operosità. Con un’eccezione: ai suoi albori, il Supremo Magistrato del Commercio mostrò una laboriosità inferiore alle attese e lo stesso re rivolse una stringente critica ai componenti il collegio giudicante[36].
Le perplessità del sovrano si spiegano con la necessità di richiamare all’ordine una corte di giustizia che, pur non essendo di soli giuristi, mostrava di non sapere o volere aderire ai desideri del potere centrale, verso cui si poneva come ogni altro giudice togato, ossia in rapporto dialettico e non strumentale.
Si trattò di un fatto di una certa rilevanza perché nel riformismo del Settecento un peso decisivo era assegnato all’istituzione dei tribunali di commercio. I governi del tempo riconoscevano a quelle corti di giustizia un compito che andava al di là delle mere funzioni giudiziarie, come dimostra, per esempio, la storia del Supremo Magistrato del Commercio. Le vicende, la composizione, la qualità dei componenti dei Collegi giudicanti nella materia mercantile, indicano senza dubbio quali attese politiche vi si collegassero[37]. A queste bisogna aggiungere le aspettative della comunità o di una parte cospicua di essa: il loro livello doveva essere molto alto, a giudicare dalla durata dei giudizi innanzi al tribunale dei mercanti. I consociati confidavano, infatti, nella rapidità dei procedimenti per dare un corso sicuro ai loro affari. La realtà giudiziaria realizzava le istanze non solo delle parti processuali, ma dell’intero ceto mercantile: e così, si può affermare che il tempo medio di risoluzione delle controversie (considerando anche quanto occorreva per decidere sul gravame) fosse non superiore ai venti giorni. Il dato è desumibile dalle sentenze ordinate nell’Archivio di Stato di Roma, di Napoli, di Firenze, di Venezia[38] e dagli elementi ricavabili dalle raccolte di giurisprudenza francesi ed italiane[39]. E dunque la durata dei giudizi mercantili può essere ritenuta, per la sua costante rilevazione in luoghi e ambienti diversi, un aspetto tipico di quella giurisdizione.
Giudice laborioso e laico, il tribunale commerciale ebbe una certa autorevolezza sia sul piano politico, sia su quello giuridico, come prova il suo ruolo primario nell’opposizione alla legge che nel 1774 istituiva a Napoli l’obbligo di motivare le sentenze[40] e il numero non troppo rilevante di impugnazioni alle sue decisioni di prima istanza[41].

La pratica quotidiana mostrava uno stile di giudizio e una logica di rapporto tra le parti e i magistrati del tutto nuovi, almeno in certe latitudini. Le agili motivazioni, la stabilità interpretativa, il formarsi di una giurisprudenza consolidata, la stessa qualità dei componenti del collegio giudicante (erano eletti dall’assemblea dell’Ordine tra i “mercanti notabili”) contribuivano a conferire al nostro tribunale una connotazione singolare. Come si è detto, la giustizia mercantile, con i suoi caratteri di celerità, di comunanza d’interessi tra le parti e gli stessi giudici, aveva caratterizzato tutto l’antico regime, oltre al medioevo[42]. Il suo funzionamento, tuttavia, era il riflesso del particolarismo cetuale, la traduzione in termini giuridici di una situazione concreta capace di perpetuare la giurisdizione privilegiata. Ora, con il Supremo Magistrato del Commercio, conviene ribadirlo, cambiava radicalmente il fine dell’azione giudiziaria, privata, almeno in parte e di sicuro nelle intenzioni dei governi, di molte delle sue potestà arbitrarie.
È stato scritto, efficacemente, a questo proposito, che quelle magistrature, per la loro composizione mista, in prevalenza non togata, avrebbero determinato l’implosione del sistema dei privilegi, in questo modo destrutturati dall’interno[43]. Ciò sarebbe avvenuto in maniera indolore, come conseguenza di una situazione fissata dal tempo e perciò necessaria. E, in effetti, le corti della giustizia commerciale furono giudici speciali del tipo migliore. In questo senso: la loro procedura, sebbene extra-ordinem, richiamava più la specificità, la straordinarietà delle situazioni e degli interessi che l’arbitrio del giudicante. Un ibrido, rispetto alla tradizione, destinato in ogni caso a funzionare e che dappertutto aveva dato buona prova di sé in termini di produttività[44]. Peraltro, nelle stesse città italiane, i Tribunali delle Corporazioni erano stati il simbolo dell’Ordinamento pluralistico e, per la loro lunga durata, anche sotto la forma unica del giudice mercantile, la dimostrazione più piena di quanto fosse diretto e vitale il rapporto tra economia e giustizia. Un’eccezionalità necessaria, insomma, difesa da tutti i protagonisti del processo.

4. Giudici specializzati o eguali?
Esisteva dunque un giudizio tra pari[45]. Per appartenenza cetuale e, quindi, per competenza tecnica, non vi erano differenze sostanziali tra le parti di un processo mercantile e tra loro stessi e i giudici. Si era in presenza di una logica cetuale capace di sopravvivere anche alla fine dell’antico regime e ci si trovava di fronte ad una persistente volontà di mantenere in vita una giurisdizione efficace. Con queste consapevolezze le corti della giustizia mercantile riuscirono a resistere per quasi un secolo agli eventi del 1789 e al nuovo assetto delle relazioni politiche e sociali determinate dalla Grande Rivoluzione.
Aboliti nel 1888, per ragioni ideologiche (era invocato, il principio d’uguaglianza[46]) e tecniche, ossia tutte interne al rapporto tra le discipline privatistiche, quando ormai anche nei fatti si era affermata una logica di classe, i tribunali di commercio di fatto sono ricomparsi, di recente e con più forza rispetto al passato, nella forma delle (molte) sezioni specializzate. Più che insistere su di un tale dato (noto, confermato dalla riforma che ci occupa e suscettibile d’incremento), è opportuno riflettere sulle ragioni che portarono all’abolizione dei tribunali dei mercanti. Si è detto che la loro soppressione fu richiesta in nome dell’affermazione completa del valore dell’uguaglianza: «è un principio inconcusso di una buona organizzazione giudiziaria che l’amministrazione della giustizia debba essere uguale per tutti e che non debba farsi alcuna distinzione né tra diversa natura di affari, né tra diversa qualità di persone»[47]. Scriveva così nel 1881 l’autore di uno dei più chiari interventi sul problema del mantenimento del giudice mercantile. Il tema della parità di condizioni nel giudizio era contrapposto a quello della particolare cura da dedicare ad una situazione così delicata e ad un argomento tipico del diritto dei mercanti: l’opportunità di garantire lo stesso regime agli stranieri in rapporto d’affari con noi. Si sottolineava, infatti, il carattere sovranazionale della materia: «Pongasi mente, che le cause di commercio spesso interessano negozianti di altre nazioni, come quelle per lettere di cambio, biglietti ad ordine, cambi marittimi, noleggi, assicurazioni, avarie, fallimenti, ec. E gli Esteri usi a trattar le loro cause di commercio avanti tribunali di commercio, mal soffrirebbero di vedere in questo Regno d’Italia giudicar le cause, nelle quali sieno essi interessati, da tribunali civili. La giurisdizione di commercio mai potrebbe essere meglio esercitata, che da’ tribunali di commercio con quella semplicità e speditezza che esigono le cause di commercio, semplicità e speditezza, che mai si otterrebbe avanti i tribunali di circondario. Son questi gravati dalle cause civili e dalle correzionali»[48].
Fin dal 1863 il tema dell’abolizione delle corti mercantili divise i giuristi: alcuni richiamarono esperienze straniere. E così si lesse che: «E la Sezione del Consiglio di Stato di Francia, quando si agitava la quistione tra i due sistemi della conservazione, o della soppressione de’ tribunali di commercio diceva: “I commercianti reclamano unanimemente contro la promossa soppressione. Non fu promossa giammai alcuna querela ne’ circondari di questi tribunali contro la esistenza loro, e le loro sentenze. I soli Tribunali civili pretendono che essi siano inutili”»[49]. Anche in una prospettiva tutta interna si ripeteva la necessità di conservare le corti della giustizia mercantile: «Due gravissimi mali ad un tempo recava al Commercio ed alla Industria del già Ducato di Lucca il Motu proprio Granducale de’ 26 febbrajo 1848; l’uno con l’abolire il Tribunale di Commercio e deferire la cognizione delle cause commerciali ai Tribunali ordinari, l’altro sottoponendo i nostri giudizi a quelle forme procedurali che gli affari di commercio già regolavano nella Toscana»[50]. In quello stesso anno non mancavano, tuttavia, voci dissenzienti: «professai sempre io pure l’opinion di coloro che condannano questa istituzione come non più adatta all’ordine dei tempi, all’ampliezza e alla molteplice diversità delle combinazioni contrattuali cui ha dato luogo l’odierno progresso del commercio e dell’industria, come un vero anacronismo»[51].

I Tribunali di commercio, insieme alle Corporazioni, e prima ancora alle corti varie della giurisdizione di settore (e alle stesse Camere di Commercio) avevano disegnato un reticolato d’interessi e specializzazione che non era facile da superare. Una tra le molte testimonianze promosse da queste ultime spiega con enfatica chiarezza quanto fossero radicate le convinzioni dei mercanti: «Nella storia del progresso dei popoli e della loro legislazione, può dirsi istituto civile ed il più popolare nell’amministrazione della giustizia, il Tribunale di Commercio… E comechè la bontà delle leggi è la espressione più solenne del grado morale e civile di un popolo, la soppressione dei Tribunali di Commercio indicherebbe che i costumi del popolo italiano, lungi di perfezionarsi in intelligenza ed onestà, sarebbero in iscoraggiante declino»[52]. E infine, con generiche ma convinte notazioni storiche: «Farebbero invero meraviglia come l’Italia, reggendosi oggi a libere istituzioni, si volessero sopprimere Camere e Tribunali di Commercio, istituzioni eminentemente popolari e benefiche, delle quali non temerono mai i Re assoluti o costituzionali, che le fondarono e rispettarono»[53].
Molti scrittori e politici, infine, posero la questione nell’ultimo scorcio del secolo fino a provocare un intervento di Giuseppe Zanardelli. Il primo ministro il 13 dicembre 1887, pochi giorni prima dell’approvazione della legge che soppresse i tribunali mercantili, in risposta alle interrogazioni di numerosi parlamentari, fece notare che le corti di commercio potevano essere sostituite da sezioni speciali dei tribunali ordinari[54].

5) La preparazione di una riforma
Il ministro della giustizia, aveva dunque in mente il sistema dei privilegi[55], ma si poneva il problema della specialità della materia, affrontando insieme a giuristi d’ogni tipo e ad un numero davvero ampio di deputati, il tema della conservazione o soppressione degli organi della giustizia mercantile. Permaneva quindi nell’età liberale un costume tipico dell’antico regime: nel tratto iniziale dell’età moderna il numero delle leggi fondamentali, emanate nel breve periodo, non era elevato e in ogni caso si presentava, di certo, inferiore a quello che caratterizzò, dopo il 1789, l’età propriamente moderna. Tutto ciò per tacere dei tempi recenti: la dialettica parlamentare, democratica e la statualizzazione del diritto, comprimendo il valore delle consuetudini, hanno reso incessante il riformismo, in particolare da noi.
Una rivoluzione continua, una contraddizione in termini[56]; e un ritorno paradossale alle logiche proprie del particolarismo: le troppe leggi della stagione che anticipò il Code Napoléon sono tornate a caratterizzare la situazione delle fonti.
Prima del luglio francese di fine Settecento e dell’epopea bonapartiana che completò il processo di riduzione ad unità del pluralismo (processo già iniziato per mano dei privati e dello stesso potere centrale[57]), l’antico regime era connotato da un complesso di sistemi, di ordinamenti – ciascuno con una sua specificità e con una tendenziale stabilità – ma non certo da stravolgimenti delle materie più importanti. Tutto ciò accadeva perché la logica complessiva di quel mondo era di tipo statico e non dinamico. In ogni caso le riforme, o meglio i cambiamenti, anche nel maturo Settecento, procedevano ad intervalli irregolari e lunghi. Di riforme vere e proprie si cominciò a parlare sotto la spinta del movimento illuministico e, in un senso meno ideologico, dalle necessità di mercanti e in genere dei ceti mediani, che tuttavia confidavano più sulle prassi che sulle disposizioni della legge scritta.
Le armi dell’ideologia borghese erano, infatti, prima di tutto quelle messe a punto dalle Corporazioni. Soggetti di diritto e insieme soggetti politici, gli Ordini assumevano compiti di rappresentanza attiva dell’intera associazione, come accadde in Catalogna, ove i Consulat svolsero un’azione incisiva, come nessuna altro organo seppe fare[58]. Naturalmente i tribunali e le camere di commercio, come espressione e braccio operativo delle “Arti e dei mestieri”, assicurarono la tenuta del sistema, mentre la diffusione delle idee mercantilistiche era garantita, oltre che dal funzionamento dei mercati, da coloro che si battevano contro gli innumerevoli ostacoli posti dai conservatori alle logiche commerciali. Tradizionalisti e novatori si disputavano il campo per questioni apparentemente marginali e per altre più centrali: si spaziava, come si è detto, da vicende relative al teatro, al consumo di carni o cioccolato al venerdì o durante la quaresima, ad altre riguardanti l’onerosità del mutuo, la pericolosità dei traffici ferroviari, la libertas philosophandi e la libertà di stampa, che ne era un corollario[59]. Si può dunque ritenere che in quella stagione, a ridosso di cambiamenti epocali, in pieno Settecento, la preparazione delle riforme fosse un fatto naturalmente lungo, meditato ed indotto da trasformazioni di forma e genesi varie.
In età moderna le innovazioni legislative di notevole rilevanza hanno tempi più ridotti e sono occasionate dalla necessità di tenere il passo di mutamenti continui. La frequenza di interventi legislativi, anche decisivi, dipende inoltre dalla mutevolezza della situazione politica e dalla conseguente necessità di seguirne il corso.
In ogni caso, in tempi recenti e nel mondo occidentale, si notano profonde assonanze e qualche negativa differenza, che riguarda purtroppo il nostro costume politico e normativo. Per cenni si possono indicare talune vicende, delineate per il loro valore anche simbolico. E così si possono richiamare alcune esperienze europee e quelle americana ed inglese, unite per motivi di tradizione. A tal proposito è possibile far iniziare la comparazione da una situazione ben nota: in Germania le leggi più importanti prima di essere approvate sono sottoposte al giudizio delle maggiori Università, chiamate ad una funzione di alta consulenza. In Svizzera invece si ricorre al mezzo referendario o in ogni caso ad approfondimenti così ampi da determinare un duplice, eccezionale risultato: la sperimentazione della democrazia diretta e l’assunzione del più ampio consenso. Si tratta naturalmente di alcuni tra i molti esempi possibili: negli Stati Uniti d’America le lobbies, riconosciute per legge, svolgono, come si sa, nel processo di formazione di una legge, un’azione in parte ricostruibile e perciò priva di alcune delle opacità che caratterizzano i nostri procedimenti normativi. Sottoposta a controlli finanziari e politici (in particolare di tipo giornalistico o ad opera delle élites), quel procedimento legislativo determina un’opportunità d’informazione o di conoscenza diretta, per la possibilità di collegare il provvedimento ad un gruppo di persone, ad un centro d’interessi. Si tratta d’automatismi, in parte e in linea teorica, assimilabili alla legislazione emanata dalle istituzioni cetuali, seppure in una logica tutta interna, domestica e senza la dialettica e il contrasto d’interessi tipico degli organi rappresentativi di stampo democratico e parlamentare. Per la dichiarata e preventiva difesa d’interessi riferibili a gruppi sociali ben individuati, le descritte procedure finiscono per togliere una buona parte delle ombre che si addensano invece ove il legislatore non tiene la pubblica opinione in nessun conto. Ciò vale, ovviamente, soprattutto per le materie di maggiore impatto politico-sociale e per temi di natura economica e commerciale (le ipotesi di corruzione o di falso in bilancio) in ogni modo non lontani da questa e in ogni caso legati e destinati a formare un sistema.
  In sintesi: il grado d’efficacia, anche in termini temporali, degli antichi procedimenti legislativi riguardanti il commercio era altissimo. Si tratta di un dato costante e indipendente dai luoghi o dai tempi, indifferente ai cambiamenti epocali di tipo legislativo. Un risultato che, come il suo aspetto più importante, ma non esclusivo[60], dipendeva dal legame esistente tra le parti e tra queste ultime e i giudici, uniti tutti insieme dal vincolo più duraturo, almeno nella vita pubblica: quello degli interessi.

Note

1.  Rinvio al paragrafo 5 e in particolare agli scritti di Pio Caroni indicati nella nt. 59.

2.  Il tema sfugge alle possibilità di chi scrive, ma, per un’eventuale comparazione, si possono consultare i fatti e le idee riportate nel paragrafo 4, ove si danno indicazioni minime circa il dibattito sull’abolizione dei tribunali di commercio.

3.  La produttività del denaro, nonostante le ultime resistenze della Chiesa, (che si protrassero fino alla metà del diciannovesimo secolo) fu riconosciuta oltre che nella prassi, anche sul piano teorico e il contratto di mutuo poté essere considerato come oneroso: gli interessi diventavano leciti. Si veda per un approfondimento il saggio di Aurelio Cernigliaro, L’usura virtuosa, in Usura e mercato del credito, a c. di Francesco Macario e Adelmo Manna, Giuffrè, Milano 2000, pp. 3-18; poi Ugo Petronio, Il denaro è una merce. Il prestito ad interesse tra fisiocrazia e codificazione, in A Ennio Cortese, il Cigno, Roma 2001, pp. 98-126; saggio ripubblicato in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2001, n. 1-2, pp.55-94; cfr. il vol. misc. Credito e usura fra teologia, diritto e amministrazione, a cura di Diego Quaglioni, Giacomo Todeschini e Gian Maria Varanini, Ècole française de Rome, Roma 2005; Umberto Santarelli, Sei lezioni sull’usura, Seu, Pisa 2005; infine il mio Processi per usura. Ideologie giuridiche e soluzioni giudiziarie tra Sette e Ottocento, Esi, Napoli 2008 e, di Giuseppina De Giudici, Interessi e usure. Tra dirigismo ed equità nella Sardegna di Carlo Emanuele III, Edizioni ETS, Pisa 2010.

4.  Conviene richiamare le notissime analisi sulla città medievale di Sombart e Weber. Quanto al primo rinvio anche alle indicazioni della nota 22. Per entrambi al saggio di Agostino Petrillo, La città medievale e la nascita dell’Occidente moderno: Die Stadt di Max Weber, in Filosofie della metropoli. Spazio, potere, architettura nel pensiero del Novecento, a c. di Matteo Vegetti, Carocci, Roma 2009, pp. 19-47. Da p. 25 trascrivo: «Mentre Sombart vuole indagare in maniera analitica i meccanismi socioeconomici che conducono alla nascita della città medievale, Weber si preoccupa invece delle peculiarità, delle caratteristiche che ne fanno un unicum, e degli sviluppi che da essa si originano. Ma questa sostanziale differenza di intenti tra i due studiosi non esclude un terreno comune»: sia lo storico, sia il sociologo ritengono che la forma-città prenda corpo nell’età di mezzo a partire dall’idea e dalla realtà del mercato, che diventa perciò una «categoria storico-economica».

5.  Emmanuel Joseph Sieyès, Qu’est-ce que le Tiers-Etat?, Paris 1789, trad. it. Roberto Giannotti, Cos’è il Terzo Stato?, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 3.

6.  A Napoli e in tutto il Regno, naturalmente, non mancarono magistrature, quali quelle delle Arti della lana e della seta, che costituirono, oltre ad un indubbio privilegio concesso a tutti gli appartenenti a quel ceto, uno strumento di compensazione della conflittualità socio-economica e un mezzo per garantire stabilità interpretativa. Rinvio, per un’illustrazione di questi vantaggi, ad un libro ancora utile, nonostante l’anno della sua edizione: mi riferisco a Raffaele Pescione, Il Tribunale dell’Arte della seta a Napoli, Unione Tipografica Combattenti, Napoli 1923, passim e in part. p. 10 ss.

7.  Avvocati, consulenti, giudici, notai o professori, gli uomini di formazione giuridica, mostravano una competenza cetuale meno ampia di quella degli altri ordini, ma comunque maggiore della coesione riscontrabile tra i giuristi moderni. Privati ormai, in parte, delle vecchie possibilità (per esempio, transitare dai ruoli della magistratura a quelli dell’avvocatura) e di quei compiti di costruzione della struttura statuale o di mediazione tra i gruppi sociali (svolti quasi in esclusiva durante l’antico regime) apparivano, rispetto ai mercanti, legati a logiche vicine al tramonto. Per inciso: ciò che residua di quelle potestà politiche e personali può essere il metro per accertare non più la forza di un ceto, ma la persistenza di pratiche opache.

8.  Al fenomeno della stratificazione sociale, del particolarismo giuridico (sia giudiziario, sia normativo) ha dedicato una chiara e articolata descrizione Adriano Cavanna in Storia del diritto moderno in Europa, I, Giuffrè, Milano 1982: rinvio perciò alle pp. 193-236.

9.  Francesco Perrone, Il Supremo Magistrato del Commercio, Pierro, Napoli 1916; Raffaele Ajello, Il problema della riforma giudiziaria e legislativa nel Regno di Napoli durante la prima metà del secolo XVIII. I. La Vita giudiziaria, Jovene, Napoli 1961, p. 118 ss; Carmelangela Mottola, Introduzione all’Inventario analitico al Supremo Magistrato di Commercio (1734-1808) dell’Archivio di Stato di Napoli.

10.  ASR, SMC, Processi, b. 1, fs. 1.

11.  Aurelio Cernigliaro, Agricoltura e pubblica felicità. Dalla ragion economica alla ragion civile, in Frontiera d’Europa, 2000, 2, pp. 115-165. Giuseppe Ricuperati, I volti della pubblica felicità. Storiografia e politica nel Piemonte settecentesco, Meyer, Torino 1989.

12.  Fu tuttavia lo stesso ministro ad abbandonare l’idea di un Codice, assecondando le resistenze di giuristi ed ecclesiastici, favorevoli gli uni e gli altri al mantenimento del diritto comune, che il nuovo sistema avrebbe scardinato. Il professore pisano, protagonista per quasi mezzo secolo della politica napoletana, finì per ritenere, infatti, che la pur farraginosa normazione esistente e il legislatore (ossia lui stesso, oltre al sovrano) avrebbero sopperito alle inevitabili mancanze con la loro autorevolezza e le risorse sapienziali di cui disponevano: Ajello, Arcana juris. Diritto e politica nel Settecento napoletano, Jovene, Napoli 1976, pp. 29-108 e spec. pp. 53-66. Rinvio, infine, alla nt. 14.

13.  Il figlio di Carlo, sotto l’impulso di Tanucci, emanò nel 1774 una legge che imponeva ai magistrati di Napoli di motivare le loro sentenze e continuò il programma paterno tendente a dotare la città e il suo entroterra di segni tangibili del nuovo dominium. Si veda Ajello, La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone. La fondazione ed il «tempo eroico» della dinastia, in Storia di Napoli, Soc. Ed. Storia di Napoli, Napoli 1972, vol. VII, pp. 459-702. Per il provvedimento che istituiva l’obbligo di dar conto delle ragioni delle decisioni giurisprudenziali rinvio ad Ajello, Il tempo storico delle «Riflessioni». Nota critica a Gaetano Filangieri, Riflessioni politiche su l’ultima legge del sovrano, Morelli, Napoli 1774, riedizione anastatica Bibliopolis, Napoli 1982, e mi permetto di segnalare il mio Sentenze senza motivi. L’opposizione delle magistrature napoletane ai dispacci del 1774, Jovene, Napoli 2000.

14.  Ajello, Legislazione e crisi del diritto comune nel regno di Napoli: il tentativo di legislazione carolino, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico, 1, 1972, pp. 177-205; Giovanni Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, Il Mulino, Bologna, 1976, I, pp. 92- 5 e spec. 207-9.

15.  Sarebbe ingeneroso limitarsi a registrare questi dati e la loro negatività, senza considerare le reali, oggettive difficoltà e le indecisioni degli stessi leaders napoletani, per esempio Tanucci: un quadro descritto da Ajello in Il problema della riforma, cit. in nt. 9, e in Il preilluminismo giuridico. Il problema della riforma giudiziaria e legislativa nel Regno di Napoli durante la prima metà del secolo XVIII, II., Jovene 1965, e capace di spiegare il momentaneo fallimento dell’azione dei riformatori meridionali. Richiamo le pp. 143-4 di Ajello, Arcana juris, cit. in nt. 12, perché chiariscono in cosa consistesse «il timore di rompere un meccanismo insostituibile», condiviso da uomini come Ferdinando Galiani e Bernardo Tanucci.

16.  Segnalo la prossima pubblicazione di un Dizionario biografico dei giuristi italiani (sec. XII-XX) curato, per il Mulino di Bologna, da Italo Birocchi, Ennio Cortese, Antonello Mattone e Marco Nicola Miletti e rinvio alla voce De Jorio Michele.

17.  Più consapevoli e voluti saranno gli interventi successivi: il maggiore fu il già citato provvedimento tanucciano sulla motivazione delle sentenze, adottato a Napoli in funzione antimagistratuale, due anni dopo l’analogo atto del Cancelliere francese Maupeou, emanato nel 1772 per arginare lo strapotere dei giudici di Parigi.

18.  Contro «l’accentramento… che aveva ridotto la vita amministrativa a semplice apparenza, la ricostituzione del comune venne… stimolando lo zelo e la premura degli interessati nella buona condotta economica degli affari comunitativi, sottraendo all’arbitrio dello Stato e della città dominante gli interessi delle comunità e delle provincie » (p. 23 s).

19.  «I nuovi ordinamenti giudiziari stabiliti da Pietro Leopoldo, con i quali veniva a cessare la confusione, nella persona del giusdicente, della funzione di governatore locale con quello di rappresentante della giustizia, giovarono indirettamente all’economia, sia col dare maggiore garanzia al diritto di proprietà e a quelli da esso derivanti, sia col distrarre il meno possibile gli agricoltori dai lavori campestri, data la più semplice organizzazione dei tribunali provinciali e distrettuali e la semplicità della procedura posta in vigore» (p. 24).

20.  Carlo Di Nola, Politica economica e agricoltura in Toscana nei secoli 15-19, D. Alighieri, Genova 1948, a p. 23, scrive: «Circa il progresso finanziario del paese, è da rilevare che, all’avvento di Pietro Leopoldo, il debito pubblico ammontava (1767) a 87.589.775 di lire toscane; esso venne ridotto, nel 1789, a 20.764.354». Inoltre «con le riforme effettuate… risultava un avanzo di L. 1.547.301»; cfr. G. Cambray Digny, Cenni sui pericoli sociali in Toscana, in Atti dell’Accademia dei Georgofili, t. XXVII, 1849; Floriana.Colao, La giustizia criminale senese nell’età delle riforme leopoldine, Giuffrè, Milano 1989.

21.  Cavanna, La codificazione penale: le origini lombarde, Giuffrè, Milano 1987; Stefano Solimano, Paolo Risi e il processo penale (1766), Giuffrè, Milano 2000; Formare il giurista: esperienze nell’area lombarda tra Sette e Ottocento, (a cura di Maria Gigliola di Renzo Villata), Giuffrè, Milano 2004: si veda in part. il saggio introduttivo della Curatrice e di Loredana Garlati Giugni, Molto rumore per nulla? L’abolizione della tortura tra cultura universitaria e illuminismo giuridico: le note critiche di Antonio Giudici a “Dei delitti e delle pene”, in vol. misc. cit. in questa nota, pp 264-322.

22.  Quanto ad Azuni e alle critiche a Genovesi, rinvio alla voce Usura, in Dizionario Universale ragionato della giurisprudenza, Società Tipografica, Nizza 1788, IV. Per il riprodursi d’orientamenti passatisti in pieno Ottocento, richiamo l’esperienza intellettuale di Monaldo Leopardi, forse una delle più significative anche se non l’unica: al proposito si veda di quest’ultimo La giustizia nei contratti e l’usura, Soliani, Modena 1834. Infine Gaetano Cozzi, Note su Carlo Goldoni. La società veneziana e il suo diritto, in Atti dell’Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti, CXXXVII, 1978-9; Giorgio Zordan, Il dottorato padovano di Carlo Goldoni tra fonti documentarie ed autorappresentazione, in Quaderni per la storia dell’Università di Padova, 30, 1997, pp. 19-56; Serena Dainetto, «Se l’invenzione è tutt’opera infernale». Immaginario, turismo e letteratura da Belli a Campanile, in La maravigliosa invenzione. Strade ferrate nel Lazio, 5. Gangemi, Roma 2002, p. 129 s.

23.  Su Giambattista Vasco si veda la Voce a lui dedicata da Nouvelle Biographie universelle ancienne et moderne, a c. di Louis Gabriel Michaud, Delagrave et C., Paris, s. d., p. 671 s.

24.  Salvatore Rotta, Idee di riforma nella Genova settecentesca e la diffusione del pensiero di Montesquieu, in Il movimento operaio e socialista in Liguria, VIII, 1961, pp. 205-84. Infine, per un’evoluzione in senso nobiliare della mentalità forense e, in generale, per una sintesi sulla nobilitazione dei togati, si veda di Orazio Abbamonte, Dialettica degli status e rivendicazioni nobiliari a Napoli nel 1734, in Archivio Storico per le province napoletane, Napoli 1985, pp 355-375.

25.  Si veda Aurelio Cernigliaro, Sovranità e feudo nel Regno di Napoli: 1505-1557, Jovene, Napoli 1984, II voll., passim e spec. vol. II., pp. 389-568, dedicate al Parlamento generale che «contribuì, non solo formalmente, alle vicende del Regno, rispecchiandone puntualmente il clima politico, giuridico, economico e sociale» (p. 391); ID., Patriae leges privatae rationes. Profili storico-istituzionali del Cinquecento napoletano, Jovene, Napoli 1988, per i disordini contro il tentativo di introdurre, nel 1547, l’inquisizione a Napoli e, in generale, per la ricostruzione della dialettica politica e cetuale; Renata Pilati, Officia principis. Politica e amministrazione a Napoli nel Cinquecento, Jovene, Napoli 1994, passim, in part. pp. 265 ss., 276 ss., 307 s. e il cap. IV; Raffaele Ajello, Una società anomala. Il programma e la sconfitta della nobiltà in due memoriali cinquecenteschi, Esi, Napoli 1996, passim e spec. pp. 31-55. Richiamo i testi indicati nella nt. 26. Accanto all’ascesa dei giuristi, occorre considerare l’altra frazione del mondo borghese: rinvio dunque ad Aurelio Cernigliaro, Sovranità e feudo, cit. in questa nota, che osserva come l’ordine baronale «era indebolito nella capitale, a vantaggio di un ceto mercantile, evidentemente protetto, almeno per tutta la prima metà del Cinquecento, dalla Corona e dall’Amministrazione» (p. 504). Si veda l’intero paragrafo dedicato all’”antagonismo del ceto mercantile” (p. 504-510).

26.  Werner Sombart, Il Borghese: lo sviluppo e le fonti dello spirito capitalistico, Milano Longanesi, 1983, con una presentazione di F. Ferrarotti.

27.  Piero Del Negro, Venezia allo specchio. La crisi delle istituzioni repubblicane negli scritti del patriziato (1670-1797), in Studies on Voltaire and the Eighteenth Century, II, 1980. Il saggio evidenzia come i nobili veneziani fossero consapevoli sia del declino della Repubblica e dell’aristocrazia sia della necessità di ripensarne funzioni e struttura: lo dimostrano i loro memoriali indicati, alle pp. 9-26, dello scritto.

28.  Rodolfo Savelli, La Repubblica oligarchica: legislazione, istituzioni e ceti a Genova nel Cinquecento, Milano 1981. Sulla situazione genovese, Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, Einaudi, Torino 1982, p. 141. Una riflessione convincente sulla nobiltà genovese è in Rodolfo Savelli, Carlo Bitossi, Giorgio Doria, Edoardo Grendi, La repubblica aristocratica dei genovesi. Politica, carità e commercio fra Cinque e Seicento, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 13-48. In part. alla dialettica tra nobili e borghesi sono dedicate le pp. 31-8. Cfr., quanto alle vicende di natura politica ed istituzionale, Vito Piergiovanni, Il Senato della Repubblica di Genova nella Riforma di Andrea Doria, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza, IV, 1, Genova, 1965, pp. 230-275. Infine ID., Banchieri e falliti nelle ‘Decisiones de mercatura’ della Rota civile di Genova, in Diritto comune, diritto commerciale, diritto veneziano a cura di K. Nehlsen-von- Stryk-D. Norr, Centro Tedesco di Studi Veneziani, Venezia, 1985, pp. 17-38.

29.  Franco Angiolini, Nobles et marchands dans l’Italie moderne, in Cultures et formations négociantes dans l’Europe moderne, Éditions de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris 1995, a cura di Franco Angiolini e Daniel Roche, p. 110.

30.  Per la preponderanza del ministero togato a Napoli, richiamo i libri indicati nella nota 17 e segnalo, di Renata Pilati, La fortuna cinquecentesca del ceto ministeriale, in Frontiera d’Europa, 1, 1999, pp. 93-110. Per la situazione siciliana, rinvio a Vittorio Sciuti Russi, Stabilità ed autonomia del ministero togato siciliano in un dibattito del secolo XVIII, in Rivista storica italiana, 1975, pp. 47-86; ID., Astrea in Sicilia. Il ministero togato nella società siciliana del secolo XVI e XVIII, Jovene, Napoli 1983. Per i caratteri del patriziato veneziano e genovese, e per i problemi istituzionali nelle due repubbliche, rinvio ai saggi di Del Negro, Piergiovanni e Savelli indicati nelle note 27 e 28.

31.  Un’idea di quanto fosse ampia la definizione di “atto di commercio” è nella voce Commercio e Commercianti, in Enciclopedia del Negoziante ovvero Gran Dizionario del Commercio, dell’Industria del Banco e delle Manifatture, Antonelli, Venezia 1841, vol. 3, p. 531 s.

32.  Rinvio, per i dati di dettaglio, alle note 35, 37 e 38.

33.  Oltre al nipote di Gaetano Argento, facevano parte del Tribunale, tre nobili come “Cavalieri ministri”, tre ministri togati (Carlo Puoti, Pietro Contegna e D. Matteo Ferrante), due ministri negozianti, un referendario e un segretario.

34.  Richiamo la nota 15.

35.  Giuseppe Maria Galanti, Testamento forense, Graziosi, Venezia 1806. Si veda inoltre la riedizione dell’opera curata da Ileana Del Bagno, Di Mauro, Cava dei Tirreni 2003, ad ind. e la ricca introduzione.

36.  ASN, Effemeridi, fogli sciolti, Dispaccio 7 luglio 1742 a Francesco Ventura.

37.  Richiamo ancora una volta, come modello di una tale situazione, il Supremo Magistrato del Commercio, attivo dalla metà del Settecento a Napoli e a Palermo.

38.  Sono dati reperibili agevolmente nell’Archivio di Stato veneziano e in quello di Firenze, meno facilmente a Roma e con molta difficoltà a Napoli, per l’ordine originario e i criteri con cui erano tenuti i fascicoli di causa e organizzate le cancellerie: mirabile la cura del tribunale veneziano che consente analisi quantitative e statistiche di una certa ampiezza temporale, di cui darò conto in un prossimo libro sulle magistrature commerciali. Si veda, per un confronto tra le istituzioni giudiziarie e cetuali del Nord della Penisola e meridionali, Orazio Abbamonte, Tribunali di commercio nel regno di Napoli tra decennio e restaurazione in Il Mezzogiorno preunitario: economia, società istituzioni (a cura di Angelo Massafra), Dedalo, Bari, 1988, pp 507-517, che segnala le ragioni di tipo economico e politico, capaci di ostacolare lo sviluppo delle istituzioni giudiziarie e corporative del regno di Napoli.

39.  Si rinvia alle raccolte di decisioni di Albisinni, Agresti, Dalloz, Merlin. In particolare si veda di Dalloz, Giurisprudenza Generale di Francia in materia civile, commerciale, criminale, amministrativa e di diritto pubblico, Tipografia dell’Ateneo, Napoli 1833, XII, pp. 488-9: i dati indicano che in poco più di tre mesi una vicenda di usura e frode veniva decisa dai giudici di Parigi e di Colmar.

40.  ASN, Casa Reale Antica, fascicolo 912.

41.  In ASR si possono consultare le buste del Tribunale di Commercio, per gli anni 1810-1814: anche un esame sommario consente di ritenere che le impugnazioni avevano quasi sempre lo scopo di allontanare l’effettiva esecuzione dell’obbligo contrattuale. Si consulti in particolare la busta 5.

42.  La giurisdizione commerciale, come si sa, fu capace di sopravvivere per quasi un secolo alla Grande Rivoluzione che aprì l’età moderna e alla fine conseguente della società fondata sugli ordini e l’appartenenza cetuale. Si veda perciò il paragrafo 4 e le questioni sull’abolizione dei tribunali mercantili, avvertiti alla fine dell’Ottocento come giudici di settore e dunque incompatibili con le trionfanti dinamiche statualistiche.

43.  Tra legislatori e interpreti nella Napoli di antico regime, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 1991, (cur. Sergio Bagnulo, Aurelio Cernigliaro, Maria Rosaria Fortezza, Maria Gabriella Zinno), p. 154.

44.  Oltre ai dati relativi ai tribunali di Firenze, Napoli, Roma e Venezia e che conto di pubblicare a breve, rinvio a Giuseppe Zanardelli, Discorsi parlamentari (Discorso del 13 dic. 1887), vol. II, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1905, p. 497.

45.  Utilizzo quest’espressione, facendola comparire nel titolo di una monografia (“Il giudizio dei pari. I Tribunali di commercio italiani tra antico e nuovo regime”) di prossima pubblicazione, nella convinzione che il tratto distintivo di quella corte di giustizia fosse il legame esistente fra giudici e amministrati. A conferire un’identità e un ruolo, anche politico, al giudice mercantile fu proprio quella comunanza: essa qualificò la magistratura commerciale più del carattere immutabile della sua giurisdizione, indifferente ai mutamenti determinati da eventi legislativi d’assoluta importanza, quali il dispaccio di Bernardo Tanucci del 1774 che istituiva a Napoli l’obbligo di motivare le sentenze o lo stesso Code Napoléon. In presenza di cambiamenti così importanti, i tribunali di commercio mantennero il loro stylus judicandi. Ciò fu possibile perché era piena la coesione sociale tra giudici e amministrati e tra le stesse parti del processo. Sul tema Marco Nicola Miletti, stylus judicandi. Le raccolte di «Decisiones» del regno di Napoli in età moderna, Jovene, Napoli 1998, spec. pp. 195-203, dedicate ai modelli decisori e alle procedure delle corti inferiori.

46.  Si veda Giuseppe Zanardelli, Discorsi parlamentari (Discorso del 13 dic. 1887), vol. II, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1905, p. 497-8; cfr. la nt. succ.

47.  Tito Cacace, Del progetto di legge per l’abolizione dei Tribunali di Commercio. Osservazioni, Tipografia De Angelis, Napoli 1881, passim e in part. p. 6.

48.  Ivi, p. 11 s.

49.  Giuseppe Calvino, Ragioni per la conservazione dei Tribunali di Commercio del Regno d’Italia, Tipografia di Giovanni Modica Romano, Trapani, 1863, p. 10. Fondamentale è la comparazione operata da Gian Savino Pene Vidari con La jurisdiction commercelle en France et en Italie aux XVII.e et XIX.e siécle, in Le droit commercel dans la société suisse du XIX.e siécle, s. la dir. de Pio Caroni, Èditions Universitaires, Fribourg, 1997, pp. 169-185; cfr. Antonio Padoa Schioppa, Saggi di storia del diritto commerciale, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano 1992, pp. 98-106.

50.  Rapporto della Commissione della Camera di Commercio ed Arti di Lucca sulla necessità della istituzione dei Tribunali di Commercio nella provincia lucchese, Tipografia Benedini Guidotti, Lucca, 1863, p. 3.

51.  Tito Masi, Lettera a Giovanni de Foresta, senatore del Regno, primo Presidente della R Corte d’Appello, Regia Tipografia, Bologna, 1863, p. 5.

52.  Francesco Puglisi, I Tribunali di Commercio in Italia, Relazione alla Camera di commercio ed arti di Messina, Tipografia del Commercio, Messina, 1882, pp. 3-4.

53.  Ivi, p. 38.

54.  Giuseppe Zanardelli, Discorsi parlamentari (Discorso del 13 dic. 1887), vol. II,
Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1905, p. 496. Nel testo si dà risalto alle posizioni dei molti deputati che intervennero sulla questione, chiusa il 23 gennaio 1888 con la legge che sopprimeva i tribunali commerciali.

55.  Ivi, p. 497.

56.  Cambiare in maniera radicale l’assetto di un intero settore significa sottoporre il sistema a traumi improduttivi: succede, e, per esempio, nella materia fiscale, ed è comprensibile, o nel campo dell’istruzione.

57.  Cavanna, op. cit. in nt. 8, pp. 237-293; cfr. Tarello, op. cit. in nt. 14, pp. 22- 42.

58.  Pere Molas i Ribalta, Le marchand espagnole entre 16.e et 18.e siècles, in Cultures et formations négociantes dans l’Europe moderne, Éditions de l’Ecole des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris 1995, a cura di Franco Angiolini e Daniel Roche, p. 63.

59.  Vincenzo Ferrone, I profeti dell’Illuminismo, Laterza Roma-Bari 2000; Libertas philosophandi in naturalibus: libertà di ricerca e criteri di regolamentazione istituzionale tra Cinquecento e Settecento (a cura S. Ferretto, P. Gori, M. Rinaldi con la supervisione di A. Olivieri); M. Fioravanti, Le libertà: presupposti culturali e modelli storici, Giappichelli, Torino 1991. Si veda, per le questioni relative al teatro o alle strade ferrate, la nt. 22.

60.  Accanto alla durata dei giudizi, è possibile collocare la stabilità della decisione (le poche impugnazioni, per esempio) e la prontezza dell’esecuzione.