Liberalizzare e semplificare

I

Liberalizzare
Forse non tutti ricordano che “libero”, da cui discendono libertà, liberale, e, naturalmente il “liberalizzare” che ci riguarda, ha lo stesso radicale di libère, la cui ascendenza a sua volta è lubère. Tutti ricordano viceversa che libère esprime il far piacere, come è chiaro nel frequente avverbio libenter, volentieri.
Essere libero dunque è la condizione che permette a chi ne gode il diritto di fare, di comportarsi, come meglio gli aggrada. Il suo limite, come è ovvio, è l’ordinamento. Esso chiede – ed esige – che chi vuol fare qualche cosa non rechi danno ad altri.
Il verbo “liberalizzare” esprime dunque un’idea non complessa, non difficile. Se ci sono situazioni le quali impediscono a qualcuno di fare qualche cosa, tali situazioni devono essere rimosse. C’erano una volta le concessioni di rotte aeree, che limitavano la possibilità di creare e gestire compagnie aeree? Si sono eliminate le concessioni; chiunque abbia alcuni requisiti oggettivi, che chiunque può acquisire, può lanciare una compagnia aerea. In termini più generali, liberalizzare significa far cadere tutti i limiti, quantitativi, territoriali, merceologici che impediscono ad un qualsiasi imprenditore di investire ed operare nel settore. Nessuna storia è più esemplare di quella del sale, del chinino e dei tabacchi. Monopoli dello Stato sia per produzione che per il commercio, i primi due caddero negli ultimi decenni del secolo scorso; il chinino scomparve per morte naturale, per così dire; il sale è in vendita dovunque, in concorrenza con il sale di Stato. Resistono i tabacchi, finché il monopolio reggerà. Adesso dovrebbe cadere.
Sulla liberalizzazione di cui oggi tanto si parla non c’è dunque molto da dire, se non che ad essa possono essere opposte resistenze, tanto più forti, quanto più organizzati e strutturati sono gli interessi di chi investe nei vari settori.
In altri termini, liberalizzare, come e quanto, è un puro problema politico.

II

Semplificare
1. Semplificare: rispetto a che cosa?
La parola “semplificazione” ed il verbo che la rende azione, “semplificare”, esprimono un concetto difficilissimo. Semplificazione e semplificare non hanno un valore assoluto, se così si può dire. Richiedono non solo un oggetto, ma soprattutto un termine di riferimento. Semplificare che cosa, rispetto a quale altra? La prima idea che viene all’uomo della strada (il quale in qualche modo si occupi di diritto) è che anzitutto semplificati debbano essere i moduli su cui sembrano fondarsi i suoi rapporti con il mondo del pubblico. Certo semplificare un modulo ha un qualche significato. Ma è poco, perché permane l’idea stessa di modulo. Resta cioè quel che il modulo esprime. E questa è un’idea ben precisa: il modulo è lo strumento di accesso a qualche cosa di cui si ha bisogno. Se ci si spinge un passo oltre i fogli che occorre compilare per accedere a servizi elementari (ad es. anagrafici [1]), il modulo assume molti nomi – domanda, istanza ad es. – che danno ingresso ad un procedimento. Si può semplificare quanto si vuole, ma il procedimento, al cui servizio è il modulo, resta. Entrambi significano che, per chi ha bisogno del modulo e del procedimento, esiste qualche entità a monte, che dà ragion d’essere all’uno e all’altro.
Questa entità, dai molti nomi e aspetti, esprime un unico valore di riferimento. Esso è l’autorità nelle sue mille forme e articolazioni: Stato, comune, circoscrizione, provincia, ASL, autorità amministrative indipendenti, regioni etc. etc. La loro stessa esistenza richiede che il dialogo con l’una o con l’altra si svolga in termini formali. Il cittadino deve chiedere; l’autorità rispondere, “decidendo”. Lo sappiamo tutti. Vuoi fare un muretto di contenimento di fronte a casa tua? Devi chiedere il permesso e quindi compilare un modulo che sfocia in un procedimento, più o meno breve. Vuoi aprire un bar? La musica, mutatis mutandis, è la stessa, con l’aggiunta della ASL, di qualche ufficio che si occupa di lavoro e di altri, ciascuno dei quali si occupa di qualche cosa. Lo stesso accade se vuoi aprire un’industria, grande o piccola che sia. Paradossalmente, le differenze sono marginali.

2. Prime semplificazioni: l’autorità e il suo silenzio.
Intorno a questo rapporto noi giriamo da sempre, e comunque fin dalla formazione dello Stato unitario e dall’assoggettamento dell’amministrazione ad un sistema di leggi che il cittadino poteva far valere di fronte al giudice. Solo nel 1990 si aprì o per meglio dire si tentò di aprire un’era nuova. Con la legge sul procedimento amministrativo, la celeberrima l. n. 241 dell’8 agosto 1990, si dispose che la risposta alla presentazione del modulo – cioè la decisione sulla domanda di autorizzazione, concessione, permesso e così via – non era più riservata alla sola autorità competente o all’insieme delle autorità competenti (co-mune, difesa, sanità, beni culturali, per ricordare quelle che più spesso si incontrano). Si poteva aprire un dialogo unitario con tutte le amministrazioni interessate, attraverso il c.d. contraddittorio nel procedimento amministrativo; si potevano conoscere e condividere i documenti, in quanto veniva introdotto il diritto di accesso agli atti dell’autorità; in sintesi, si poteva “partecipare” al procedimento. La c.d. conferenza di servizi, complicata struttura dalle molte facce, integrava il contraddittorio consentendo una forma quasi collegiale di decisione.
Questa esperienza si è sviluppata negli anni. Al dialogo “attivo”, in seguito al quale cioè l’autorità doveva esprimersi, si sono aggiunti due succedanei, che, nella forma attuale, vennero introdotti intorno al 2005. Il primo è il c.d. silenzio assenso. Tra la fine dell’800 ed i primi del ‘900 il non fare dell’amministrazione, il suo tacere nei rapporti con il cittadino, grazie alla giurisprudenza era assurto ad istituto giuridico per consentire la tutela giurisdizionale anche in caso di inerzia dell’autorità sulle domande o istanze. In altri termini, al ricorrere di determinate condizioni [2], il silenzio venne concepito come “provvedimento”, ovviamente negativo. Nel 2005 si dispose che potesse avere anche valore positivo, vale a dire di vero e proprio “provvedimento” autorizzatorio o concessorio.  Si diede così, o per meglio dire ci si illuse di dare al tacere dell’autorità, protrattosi per un certo periodo di tempo, il valore formale – e  positivo – di esercizio del potere attribuitole. Valeva e vale in un numero relativamente limitato di ipotesi; nessuno se ne fida perché il terzo interessato e soprattutto la stessa autorità rimasta silente possono insorgere e paralizzare l’inceptum.
Il secondo succedaneo del dialogo attivo, di cui si diceva, consistette e consiste nel dare un significato sostanziale al solo fatto dell’avvio di un procedimento. Si dice cioè che in un gran numero di casi, da ultimo amplificati dal d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, chi vuol fare qualche cosa può attivare una procedura con la quale mette l’autorità a conoscenza di quel che si propone di realizzare; passato un certo tempo – o subito, addirittura – l’intraprendente può cominciare a fare. L’idea è tanto bella quanto povera. Chi comincia così non è al sicuro di nulla. L’autorità, il terzo, i terzi, i quarti possono insorgergli contro e fermarlo.

3. Autorità e cittadini.
In effetti, il problema è un altro. Non sta (solo) nel semplificare i moduli o i procedimenti con tutti i moduli che essi richiedono. Il problema sta nel rapporto tra autorità e cittadino, e viceversa, da cui nasce l’ubiquitaria necessità del modulo e del procedimento. E così il problema, il vero problema della semplificazione non sta (solo) in qualche riscrittura di forme procedurali, ma in un ripensamento del rapporto tra autorità e cittadino, dal quale dipendono tutti i discorsi su moduli e procedimenti.
La questione sembra porsi nei termini che seguono.
Si può dire con un certo livello di approssimazione che ogni autorità, ogni amministrazione, incarna due anime. Una è se stessa, l’autorità in quanto tale, organismo, apparato che persegue il proprio interesse. In quanto dell’autorità, tale interesse è ex se dominante e prevalente – pubblico come si dice in termini generali, eludendo la questione. L’esempio più chiaro si ha nella difesa, sia sul piano dell’ordine pubblico che del grave conflitto con altri Stati. L’interesse legittima l’autorità – lo Stato – ad esprimersi con la forza, addirittura con le armi. Ma il fenomeno ha carattere generale: quasi tutto quello che l’autorità fa, compie, decide, anche se fatto nel suo personale interesse (acquisto di materiali d’ufficio, ad es.), appartiene al “pubblico” e ne segue le regole.
L’altra anima dell’autorità è la collettività da cui nasce e su cui si fonda. Il discorso qui è molto più complesso. Salvi forse i casi di Stati nati popolari, democratici, come si direbbe oggi (Roma, Atene e Sparta, gli Stati Uniti d’America), la vocazione prima dell’autorità è sfruttare la propria comunità di riferimento, perché ne ha bisogno. È la principale fonte dei mezzi con cui può operare. Basti pensare ai mille aspetti che ha avuto ed ha l’imposizione fiscale, dai dazi e dalle imposte di consumo alle ben più sofisticate imposte sui redditi e sul valore aggiunto. L’imposizione fiscale colpisce la collettività nei suoi singoli membri, quando producono o consumano ricchezza, trasferendone una cospicua parte all’autorità.
Non si può poi dimenticare che la vita collettiva è comunque complessa. Vuoi sotto la pressione della collettività, vuoi per sua iniziativa, l’autorità ritiene necessario dettare norme e regole per migliorarne il funzionamento, incrementarne la capacità di produzione e di reddito. Sempre usando un linguaggio approssimativo si può dire che nasce di qui quell’assetto ordinamentale dei rapporti che prende il nome di diritto pubblico. Il cittadino ne viene investito perché il suo operare non è rimesso solo alla sua libertà, con tutte le responsabilità che ne derivano, ma deve svolgersi “secondo le regole”, secondo cioè norme prestabilite, cui deve sottostare. Come la comune esperienza insegna, l’imposizione di siffatti complessi di regole porta con sé la creazione di un sistema di controlli, preventivi e successivi, volti a garantire il rispetto delle regole. I limiti di velocità, i divieti di usare sostanze inquinanti sono semplici e sicuri esempi non solo della necessità di una disciplina che li prescriva, ma anche del controllo dei comportamenti per rendere effettiva la disciplina – o, più esattamente, per conseguire i risultati da essa divisati.

4. Segue: autorità, cittadini, complessità.
L’evoluzione di questo impianto è chiara. Quanto più complessa diventa la vita, tanto più incombente e pressante è la presenza dell’autorità. Basti pensare all’edilizia: fino al 1942 la massima parte delle costruzioni poteva essere realizzata senza bisogno di permessi o autorizzazioni. Nel 1942 si introdusse la necessità di ottenere la licenza edilizia del comune per costruire nell’abitato; nel 1967, con la l. n. 765, l’obbligo di licenza venne esteso alle costruzioni su tutto il territorio comunale; con la l. n. 10 del 1978 si trasformò la licenza, fino ad allora gratuita, perché considerata strumento che consentiva l’esercizio di un diritto inerente alla proprietà fondiaria, in “concessione” onerosa, in base alla premessa di principio che il diritto di costruire non era coessenziale al diritto di proprietà. Oggi ha cambiato nome, ed è divenuta permesso di costruire; l’onerosità è rimasta. In breve volgere di anni alle licenze, alle concessioni, ai permessi dell’autorità territoriale di riferimento, i comuni, si aggiunsero quelli delle Soprintendenze, di commissioni di vario genere, delle autorità deputate alla sicurezza ed alla prevenzione degli incidenti, alla tutela del paesaggio, etc. etc. Spero di non offendere nessuno dicendo che, con tutto il sistema dei piani e delle autorizzazioni che hanno comunque rallentato enormemente le attività che coinvolgevano l’edilizia, il massacro delle coste è stato consumato; si è visto poi quali effetti ha avuto il terremoto dell’Aquila su edifici recenti, quando certo nessuno ignorava la natura sismica di quelle zone. Chi ha rilasciato certi permessi di costruire? Chi non ha visto che si costruiva senza permesso? O usando materiali impropri [3]?
Da questi brevi cenni si possono trarre due conclusioni. La prima è che la complessità della società esige norme che disciplinino i comportamenti dei singoli, nell’interesse della collettività. Sono norme che i singoli non riescono a darsi da soli. La personale sicurezza di Tizio che viaggia non dipende solo dalla sua prudenza. Dipende da come tutti si comportano. Richiede quindi controlli.
Ma il regime, il sistema di questi controlli preventivi e successivi è delicatissimo. Oltre un certo livello diventano soffocanti e se anche, in un’ipotesi in realtà tutta da verificare, producono comunque risultati di settore positivi [4], inducono poi all’elusione da un lato, e ad un soffocamento  burocratico di ampia e negativa portata dall’altro. Non si deve mai dimenticare che la società e la sua vita sono un mercato, il cui funzionamento – e quindi la sua efficienza o la sua paralisi – discende dalla qualità della regolazione e della sua gestione.

5. Per un ripensamento.
La soluzione del problema di una burocratizzazione soffocante e inutile non sta dunque, come a volte si è spinti a pensare, nell’eliminare ogni forma di controllo ex ante ed ex post dell’autorità amministrativa, affidandosi solo al rispetto delle regole da parte dei cittadini. Una soluzione di questo genere è impraticabile per una ragione semplicissima. Per arrivare al rispetto spontaneo delle regole, che non richieda più controlli, si dovrebbe raggiungere un livello etico della vita così alto, così profondamente radicato nella mente di ciascuno, da essere quasi impensabile. È pura astrazione, non pura teoria (che avrebbe molto senso).
Ciò che si può e si deve fare è diverso. È ripensare il rapporto tra autorità e cittadino in modo che esso possa svilupparsi lungo linee chiare e certe, al fine di renderne quanto il rispetto più possibile spontaneo ed immediato – semplice! –, parallelamente riducendo all’essenziale il ruolo dell’amministrazione.

5. Segue. Intorno alle regole.
Il discorso deve cominciare dalla legge. È tema difficile, che ha mille articolazioni. Basta qui fermarsi su due suoi aspetti di elevata criticità per quanto si va cercando di esplorare.
Si diceva un tempo che la legge deve essere generale ed astratta, in quanto per sua natura si rivolge ad un numero indeterminato di destinatari. Questo, ahinoi, non è un carattere necessario della legge. Il potere legislativo viene ordinariamente esercitato attraverso un circuito al quale partecipano sì governo e camere, con le competenti commissioni parlamentari, ma anche con la presenza e l’influenza di chi è interessato alla legge: e questi sono i soggetti più disparati, spinti dalle più varie ragioni. Essi vanno dalle singole amministrazioni agli enti locali alle varie organizzazioni sindacali, industriali, professionali. Le pressioni di questi interessi possono condizionare pesantemente i disegni e le proposte di legge, fino a stravolgerle. È purtroppo corretto dire che la veste formale dell’atto avente forza di legge prevale sull’assetto normativo, di carattere generale ed astratto, che dovrebbe essere proprio di un atto dotato di tanta forza. Tutto può diventare legge. Negli anni ne è derivata una legislazione di difficilissima lettura, intrinsecamente precaria. Sotto un titolo qualsiasi vengono inserite disposizioni di ogni genere, soggette a continui emendamenti, correzioni, modifiche, commi aggiunti ad altre leggi o in esse abrogati. Non è un caso che, nella prassi, quando si interviene su una certa normativa, sia richiamata la sola legge capostipite con la formula s.m.i., vale a dire “successive modificazioni e integrazioni”. Sono pochi coloro che sanno quale contenuto di s.m.i. si sia voluto modificare. La legge assume così carattere settoriale ed infrasettoriale, monopolio dei pochi specialisti della materia. Come è evidente, discendono da ciò un’incertezza diffusa sulla disciplina vigente in un dato momento e l’esaltazione del ruolo dell’amministrazione, che ha un potere di interpretazione, sindacabile solo dal giudice.
Il secondo aspetto è in un certo senso inverso al primo. Nelle leggi ricorre spesso il richiamo a materie o interessi globalmente considerati. Ad es. nel d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 (il d.l. per la crescita ed il consolidamento dei conti pubblici) con l’art. 31 sono stati liberalizzati gli esercizi commerciali. Il principio è sacrosanto, come si dice. Sennonché la formula è che “secondo la disciplina dell’Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza la libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi natura esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente e dei beni culturali”.
Una norma siffatta pone due ordini di problemi. Il primo è di carattere generale ed investe la norma in quanto tale. Se si richiama una materia – ambiente, ad es. – si richiama indirettamente e soprattutto indefinitamente tutto il complesso di norme relative alla materia. Ambiente è la tutela delle acque e la riduzione delle emissioni, la bonifica dell’amianto e la tutela delle foreste. Questa indefinita ampiezza della materia richiamata induce enormi difficoltà ed imprevedibili oneri burocratici. È indispensabile ovviare a questo, e stabilire sempre un collegamento tra la legge di merito, per così dire, e la legislazione di tutela di settore.
Il secondo è esemplificativo del primo, se così si può dire. Bene, benissimo, eliminare vincoli derivanti da contingenti ed altro, come ha fatto il d.l. di cui si va dicendo. Ma se rimangono fermi i vincoli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente e dei beni culturali (oltre a quelli urbanistici, prudentemente non menzionati, ma che permangono, in quanto non compresi tra quelli cancellati), questo significa che per aprire un esercizio commerciale bisogna ancora ottenere i pareri favorevoli di un numero indeterminato di autorità, ciascuna settorialmente competente. Senza nulla togliere alla necessità di salvaguardare la salute, i lavoratori, l’ambiente, i beni culturali, l’assetto urbano, ben poco sembra essere stato fatto per alleggerire il carico burocratico che grava su ogni iniziativa. Diciamo pure: una cosa è la salvaguardia della salute, dei lavoratori etc., altra è la trasformazione – e riduzione – di questa salvaguardia in vincolo di entità negativa imprecisata ed imprevedibile.
Non si può non aggiungere il profilo penale di tante, troppe materie. Succede spesso che la legge qualifichi reato la violazione di certe norme, anche se la violazione è stata consumata con la copertura di un permesso o autorizzazione che sia. Il giudice penale può “disapplicare” l’uno o l’altra, come si dice in gergo, ed accertare autonomamente se l’intervento è o non è conforme a legge. Questo accade in tutti i campi, dalla prevenzione degli incidenti sul lavoro alla tutela dell’ambiente, all’edilizia.
Tutto ciò è molto grave, perché introduce una componente ulteriore di incertezza in un sistema che certo non eccede in certezze. È indispensabile che il legislatore abbia il coraggio di intervenire decisamente, al fine di ripristinare la separazione delle competenze e dare a ciascuno la sua responsabilità. Non si deve dimenticare che il nostro ordinamento costituzionale si fonda sulla separazione dei poteri e che la pubblica amministrazione fa parte dell’esecutivo.

6. Intorno all’amministrazione.
Di fronte alla legge, quale che essa sia, dell’amministrazione sembra che si possa dire poco. Questo però non è vero. Merita ricordare nozioni elementari. L’amministrazione può avere e non avere poteri discrezionali. Se ha tali poteri, deve vagliare, ponderare, comparare etc. un’istanza pienamente conforme alla legge con altri assetti di interessi di rango superiore. È la celebre valutazione di opportunità. Se non gode di tali poteri, deve prendere atto della richiesta e adottare gli atti vincolati di sua competenza. Oggi questo aspetto della funzione amministrativa dovrebbe essere stato sostituito dalla SCIA, come si accennava sopra.

Sennonché che cosa significhi atto vincolato è un autentico mistero. La dottrina dice che è vincolato un atto, rispetto alla cui adozione non vi è potere di scelta. Se ci sono tutti i presupposti prescritti dalla legge deve essere adottato. Il discorso è però troppo semplice. La commissione di un concorso, ad es., deve valutare gli elaborati dei candidati. Stabilire se lo scritto di Caio, anonimo, merita 3,4,5,6,7 o 8 certamente non è esercizio di discrezionalità perché non c’è scelta di opportunità. Ma ben è valutazione che si fonda sul sapere e sull’esperienza dei commissari (non è un caso che sia praticamente insindacabile in giudizio). Questa valutazione non segue insomma un percorso di automatismo, esattamente come accade per molti atti c.d. vincolati.
Qui sta il punto cruciale. Quando si parla, come nella norma qui sopra ricordata, di vincoli connessi alla tutela della salute, dell’ambiente etc., non si evocano possibili poteri discrezionali, possibili valutazioni di opportunità su che cosa è più o meno opportuno fare e prescrivere. Si parla di attività amministrativa che deve esaurirsi nella valutazione di un progetto relativamente al suo impatto sul mondo circostante sotto un determinato profilo (tutela dell’ambiente ad es.), su cui l’amministrazione non si deve esprimere in termini generali ed astratti, ma limitatamente a quanto l’istante Caio ha dichiarato di voler fare. Per procedere a questa valutazione servono solo competenze tecniche specifiche, più o meno come accade per i concorsi.
Ebbene, in linea di fatto, la gestione di queste tematiche avviene in termini in tutto e per tutto equivalenti alla discrezionalità, ovviamente di modesto livello. I dipendenti del comune e della regione, competenti per una determinata pratica, esaminano passo passo i progetti, assumendo sempre norme tecniche a parametro di riferimento. Di fronte ad interventi di una qualche complessità, questo approccio genera una quantità enorme di lavoro, destinata a durare tempi epocali.
Che tutto ciò non vada bene è pacifico, ma è tutt’altro che irresolubile. Bisogna qui dire a chiare lettere che se ci sono norme tecniche da rispettare esse devono essere note ex ante in ogni dettaglio, affinché la progettazione possa sempre, ab origine, adeguarvisi. E come è compito del legislatore dettare le norme e pubblicarle nella G.U., così spetta alle amministrazioni operative predisporne la diffusione, ovvero fare in modo che qualunque interessato possa conoscerne non solo i contenuti ma anche e forse soprattutto l’interpretazione che se ne dà di comune in comune, di regione in regione.
Ora i tempi che noi viviamo ci danno gli strumenti non solo per rendere note tutte le norme in tutte le loro interpretazioni ed applicazioni, ma anche per usarle immediatamente sia in sede di progettazione dell’iniziativa, sia in sede di controllo successivo. Tutte le norme tecniche possono essere espresse in formato digitale, vale a dire come uguale, maggiore o minore di ogni possibile grandezza X, Y, Z … n. L’inserzione di questi blocchi di regole in un’applicazione, come si dice, mette chi progetta l’iniziativa in grado di concepirla, svilupparla e progettarla secondo le regole tecniche adottate da una certa amministrazione, esattamente come consente poi alla stessa amministrazione di controllarne la conformità alle proprie norme[5].
Tutto ciò viene fatto su larga scala per la gestione di processi ripetitivi, come ad es. il calcolo ed il pagamento degli stipendi del personale. Ma nulla preclude l’estensione di tale tipo di processo a tutto ciò che consiste nell’applicazione di norme tecniche alle varie fattispecie che si presentano alle amministrazioni, per ridurre il processo valutativo ad un raffronto tra i dati tecnici di progetto e quelli normativi, adottati in via generale dall’ amministrazione. Questo è pienamente fattibile e già è stato fatto in alcuni comuni. Realizzare questo progetto sarebbe una vera trasformazione epocale. Vero esercizio saggio del potere discrezionale sarebbe decidere di avviare e portare a termine quest’opera di razionalizzazione, per rendere preventivamente conoscibili con certezza le norme tecniche applicabili e valutare in base ad esse, su un computer, i dati tecnici del progetto.

7. Intorno al cittadino.
Quanto al cittadino, è il caso di dire che anch’egli deve fare la sua parte, esattamente come questa parte deve essere riconosciuta. Il nocciolo ruota intorno al principio che ciascuno è responsabile di quello che fa, come drammaticamente dispone e insegna l’art. 2740 cod. civ. In termini più semplici e chiari, si deve dire che chiunque esercita la propria autonomia imprenditoriale (e prima ancora negoziale) sa che, quando la sua iniziativa rileva sul piano generale – pubblico –, quindi praticamente sempre, essa deve rispettare una serie di regole tecniche che l’imprenditore solo in parte conosce (di sua esclusiva competenza è il rischio). Deve dunque valersi di tecnici.
Ebbene questi tecnici privati sono l’interfaccia naturale dell’amministrazione. Il punto cruciale è però che questo rapporto non si può esaurire nella presentazione formale del progetto. Come le amministrazioni dovranno avere il dovere di rendere pubbliche le loro norme tecniche, accessibili in qualunque momento e gestibili con immediatezza, grazie alla digitalizzazione delle loro prescrizioni, così i tecnici privati dovranno assumere piena responsabilità per la regolarità di quanto vanno a proporre. È il caso di dire che deve trattarsi di una responsabilità, di portata identica a quella del tecnico dell’amministrazione, chiamato a vagliare il progetto sotto il profilo della tutela di interessi dall’elevato grado di pubblicità, perché entrambi tenuti al rispetto delle stesse norme, nell’interesse di tutti.
Da qui può nascere un rapporto di ben altro livello ed altra qualità tra amministrazione e cittadini e tra cittadini ed amministrazione. Potrebbe venirne una non irrilevante semplificazione.

Note

1.  Oggi ampiamente ridotti, grazie a molte forme di autocertificazione.

2.  Più volte mutate nei decenni.

3.  Per comprendere appieno il fenomeno si deve aggiungere anche un’altra considerazione. La vita per sua natura guarda e mira al futuro. La modernità e la sua forza sono questo: guardare al futuro, progettarlo, realizzarlo. Quanto più forte è la cultura che accompagna questo processo, tanto più il moderno può accogliere in sé il passato ed esaltarlo. La gestione che da noi si fa del presente troppo spesso sembra dimenticare questo. Si cerca di ancorarlo al passato, come se il passato in sé fosse la vita. Credo che una riflessione pacata sulle Soprintendenze confermi in pieno questo che dico. Quando vietano, ad es., di dividere il salone di un palazzo storico per consentirne un uso adatto ai tempi, conservano e salvaguardano il palazzo per il futuro o, in perfetta buona fede, lo avviano a lenta ma inesorabile decadenza?

4.  La questione è semplice: quanto costano i controlli all’economia? Più precisamente, quale è il rapporto costi-benefici del sistema attuale?

5.  Si veda P. Ciocca – F. Satta, La dematerializzazione dei servizi della P.A. Un’introduzione economica e gli aspetti giuridici del problema, in Diritto amministrativo, 2008, fasc. 2, pagg. 283-296.