Piani urbanistici e mercato dei diritti edificatori
Mercato dei diritti ed efficienza
Se l’adozione del mercato risponde in prima battuta alla volontà di promuovere l’efficienza, ovvero l’uso ottimale delle risorse, il suo corretto funzionamento dipende nondimeno dall’esatta definizione degli elementi strutturali e dei titoli scambiati: se tali condizioni vengono a mancare, il mercato fallisce, cioè si rivela incapace di raggiungere gli obiettivi di efficienza a cui è deputato.
In questa ipotesi i diritti creati possono non essere scambiati a causa di specifiche imperfezioni del mercato stesso: per esempio, se il costo di usare il mercato è elevato o il beneficio procurato dallo scambio è basso, il titolare può non essere interessato a trasferire il diritto, ovvero i potenziali compratori rinunciano a perseguire gli acquisti. In letteratura si parla di tragedia degli anticommons generata da un’eccessiva frammentazione dei diritti che ne rende troppo onerosa la ricerca e l’acquisizione (Heller, 1998). I singoli proprietari possono poi decidere di usare strategicamente il proprio titolo per trarne il massimo beneficio, facendo leva su una sorta di potere di veto (di monopolio) quando i diritti sono limitati e la quota posseduta diventa decisiva per realizzare una data opera (questa è altresì la spiegazione economica per l’istituto dell’esproprio qualora si debbano realizzare opere pubbliche che richiedono l’acquisizione di un numero elevato di immobili contigui).
Di qui, dunque, la necessità, soprattutto nei mercati alla Coase creati ad hoc in specifici ambiti, della presenza vigile della regolamentazione anche attraverso istituzioni volte a promuovere lo scambio dei diritti, evitando le possibili impasse.
Nel caso dei titoli edificatori per favorire l’incontro tra domanda e offerta ed evitare comportamenti speculativi che possono bloccare lo scambio, vengono talora istituite borse o banche dei diritti che operano da intermediari. A titolo di esempio il sistema dei tradable permits associato alla trasformazione urbanistica della Pinelands National Preserve ha richiesto la creazione di una banca dei diritti che, da un lato, ha intermediato domanda e offerta, acquistando e rivendendo appunto diritti; dall’altro, ha svolto il ruolo di regolatore, intervenendo nella fissazione almeno parziale dei prezzi (Renard, 2007).
La complementarietà tra mercati e regolamentazione, peraltro, si verifica anche sul piano della definizione della volumetria. Infatti, la soglia di edificabilità complessiva socialmente ottimale deve essere fissata dal pianificatore in modo rigoroso, secondo criteri tecnici ben precisi e, naturalmente, il numero dei diritti assegnati, la cui somma deve rispettare tale limite, segue tale definizione.
In assenza di questa soglia, il sistema descritto perderebbe di significato: infatti, il mercato è meramente una tecnologia funzionale a scambiare titoli quando questi sono limitati, ovvero incontrano la natura di “risorsa scarsa”, allocandola a chi ne fa un uso con un valore sociale più alto[7]. Se la risorsa non è scarsa, il mercato non è necessario. Nel caso in esame, la “scarsità” è appunto introdotta artificialmente per non esaurire altre risorse deperibili: il territorio e il patrimonio naturalistico.
Consegue da quanto appena asserito che la cessione di volumetrie tra proprietari deve implicare per chi vende la perdita perpetua del diritto a edificare; in caso contrario, infatti, i fortunati proprietari di alcuni immobili si troverebbero nella felice situazione di possedere un’inesauribile miniera di diritti edificatori con conseguente possibilità di sviluppo illimitato dì volumetria. Il perseguimento dell’efficienza sarebbe naturalmente vanificato.
Il paradigma descritto richiede una finzione legale che scorpori lo ius
condi da uno specifico fondo e che lo esaurisca de jure una volta ceduto, benché de facto l’edificazione sia ancora possibile. Questa condizione, naturalmente, può essere garantita solo da un regolatore che faccia rispettare in modo rigido le decisioni prese.
L’ambiguo tema dell’equità
L’etichetta “perequazione”, si scriveva, allude all’obiettivo primario del sistema in esame di natura redistributiva, ovvero attenuare le iniquità prodotte dallo sviluppo urbanistico [8] attraverso una ripartizione – via diritti edificatori – del nuovo valore fondiario. La logica seguita mira a eliminare l’ingiustizia della lotteria edilizia, che assegna a un numero limitato di proprietari, senza merito alcuno, un accresciuto valore immobiliare in conseguenza di un cambiamento nel piano regolatore. Il ragionamento è affascinante, ma emergono alcune perplessità.
Innanzitutto, occorre considerare l’incapacità strutturale della libera negoziazione tra le parti di perseguire obiettivi connessi alla giustizia sociale. Ciò deriva dalle limitazioni intrinseche del mercato, che è in grado di perseguire l’efficienza, ma non l’equità.
Efficienza ed equità anzi rappresentano due criteri alternativi per allocare le risorse: la prima guarda alla società come a un unicum indistinto e sceglie la strada della produzione del maggiore valore complessivo; la seconda, viceversa, guarda ai singoli individui e promuove l’eguaglianza tra i membri di una data società. In definitiva l’accostamento perequazione e mercato suona come un ossimoro.
Inoltre, la distribuzione dei benefici nella perequazione urbanistica riguarda una fascia assai ristretta di individui, ovvero i proprietari di immobili dell’area in questione. Vengono completamente ignorate altre categorie: per esempio gli inquilini, che diventano quindi meno “eguali” degli altri e, magari, vedranno aumentare i canoni di locazione per effetto delle trasformazioni urbanistiche; ovvero ancora, i proprietari delle aree non incluse nel piano di trasformazione.
Note
7. Coase (1959) medesimo afferma chiaramente la necessità di questo requisito.↑
8. E dalle tecniche classiche di pianificazione, fondate sulla c.d. “zonizzazione”: Sandulli (1968), Bartolini (2008).↑