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Considerazioni minime in tema di semplificazione

di - 21 Settembre 2012
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4. Profili applicativi: la logica formale della tutela e i limiti alle libertà individuali.
E’ necessario in primo luogo capire che cos’è la tutela. Da oltre un secolo la genesi e la logica interna del regime di tutela delle cose d’arte (legge Nasi n. 185 del 1902, legge Rosadi n. 364 del 1909, legge Bottai n. 1089 del 1939) e dei beni paesaggistici (legge n. 411 del 1905 di tutela della pineta di Ravenna, legge Croce n. 778 del 1922, legge Bottai n. 1497 del 1939, legge “Galasso” del 1985), è sempre stata imperniata sulla eccezione del patrimonio culturale[8] (deroga al regime di libertà di diritto privato di uti – frui del bene in funzione di protezione del valore di interesse generale in esso intrinseco, mediante l’esercizio di una sorta di dominio eminente pubblico, il tutto mediato da un atto d’autorità di riconoscimento del valore e di imposizione del connesso titolo pubblico sul bene). La migliore dottrina[9] ha sempre configurato l’atto di tutela (in primis, il provvedimento di vincolo) quale atto restrittivo della sfera giuridica del destinatario, nel quadro della figura generale delle limitazioni amministrative alla proprietà privata. In base a questa ricostruzione l’effetto tipico del vincolo risiede nella costituzione, in capo al titolare dei diritti sul bene, di doveri preordinati a garantire la conservazione dello stato attuale del bene vincolato.
La tutela, dunque, non è libertà, ma è limite alla libertà. Pensare che l’utifrui del bene tutelato, ossia l’esercizio del diritto di proprietà privata e del diritto di iniziativa e di attività economica privata su di esso siano espressioni di primigenia libertà (ancorché condizionata) e possano senz’altro essere esercitati con una mera autocertificazione di compatibilità, equivale a ritenere che la tutela (intesa in senso proprio) debba essere abolita. Il vincolo esprime in realtà una sorta di “condominio” pubblico sul bene[10] che, in un certo senso, è di tutti, poiché è di tutti non solo, da un lato, il diritto di tipo fedecommissario alla conservazione e alla trasmissione alle future generazioni dell’acquisto culturale ereditato dal passato (e giudicato meritevole di tutela, per il suo valore culturale, dall’autorità competente), ma è di tutti, dall’altro lato (anche) quel particolare diritto di uso (pubblico) che consiste nella fruizione e nel godimento del bene culturale e paesaggistico come elemento della identità culturale propria e collettiva (l’unico uso che non “consuma” il bene, ma la conserva e lo valorizza). Perciò l’autorizzazione, in questa materia, non è una mera rimozione di un limite legale all’esercizio di un diritto condizionato[11], ma è co-decisione (condominiale) sull’uso e sulla sorte del bene. L’autorizzazione edilizia o quella ambientale, da un lato, e quella storico-artistica o paesaggistica, dall’altro, sono solo nominalmente e apparentemente simili, ma costituiscono, nella sostanza logica, due istituti radicalmente diversi: le prime sono mere rimozioni (vincolate) di limiti legali a diritti condizionati (in funzione di controllo preventivo di compatibilità con i valori e gli interessi generali protetti); le seconde sono qualcosa di molto di più: sono atti (discrezionali) di esercizio del dominio eminente pubblico o della servitù di fruizione pubblica, tramite l’autorità preposta (delegata degli stakeholders, ossia di tutti i cittadini), finalizzato ad assicurare che il titolo pubblico non sia diminuito e depauperato dall’atto di gestione del privato, ossia a che la fruizione pubblica e la conservazione-protezione in chiave fedecommissaria del valore culturale/paesaggistico del bene siano adeguatamente garantite. E’ ovvio, dunque, che questa autorizzazione, affatto particolare, logicamente, prima ancora che giuridicamente, non è autocertificabile. Il proprietario privato non ha affatto la disponibilità del bene, ma la condivide con la collettività (che esercita il proprio condominio tramite l’amministrazione). Tant’è vero che – come è ormai pacifica acquisizione[12] – tali vincoli sono puramente dichiarativi di una qualità intrinseca della res e non sono considerati espropriativi (non sono, dunque, indennizzabili), e ciò proprio perché al privato non tolgono nulla che questi già avesse prima, ma si limitano a esplicitare e a rendere palese il naturale con-dominio di godimento pubblico su quei beni, la loro intrinseca valenza di interesse pubblico.
La logica interna che fonda il regime giuridico della tutela risponde al fine di assicurare la salvaguardia del bene, come patrimonio identitario (“patrum munus”) da conservare e proteggere e da trasmettere alle future generazioni. L’idea stessa di tutela del bene culturale e del paesaggio è implicata – ed è perciò pragmaticamente spiegata – dall’esigenza pratica di sottrarre alla libera disponibilità e fruibilità individuale talune cose, mobili o immobili, e talune porzioni di territorio (più vulnerabili o più importanti), riconosciute meritevoli di particolare protezione in aggiunta al normale regime giuridico generale. E’ questo il gene caratterizzante il regime speciale degli istituti preordinati alla tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, che non può essere soppresso senza sopprimere l’intero organismo giuridico che da esso è connotato.
Non senza considerare poi che la logica dell’autocertificazione è legata intimamente a quella dell’accertamento interamente vincolato a presupposti di fatto non opinabili (l’art. 19 della legge n. 241 del 1990, tuttora vigente, ribadisce, correttamente, il concetto per cui la d.i.a. – oggi s.c.i.a. – vale solo per gli atti di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale), ma non è rapportabile ai casi, quali tipicamente sono quelli di esercizio del potere autorizzativo di tutela del bene culturale e paesaggistico, naturalmente e inevitabilmente discrezionali (tecnico-discrezionali o connotati da discrezionalità interpretativa in relazione all’uso, nelle norme d’azione, di termini generici ed elastici introduttivi di concetti giuridici indeterminati)[13]. Se, dunque, l’autocertificazione e la logica del controllo successivo possono essere in parte applicabili alla materia della tutela dell’ambiente-ecosfera[14], che si occupa di grandezze fisiche, chimiche, biologiche misurabili, e si esprime di regola tramite accertamenti e autorizzazioni in senso proprio (di regola vincolate), esse sembrano, anche da questo angolo di visuale, del tutto incongrue rispetto alla materia della tutela del patrimonio culturale, dove si tratta prevalentemente di atti di esercizio di discrezionalità, amministrativa, mista, tecnica ed interpretativa.
La nuova disposizione normativa introdotta dal citato art. 3, comma 1, del decreto legge n. 138 del 2011 può tuttavia ricevere una lettura costituzionalmente orientata e conforme (all’art. 9 Cost.) se si interpreta la nozione di indispensabilità (dei divieti) non già nel senso (probabilmente ritenuto dall’estensore della disposizione) della selezione, all’interno delle norme di tutela vigenti, del solo nucleo minimo “indispensabile” ad assicurare la tutela (con conseguente eliminazione di tutto il resto), ma nel senso dell’implicita e intrinseca indispensabilità dell’intero sistema normativo di tutela (oggi essenzialmente racchiuso nel Codice di settore del 2004). Le considerazioni sopra svolte sulla logica interna della tutela e sulla sua ragion d’essere forniscono una spiegazione e una dimostrazione adeguate della validità di quest’ultima linea interpretativa: il sistema dei vincoli di tutela sedimentatosi negli ultimi cent’anni di storia è un tutt’uno inscindibile e costituisce la soglia minima incomprimibile di protezione e conservazione del patrimonio culturale, come tale integralmente “indispensabile”. E’ un sistema che fa perno sul controllo preventivo affidato a una magistratura tecnica altamente specializzata dipendente dallo Stato e sull’immodificabilità del bene – che è di tutti, oggetto di un dominio eminente pubblico – fino alla pronuncia favorevole dell’autorità competente. Non c’è niente da “liberalizzare”. Liberalizzare l’inizio dell’attività equivale semplicemente ad abolire la tutela. Non sono ammesse d.i.a. e s.c.i.a. Neppure è compatibile la logica “ordalica” del silenzio-assenso, che si fonda esattamente sulla logica contraria della normale “dispensabilità” del controllo, in materie disponibili, ma che non è ammissibile quando è in gioco un bene che è non solo di tutti noi, ma anche delle generazioni future.
Diversamente opinando, nel senso della necessità o della possibilità di una selezione riduttiva, entro le norme di tutela contenute nel codice di settore e nella disciplina regolamentare attuativa, delle previsioni di divieto, la nuova disposizione del decreto legge n. 138 del 2011 conterrebbe un incostituzionale attacco alla sopravvivenza della figura stessa del vincolo di tutela, ritenuto, evidentemente, in quella logica, incompatibile con la regola del controllo successivo-penale e della piena e incondizionata esplicazione della proprietà e dell’iniziativa/attività economica privata.

Note

8.  Il concetto è bene elaborato da G. Severini, sub artt. 1-2, in M.A. Sandulli (a cura di), Il codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2007, 8 ss. e, ivi, completi richiami di bibliografia. L’Illustre A. coerentemente evidenzia – ivi, 10 – come “Implicazione normativa dell’eccezione è ad es. la non applicabilità alla materia in oggetto di alcuni principi generali di semplificazione dell’azione amministrativa”.

9.  A.M. Sandulli, Natura ed effetti dell’imposizione dei vincoli paesistici, in Riv trim. dir. pubbl., 1961, 809 ss.

10.  Per questa linea di idee cfr. il noto contributo di M.S. Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963 (nonché Id., I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 20 ss.), che prospettò la costruzione del bene culturale come bene soggetto a una sorta di proprietà distinta, con concorso del dominio utile del proprietario con il dominio eminente pubblico sul valore culturale della cosa, destinata alla conservazione e alla fruizione pubbliche, donde l’idea dell’illustre A. dei beni culturali come beni funzionalmente “immateriali”. Tesi che costituisce uno sviluppo dell’idea (P. Calamandrei, Immobili per destinazione, in Foro It., 1933, 1722) del bene culturale come bene pubblico. In base a tale linea di pensiero il bene culturale, quale testimonianza di civiltà, diviene una sorta di bene immateriale, in senso ampio, intrinsecamente destinato alla fruizione pubblica. Una ripresa del tema – sempre più centrale e strategico – della tutela del patrimonio dei beni collettivi – contro un modello puramente individualistico del loro sfruttamento – è segnata dal voto referendario del 12 e 13 giugno 2011, che ha raggiunto un quorum 54,81% degli elettori, che hanno votato (in modo quasi totalitario) a favore dell’idea fondamentale – di grande significato politico e sociale – dell’acqua come bene pubblico insuscettibile di appropriazione privata.

11.  Nella schema classico dei diritti condizionati o fievoli, in attesa di espansione, previa emanazione dell’atto permissivo (A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XIV ed., Napoli, 1984, 605 ss.; P. Virga, Il provvedimento amministrativo, IV ed., Milano, 1972, 44 ss.).

12.  Corte cost. 29 maggio 1968, n. 56, in Giur. Cost., 1969, 356, nonché Id., 28 luglio 1995, n. 417, ivi, 1995, II, 1735 e 11 luglio 2000, n. 262, ivi, 2000, II, 1931. Il punto è pacifico nella giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. VI, 10 marzo 2009, n. 1391). Per la dottrina, è sufficiente il richiamo a A.M. Sandulli, Natura ed effetti dell’imposizione dei vincoli paesistici, cit.

13.  Cfr., su questo punto, per tutti, C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985; D. De Pretis, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995; da ultimo, per un’ampia sintesi, G. C. Spatini, Le decisioni tecniche dell’amministrazione e il sindacato giurisdizionale, in Dir. proc. amm., 1/2011, 133 ss.

14.  Sulla corretta distinzione tra tutela del paesaggio (ambiente-cultura), tutela dell’ambiente-ecologia e urbanistica-edilizia (governo del territorio), sia consentito il rinvio a P. Carpentieri La nozione giuridica di paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2004, 405 ss., che riprende e sviluppa l’impostazione di M.S. Giannini, <<Ambiente>>: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 15 ss.

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