Liberalizzare e semplificare
I
Liberalizzare
Forse non tutti ricordano che “libero”, da cui discendono libertà, liberale, e, naturalmente il “liberalizzare” che ci riguarda, ha lo stesso radicale di libère, la cui ascendenza a sua volta è lubère. Tutti ricordano viceversa che libère esprime il far piacere, come è chiaro nel frequente avverbio libenter, volentieri.
Essere libero dunque è la condizione che permette a chi ne gode il diritto di fare, di comportarsi, come meglio gli aggrada. Il suo limite, come è ovvio, è l’ordinamento. Esso chiede – ed esige – che chi vuol fare qualche cosa non rechi danno ad altri.
Il verbo “liberalizzare” esprime dunque un’idea non complessa, non difficile. Se ci sono situazioni le quali impediscono a qualcuno di fare qualche cosa, tali situazioni devono essere rimosse. C’erano una volta le concessioni di rotte aeree, che limitavano la possibilità di creare e gestire compagnie aeree? Si sono eliminate le concessioni; chiunque abbia alcuni requisiti oggettivi, che chiunque può acquisire, può lanciare una compagnia aerea. In termini più generali, liberalizzare significa far cadere tutti i limiti, quantitativi, territoriali, merceologici che impediscono ad un qualsiasi imprenditore di investire ed operare nel settore. Nessuna storia è più esemplare di quella del sale, del chinino e dei tabacchi. Monopoli dello Stato sia per produzione che per il commercio, i primi due caddero negli ultimi decenni del secolo scorso; il chinino scomparve per morte naturale, per così dire; il sale è in vendita dovunque, in concorrenza con il sale di Stato. Resistono i tabacchi, finché il monopolio reggerà. Adesso dovrebbe cadere.
Sulla liberalizzazione di cui oggi tanto si parla non c’è dunque molto da dire, se non che ad essa possono essere opposte resistenze, tanto più forti, quanto più organizzati e strutturati sono gli interessi di chi investe nei vari settori.
In altri termini, liberalizzare, come e quanto, è un puro problema politico.
II
Semplificare
1. Semplificare: rispetto a che cosa?
La parola “semplificazione” ed il verbo che la rende azione, “semplificare”, esprimono un concetto difficilissimo. Semplificazione e semplificare non hanno un valore assoluto, se così si può dire. Richiedono non solo un oggetto, ma soprattutto un termine di riferimento. Semplificare che cosa, rispetto a quale altra? La prima idea che viene all’uomo della strada (il quale in qualche modo si occupi di diritto) è che anzitutto semplificati debbano essere i moduli su cui sembrano fondarsi i suoi rapporti con il mondo del pubblico. Certo semplificare un modulo ha un qualche significato. Ma è poco, perché permane l’idea stessa di modulo. Resta cioè quel che il modulo esprime. E questa è un’idea ben precisa: il modulo è lo strumento di accesso a qualche cosa di cui si ha bisogno. Se ci si spinge un passo oltre i fogli che occorre compilare per accedere a servizi elementari (ad es. anagrafici [1]), il modulo assume molti nomi – domanda, istanza ad es. – che danno ingresso ad un procedimento. Si può semplificare quanto si vuole, ma il procedimento, al cui servizio è il modulo, resta. Entrambi significano che, per chi ha bisogno del modulo e del procedimento, esiste qualche entità a monte, che dà ragion d’essere all’uno e all’altro.
Questa entità, dai molti nomi e aspetti, esprime un unico valore di riferimento. Esso è l’autorità nelle sue mille forme e articolazioni: Stato, comune, circoscrizione, provincia, ASL, autorità amministrative indipendenti, regioni etc. etc. La loro stessa esistenza richiede che il dialogo con l’una o con l’altra si svolga in termini formali. Il cittadino deve chiedere; l’autorità rispondere, “decidendo”. Lo sappiamo tutti. Vuoi fare un muretto di contenimento di fronte a casa tua? Devi chiedere il permesso e quindi compilare un modulo che sfocia in un procedimento, più o meno breve. Vuoi aprire un bar? La musica, mutatis mutandis, è la stessa, con l’aggiunta della ASL, di qualche ufficio che si occupa di lavoro e di altri, ciascuno dei quali si occupa di qualche cosa. Lo stesso accade se vuoi aprire un’industria, grande o piccola che sia. Paradossalmente, le differenze sono marginali.
2. Prime semplificazioni: l’autorità e il suo silenzio.
Intorno a questo rapporto noi giriamo da sempre, e comunque fin dalla formazione dello Stato unitario e dall’assoggettamento dell’amministrazione ad un sistema di leggi che il cittadino poteva far valere di fronte al giudice. Solo nel 1990 si aprì o per meglio dire si tentò di aprire un’era nuova. Con la legge sul procedimento amministrativo, la celeberrima l. n. 241 dell’8 agosto 1990, si dispose che la risposta alla presentazione del modulo – cioè la decisione sulla domanda di autorizzazione, concessione, permesso e così via – non era più riservata alla sola autorità competente o all’insieme delle autorità competenti (co-mune, difesa, sanità, beni culturali, per ricordare quelle che più spesso si incontrano). Si poteva aprire un dialogo unitario con tutte le amministrazioni interessate, attraverso il c.d. contraddittorio nel procedimento amministrativo; si potevano conoscere e condividere i documenti, in quanto veniva introdotto il diritto di accesso agli atti dell’autorità; in sintesi, si poteva “partecipare” al procedimento. La c.d. conferenza di servizi, complicata struttura dalle molte facce, integrava il contraddittorio consentendo una forma quasi collegiale di decisione.
Questa esperienza si è sviluppata negli anni. Al dialogo “attivo”, in seguito al quale cioè l’autorità doveva esprimersi, si sono aggiunti due succedanei, che, nella forma attuale, vennero introdotti intorno al 2005. Il primo è il c.d. silenzio assenso. Tra la fine dell’800 ed i primi del ‘900 il non fare dell’amministrazione, il suo tacere nei rapporti con il cittadino, grazie alla giurisprudenza era assurto ad istituto giuridico per consentire la tutela giurisdizionale anche in caso di inerzia dell’autorità sulle domande o istanze. In altri termini, al ricorrere di determinate condizioni [2], il silenzio venne concepito come “provvedimento”, ovviamente negativo. Nel 2005 si dispose che potesse avere anche valore positivo, vale a dire di vero e proprio “provvedimento” autorizzatorio o concessorio. Si diede così, o per meglio dire ci si illuse di dare al tacere dell’autorità, protrattosi per un certo periodo di tempo, il valore formale – e positivo – di esercizio del potere attribuitole. Valeva e vale in un numero relativamente limitato di ipotesi; nessuno se ne fida perché il terzo interessato e soprattutto la stessa autorità rimasta silente possono insorgere e paralizzare l’inceptum.
Il secondo succedaneo del dialogo attivo, di cui si diceva, consistette e consiste nel dare un significato sostanziale al solo fatto dell’avvio di un procedimento. Si dice cioè che in un gran numero di casi, da ultimo amplificati dal d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, chi vuol fare qualche cosa può attivare una procedura con la quale mette l’autorità a conoscenza di quel che si propone di realizzare; passato un certo tempo – o subito, addirittura – l’intraprendente può cominciare a fare. L’idea è tanto bella quanto povera. Chi comincia così non è al sicuro di nulla. L’autorità, il terzo, i terzi, i quarti possono insorgergli contro e fermarlo.
Note
1. Oggi ampiamente ridotti, grazie a molte forme di autocertificazione.↑