Piani urbanistici e mercato dei diritti edificatori

La perequazione urbanistica è stata introdotta di recente dai Comuni di Roma e di Milano, oltre che dal legislatore. Questa tecnica, sviluppata con prudenza e con obiettivi perequativi precisi negli Usa, viene interpretata in Italia in modo molto meno accurato e, soprattutto, viene finalizzata a obiettivi impropri, di cassa della finanza pubblica. La politica rischia di prevalere sull’ottimalità dell’uso del suolo.

Introduzione
Il recente decreto sviluppo ha introdotto alcune disposizioni volte ad agevolare la circolazione dei diritti edificatori e, dunque, lo sviluppo del loro mercato nel nostro Paese. Il tema è di estrema attualità, poiché tali disposizioni rappresentano un esplicito avallo, da parte del legislatore statale, alla sempre maggiore diffusione – a livello di legislazione regionale e di pianificazione locale – degli istituti legati alla tecnica c.d. della “perequazione urbanistica” per il governo del territorio.
Questa tecnica si ispira alla pratica di commercializzazione dei diritti edifi­catori diffusa negli Stati Uniti ed è stata recepita nel nostro Paese[1] attraverso una rilettura molto ampia del modello originario, che ha determinato, tra l’altro, applicazioni mutevoli nella casistica pratica. Nel sistema italiano sono stati ricondotti alle tecniche perequative istituti in realtà eterogenei, volti a perseguire in modo congiunto vari obiettivi – legati a seconda dei casi all’efficienza, alla distribuzione dei benefici connessi all’urbanizzazione di date aree e altro ancora – tramite la valorizzazione economica dello jus aedificandi generato da un certo suolo.
La perequazione vera e propria mira principalmente a rimediare all’ingiustizia introdotta dai piani urbanistici tradizionali i quali, con una sorta di lotteria, “premiano” i terreni oggetto di nuova edificabilità tramite incremento di valore e “puniscono” al contempo quelli vincolati, il cui valore si riduce (Sandulli, 1968; Stella Richter, 1968). Per ovviarvi, vengono assegnati titoli di edificabilità (ovvero quote di volumetria) a tutti i proprietari immobiliari di una data area definita dall’amministrazione al fine di ridistribuire i vantaggi delle trasformazioni urbanistiche. I proprietari di immobili vincolati, dunque, potranno beneficiare in modo indiretto, tramite la vendita delle volumetrie possedute, del valore della nuova edificabilità sui terreni in cui è possibile concentrare le volumetrie di nuove costruzioni.
Vengono però messe in gioco anche le c.d. “compensazioni”, che rappresentano nella pratica uno strumento alternativo all’espropriazione perché consentono di reperire aree destinate alla realizzazione di infrastrutture e opere pubbliche, per di più senza esborsi di denaro a carico delle amministrazioni: i terreni che “subiscono” questa destinazione vengono ceduti all’amministrazione in maniera consensuale dal privato proprietario, che ne riceve in cambio diritti edificatori, da utilizzare, ovviamente, in aree diverse, che possono essere localizzate anche al di fuori del comparto.
L’esperienza più recente ha anche determinato la diffusione di nuovi istituti, incentrati sull’utilizzo c.d. incentivante della attribuzione dei diritti edificatori, che quindi diventano una “leva” per il perseguimento di altri obiettivi, per esempio di benessere sociale o di valorizzazione ambientale[2].
Recentemente il dibattito sulla perequazione urbanistica è stato al centro, in particolare, di due importanti esperienze di pianificazione: Roma e Milano.
Il Piano regolatore generale del Comune di Roma (Prgc) richiama la perequazione come principio informatore di carattere generale, facendone poi derivare due istituti di concreta applicazione in sede di piano attuativo: la possibilità, da parte del proprietario dell’immobile, di ottenere volumetrie edificabili ulteriori (rispetto alla “dotazione” di partenza, rappresentata dalle volumetrie già riconosciute dal vecchio Prgc e confermate dal nuovo) alla condizione di trasferire al Comune la quota maggioritaria della superficie aggiuntiva; in alternativa, vi è la possibilità di versare nelle casse dell’amministrazione un “contributo straordinario”. Questa possibilità è stata oggetto di penetranti critiche, tanto che il Tar Lazio, investito di numerosi ricorsi in sede giurisdizionale, ha annullato il Prgc, ravvisando nelle sue prescrizioni una sostanziale espropriazione (quanto alla cessione di superfici) e l’imposizione di prestazioni patrimoniali (quanto al contributo straordinario) al di fuori dei casi consentiti dalla legge (statale). Di opposto avviso é il Consiglio di Stato che, in sede di appello, ha annullato le sentenze di primo grado, ritenendo legittimi questi istituti in quanto applicabili su base consensuale (vale a dire in virtù di “accordi” in sede attuativa tra privato e amministrazione) e, dunque, non oggetto di imposizione da parte del Comune[3].
Rilievi altrettanto penetranti hanno riguardato il Piano di governo del territorio del Comune di Milano (Pgt), adottato il 13-14 luglio 2010 e approvato il 4 febbraio 2011, in quanto utilizza i diritti edificatori – in particolare, la c.d. “incentivazione urbanistica” tramite aumenti delle volumetrie edificabili – come strumento per il conseguimento di obiettivi di pianificazione urbanistica coniugati a finalità di giustizia redistributiva e di sostegno della finanza pubblica. A tale proposito si rinvia al contributo di Spataro (2011), pubblicato su questa Rivista, che descrive con precisione l’iter del nuovo piano regolatore, i suoi obiettivi e gli elementi costitutivi dei singoli istituti.
La perequazione urbanistica è tema quanto mai ampio e problematico, tangente a diverse discipline. Senza entrare nel dettaglio, sia consentito qui ricordare alcuni spunti problematici da tempo al centro del dibattito riguardanti, rispettivamente, i rapporti tra: perequazione e obiettivi di pianificazione, perequazione e diritto di proprietà (in che modo la perequazione modifica lo statuto della proprietà fondiaria? Che natura hanno i diritti edificatori e qual è il loro regime giuridico?); infine, perequazione e principio di legalità (qual è il limite oltre il quale gli istituti perequativi non possono ricondursi all’esercizio degli ordinari poteri riconosciuti alle amministrazioni pubbliche?).
Il presente articolo prova a tracciare, senza pretese di completezza, un profilo critico della perequazione urbanistica – per come sembra essere intesa nel nostro Paese – in relazione alla logica che governa l’uso di diritti trasferibili come strumento per la regolamentazione.
In effetti, i potenziali vantaggi di un sistema fondato sulla perequazione sono evidenti. Occorre però chiarire in quale modo e a quali condizioni l’allocazione tramite il mercato possa promuovere il benessere sociale ed essere efficace per perseguire i numerosi obiettivi che i piani di governo del territorio fondati sulla perequazione urbanistica promettono di raggiungere.

Il contributo è stato precedentemente pubblicato sul numero 3/2011 della Rivista Consumatori, Diritti e Mercato.

Sviluppo urbanistico e diritti edificatori trasferibili
Nel sistema perequativo l’amministrazione locale individua le aree interessate dalla trasformazione e i comparti perequativi, all’interno dei quali vengono generati i diritti per tutti i proprietari (anche per quelli di immobili soggetti a vincoli) e che rappresentano egualmente il mercato nel quale tali diritti possono essere scambiati; infine, definisce quali terreni sono oggetto di edificazione, cioè possono “ospitare” le volumetrie da realizzare. Inoltre l’operatività in concreto fa leva su strumenti consensuali, vale a dire su accordi attuativi di piano tra am­ministrazione e privato, e sullo scambio volontario tra privati, che è appunto la condizione necessaria del mercato.
L’introduzione di diritti edificatori trasferibili ad hoc (i cosiddetti tradabie permit) ha luogo negli Usa ed è intimamente connessa alla volontà di preservare le libertà individuali di cui la proprietà e il suo pieno godimento sono un’espressione. Le pratiche regolatorie invero, pur perseguendo l’interesse collettivo, possono ledere il diritto dei proprietari di destinare i propri immobili agli usi che ritengono più adeguati e ne alterano inevitabilmente il valore di mercato. I vincoli di inedificabilità, per esempio, sottraggono al proprietario uno degli usi possibili della proprietà e rendono il valore del titolo per il mercato più incerto nella misura in cui tali vincoli non siano prevedibili ex ante.
L’attribuzione di un tradable permit è stato visto, pertanto, come uno strumento per compensare le limitazioni imposte ex lege ai proprietari immobiliari, restituendo così pienezza al diritto di proprietà e, nel contempo, dando concreta attuazione al principio costituzionale, che impone una “giusta compensazione” qualora le restrizioni regolatorie privino il titolare di una proprietà di tutto o parte del valore di un bene[4]. In altri termini il diritto di edificare sottratto dal vincolo di inedificabilità su un dato terreno viene restituito come permesso trasferibile da commerciare su un altro terreno.
Gli esempi più celebri dell’applicazione di tale tecnica negli Stati Uniti ri­guardano risorse naturali di grande valore – quali, per esempio, la Pinelands National Preserve in New Jersey, un’oasi naturalistica di 4.000 kilometri quadrati, o il territorio del Lago Tahoe, una risorsa di grande valore naturalistico tra California e Nevada – all’interno delle quali vi era la necessità di adeguare le strutture urbanistiche salvaguardando il patrimonio naturale per la collettività, senza gravare in modo esclusivo sui proprietari di fondi ritenuti inedificabili.
Il recepimento in Italia di questo strumento è avvenuto secondo una ratio diversa, e potenzialmente distorsiva, giacché occhieggia alle inesauribili esigenze della finanza pubblica: per superare ristrettezze di bilancio, i Comuni hanno riletto la compensazione via diritti edificatori come uno strumento “economico”[5], per finanziare lo sviluppo urbanistico, per “ricompensare” espropri e pagare in diritti extra la realizzazione di opere pubbliche, nel caso delle cosiddette opere a scomputo[6].
In Italia la perequazione interessa spesso le aree oggetto di trasformazione urbanistica che il piano regolatore destina da agricole a urbane, ovvero aree edificate soggette a radicale riforma strutturale. Tali aree, identificate dall’amministrazione comunale in modo autonomo e unilaterale, producono diritti attraverso l’individuazione di un indice perequativo che serve a calcolare le quote di pertinenza dei singoli proprietari di immobili.
I comparti perequativi, che rappresentano al contempo le aree di produzione dei diritti e il mercato nel quale possono essere scambiati, sono “contigui” o “discontinui” secondo criteri discrezionali dell’amministrazione. Nel primo caso, il perimetro su cui la perequazione insiste è ininterrotto e dunque i diritti verranno diretti a un’area per l’edificazione privata che rappresenta una frazione di tale territorio; nel caso di comparti discontinui, le aree non sono limitrofe e dunque gli immobili edificabili “importano” i diritti da immobili distanti (per esempio da una zona a un’altra della città).
Come si è accennato, poi, lo strumento perequativo, almeno in Italia, determina sovente due fenomeni. Da un lato, le aree prive dei diritti edificatori (perché ceduti) vengono trasferite all’amministrazione, che le destina a finalità collettive individuate dal piano regolatore; dall’altro, si profila la possibilità di incrementare le volumetrie totali attraverso il ricorso alle c.d. incentivazioni urbanistiche, vale a dire a forme contributive di varia natura (denaro, realizzazione di opere, cessione di parte della volumetria). Nel primo caso vi è il rischio di una sorta di esproprio “camuffato”, che usa il diritto edificatorio per catturare il consenso del proprietario riducendo a zero l’esborso comunale; nel secondo, si è in presenza di un vero e proprio strumento finanziario.
In entrambi i casi viene attribuita alla finanza pubblica locale un’inedita possibilità di battere moneta, modificando tuttavia il livello di sviluppo edilizio, “sbilanciato” secondo direttrici non più funzionali all’esigenza di governare il territorio, bensì a quelle di sopperire alle ristrettezze di cassa, in cambio di volumetria addizionale. Questa soluzione, inoltre, rende opaca la definizione della volumetria finale realizzata, che dovrebbe rappresentare, invece, l’obiettivo primario della pianificazione. Infine, interviene sui meccanismi di mercato, giacché l’incremento di titoli aumenta l’offerta complessiva di diritti con effetti svalutativi sul valore dei titoli già esistenti e in mano ai proprietari “perequati”.
L’uso di permessi edificatori trasferibili non può essere disgiunto dalla comprensione piena del funzionamento del mercato come alternativa alla regolamentazione, della quale si prova dunque a dare una sintetica descrizione nel seguito.

Il mercato dei diritti come strumento di regolamentazione
Il tratto caratterizzante della perequazione urbanistica è quello di creare titoli edificatori, trasferibili a titolo oneroso, al fine di favorire l’emergenza di uno specifico mercato, che serva di fatto gli obiettivi di natura regolatoria. La teoria sottostante, ispirata al lavoro del premio Nobel Ronald Coase (1960), avvalora la tesi che il mercato, oltre a essere una tecnologia di scambio, possa essere inteso come un sistema di contenimento di effetti dannosi o di conseguenze indesiderate – quelle, che gli economisti chiamano “esternalità negative” – attraverso la creazione di diritti ben definiti in grado di incorporarle (Ramello, 2011).
In questo senso, dunque, il concetto “diritto di proprietà” si estende ben oltre le tradizionali categorie giuridiche per definire più in generale un titolo esclusivo su una data risorsa, trasferibile in modo volontario e tramite l’esazione di un prezzo in un mercato specifico.
L’archetipo di un mercato di titoli trasferibili diretto a finalità regolatorie è quello dei diritti di emissione di gas nocivi. Qui il principio ispiratore rimanda all’idea che l’eccessiva produzione di inquinamento dipenda dal fatto che chi inquina non ne paga il costo, che viene quindi “socializzato” (non a caso Coase intitola il suo celebre contributo “Il problema del costo sociale”). Ciò si verifica proprio perché l’inquinamento non viene incluso nei prezzi dei beni scambiati e, quindi, viene prodotto senza limiti, benché la società nel suo complesso ne paghi il costo.
La creazione di diritti che attribuiscono ad alcuni titolari, quali imprese o Stati, quote di emissione per un totale ben definito serve a riportare nel mercato tali costi, con la duplice virtù di definire una soglia massima di inquinamento (il limite complessivo dato dalla somma delle quote individuali appunto) e la sua allocazione, tramite la negoziazione spontanea, a chi lo valuta di più.
Quest’ultimo criterio è principalmente diretto all’efficienza, giacché limita la possibilità di inquinare alle produzioni che generano un beneficio superiore al costo delle emissioni (e possono dunque permettersi di acquistare le quote).
Il primo criterio produce, invece, incentivi alla riduzione di emissioni inqui­nanti perché coloro per i quali è più economico usare tecnologie di depurazione saranno incentivati a percorrere tale strada, mentre coloro che non possono pagare il prezzo né dei diritti né della depurazione perché il valore della produzione è più basso del costo dì entrambi sceglieranno di non produrre e, quindi, di non inquinare. Anche in questo caso si promuove in definitiva l’efficienza, evitando le distorsioni di un eccesso di attività determinato dal trasferimento di parte dei costi alla società.
La pratica descritta trova oggi concreta applicazione in diversi ambiti: per esempio, per quanto riguarda le emissioni di anidride carbonica, anidride solforosa e altro, dall’Environmental protection agency (Epa) statunitense. Inoltre, a essa si ispira il modello dell’European emission trading system (Eu Ets) avviato nel 2005 dalla Commissione europea.
Il vantaggio del mercato dei permessi rispetto alla regolamentazione tradizionale, che impone limiti individuali con o senza il pagamento di tasse specifiche, è quello di permettere la definizione rigida di una soglia: l’insieme dei diritti assegnati raggiunge un limite conforme alle necessità della regolamentazione. Nel contempo, l’obiettivo prefissato non viene perseguito attraverso l’imposizione dall’alto, mediante gli strumenti imperativi della regolamentazione tradizionale, e diventa, dunque, più accettabile per gli attori del mercato (Ellerman, 2005).
Infine, la negoziazione è più idonea a far emergere il valore reale dei dirit­ti (e, quindi, il costo dell’inquinamento) rispetto alla decisione unilaterale di un’autorità centrale, che deve definire il prelievo fiscale con scarse cognizioni e, quindi, con maggiori probabilità di sbagliare la valutazione. È bene però precisare che la soluzione prospettata attribuisce al mercato un ruolo cruciale, ma non elimina la necessità del regolatore che da un lato definisce la dimensione massima di inquinamento e dall’altro verifica il rispetto delle regole.
Se si prova ora a intendere lo sviluppo urbanistico come un’attività produttrice di esternalità negative (per esempio, l’impatto ambientale di nuove costruzioni), il sistema descritto si applica facilmente all’ambito edilizio con un caveat. Lo sviluppo di volumetrie produce, infatti, due effetti disgiunti: da un lato, determina effetti simili all’inquinamento nella misura in cui altera la destinazione originale dell’area, che cambia la propria natura fisica e aumenta la densità edilizia; dall’altro, induce una sorta di “inquinamento positivo” per i proprietari fortunati, che vedono aumentare il valore dei propri fondi senza averne alcun merito. Quest’ultimo aspetto, si scriveva, è quello che genera l’iniquità determinata dalla lotteria dei piani regolatori.
La distribuzione di titoli a tutti i proprietari del comparto perequato – anche a quelli di terreni soggetti a vincolo – è invece volta ad allargare la rosa dei beneficiari, perseguendo quindi tramite il mercato l’obiettivo aggiuntivo dell’equità. Questo aspetto anzi è quello che nel nostro Paese giustifica l’uso del termine perequazione.
Efficienza ed equità diventano, quindi, i due pilastri dei provvedimenti perequativi italiani e sono strumenti per gli amministratori locali per la ricerca del consenso rispetto ai piani di governo del territorio. Nondimeno efficienza ed equità rappresentano criteri distributivi discrepanti, che meritano un approfondimento per valutare appieno quali possano essere gli esiti reali della perequazione.

Mercato dei diritti ed efficienza
Se l’adozione del mercato risponde in prima battuta alla volontà di promuovere l’efficienza, ovvero l’uso ottimale delle risorse, il suo corretto funzionamento dipende nondimeno dall’esatta definizione degli elementi strutturali e dei titoli scambiati: se tali condizioni vengono a mancare, il mercato fallisce, cioè si rivela incapace di raggiungere gli obiettivi di efficienza a cui è deputato.
In questa ipotesi i diritti creati possono non essere scambiati a causa di specifiche imperfezioni del mercato stesso: per esempio, se il costo di usare il mercato è elevato o il beneficio procurato dallo scambio è basso, il titolare può non essere interessato a trasferire il diritto, ovvero i potenziali compratori rinunciano a perseguire gli acquisti. In letteratura si parla di tragedia degli anticommons generata da un’eccessiva frammentazione dei diritti che ne rende troppo onerosa la ricerca e l’acquisizione (Heller, 1998). I singoli proprietari possono poi decidere di usare stra­tegicamente il proprio titolo per trarne il massimo beneficio, facendo leva su una sorta di potere di veto (di monopolio) quando i diritti sono limitati e la quota posse­duta diventa decisiva per realizzare una data opera (questa è altresì la spiegazione economica per l’istituto dell’esproprio qualora si debbano realizzare opere pubbliche che richiedono l’acquisizione di un numero elevato di immobili contigui).
Di qui, dunque, la necessità, soprattutto nei mercati alla Coase creati ad hoc in specifici ambiti, della presenza vigile della regolamentazione anche attraverso istituzioni volte a promuovere lo scambio dei diritti, evitando le possibili impasse.
Nel caso dei titoli edificatori per favorire l’incontro tra domanda e offerta ed evitare comportamenti speculativi che possono bloccare lo scambio, vengono talora istituite borse o banche dei diritti che operano da intermediari. A titolo di esempio il sistema dei tradable permits associato alla trasformazione urbanistica della Pinelands National Preserve ha richiesto la creazione di una banca dei diritti che, da un lato, ha intermediato domanda e offerta, acquistando e rivendendo appunto diritti; dall’altro, ha svolto il ruolo di regolatore, intervenendo nella fissazione almeno parziale dei prezzi (Renard, 2007).
La complementarietà tra mercati e regolamentazione, peraltro, si verifica anche sul piano della definizione della volumetria. Infatti, la soglia di edificabilità complessiva socialmente ottimale deve essere fissata dal pianificatore in modo rigoroso, secondo criteri tecnici ben precisi e, naturalmente, il numero dei diritti assegnati, la cui somma deve rispettare tale limite, segue tale definizione.
In assenza di questa soglia, il sistema descritto perderebbe di significato: infatti, il mercato è meramente una tecnologia funzionale a scambiare titoli quando questi sono limitati, ovvero incontrano la natura di “risorsa scarsa”, allocandola a chi ne fa un uso con un valore sociale più alto[7]. Se la risorsa non è scarsa, il mercato non è necessario. Nel caso in esame, la “scarsità” è appunto introdotta artificialmente per non esaurire altre risorse deperibili: il territorio e il patrimonio naturalistico.
Consegue da quanto appena asserito che la cessione di volumetrie tra proprietari deve implicare per chi vende la perdita perpetua del diritto a edificare; in caso contrario, infatti, i fortunati proprietari di alcuni immobili si troverebbero nella felice situazione di possedere un’inesauribile miniera di diritti edificatori con conseguente possibilità di sviluppo illimitato dì volumetria. Il perseguimento dell’efficienza sarebbe naturalmente vanificato.
Il paradigma descritto richiede una finzione legale che scorpori lo ius
condi da uno specifico fondo e che lo esaurisca de jure una volta ceduto, benché de facto l’edificazione sia ancora possibile. Questa condizione, naturalmente, può essere garantita solo da un regolatore che faccia rispettare in modo rigido le decisioni prese.

L’ambiguo tema dell’equità
L’etichetta “perequazione”, si scriveva, allude all’obiettivo primario del sistema in esame di natura redistributiva, ovvero attenuare le iniquità prodotte dallo sviluppo urbanistico [8] attraverso una ripartizione – via diritti edificatori – del nuovo valore fondiario. La logica seguita mira a eliminare l’ingiustizia della lotteria edilizia, che assegna a un numero limitato di proprietari, senza merito alcuno, un accresciuto valore immobiliare in conseguenza di un cambiamento nel piano regolatore. Il ragionamento è affascinante, ma emergono alcune perplessità.
Innanzitutto, occorre considerare l’incapacità strutturale della libera negoziazione tra le parti di perseguire obiettivi connessi alla giustizia sociale. Ciò deriva dalle limitazioni intrinseche del mercato, che è in grado di perseguire l’efficienza, ma non l’equità.
Efficienza ed equità anzi rappresentano due criteri alternativi per allocare le risorse: la prima guarda alla società come a un unicum indistinto e sceglie la strada della produzione del maggiore valore complessivo; la seconda, viceversa, guarda ai singoli individui e promuove l’eguaglianza tra i membri di una data società. In definitiva l’accostamento perequazione e mercato suona come un ossimoro.
Inoltre, la distribuzione dei benefici nella perequazione urbanistica riguarda una fascia assai ristretta di individui, ovvero i proprietari di immobili dell’area in questione. Vengono completamente ignorate altre categorie: per esempio gli inquilini, che diventano quindi meno “eguali” degli altri e, magari, vedranno aumentare i canoni di locazione per effetto delle trasformazioni urbanistiche; ovvero ancora, i proprietari delle aree non incluse nel piano di trasformazione.

È interessante notare a tale proposito che la letteratura economica propone opinioni contrastanti circa la necessità di redistribuzione della ricchezza, mentre concorda sui mezzi con cui questa può essere perseguita, avendo chiarito il principio che un sistema di imposizione progressivo funziona assai meglio dell’uso dei diritti di proprietà perché considera non il titolo oggetto di proprietà, ma il reddito, e si focalizza non sul ristretto gruppo dei proprietari, ma su una più ampia base di popolazione (Cooter e Ulen, 1999).
Nel caso in questione la perequazione ha necessariamente una portata limitata giacché estende i benefici di nuova edificabilità da “pochi proprietari” ad “alcuni proprietari”, lasciando fuori ampie fasce di popolazione, tra cui i proprietari di immobili non inclusi nelle aree di trasformazione.
L’amministrazione locale può in teoria attenuare tale iniquità attraverso la definizione di una geografia che allarga le maglie ad ambiti territoriali non contigui, come si scriveva in precedenza. Nondimeno questa pratica è assai contenuta e comunque incerta, perché la scelta del pianificatore diventa discre­zionale e poco trasparente. Se si superano i confini dell’ente locale, presuppone accordi con altre amministrazioni, che sono spesso difficili da raggiungere.
Infine, la perequazione è fondata, o se si preferisce genera, un equivoco: trattando in maniera identica i fondi compresi nel perimetro del comparto, vengono annullate differenze oggettive, come se costruire in centro a Milano fosse la stessa cosa che alla Bovisa; qualcuno parla di reverse discrimination (Bartolini, 2009). Un rimedio a tale appiattimento è rappresentato dalla classificazione dei suoli del Comune, che possono essere suddivisi in categorie “omogenee”. Questa soluzione presuppone però la preventiva determinazione dei criteri di classificazione e, quindi, l’utilizzo della discrezionalità amministrativa secondo criteri di pubblicità e trasparenza, che proprio in materia urbanistica vengono sovente ignorati.

Conclusioni
La logica del mercato “à la Coase” per promuovere l’efficienza impone una defi­nizione appropriata degli obiettivi e presuppone alcuni requisiti imprescindibi­li, secondo quanto si è cercato di illustrare nel presente contributo.
La sua efficacia nel governo del territorio è messa sovente in discussione e la letteratura scientifica non va oltre un tiepido entusiasmo per tale strumento, che nelle esperienze internazionali ha mostrato consistenti limiti (Renard, 2007).
Il sistema italiano presenta alcuni caratteri specifici, che introducono ulteriori ambiguità sulla capacità di questi strumenti di raggiungere obiettivi socialmente rilevanti.
Si allude, in primo luogo, alle stringenti necessità di cassa della finanza pubblica, che possono portare i piani di governo dell’esperienza nazionale a reinterpretare la disciplina in un modo incompatibile con la necessità di individuare soglie rigide di volumetrie e mantenere rigore nella pianificazione del territorio. Una concezione eccessivamente larga della compensazione che, deviando dai principi ispiratori, venga usata per produrre un “compenso” via nuovi diritti per le più disparate esigenze delle amministrazioni può pregiudi­care qualsiasi meticoloso esercizio pianificatorio, favorendo invece l’adozione di un uso spregiudicato e discrezionale dei diritti, che diventano una nuova carta moneta locale per le amministrazioni comunali.
Non si può trascurare, inoltre, che il nostro Paese ha un cronico orientamen­to per condoni (anche edilizi) e sanatorie, che mal si coniuga alla cessione in perpetuo dello ius edificandi. Sotto questo profilo, allora, le prescrizioni di piano che riconoscono incrementi di volumetria in cambio di denaro o simili (per esempio, contributo straordinario, incentivazione urbanistica) appaiono come una sorta di condono ex ante, che ha la conseguenza di allentare il meccanismo previsto dal modello iniziale. Rischiano, inoltre, di trasformare il mercato dei diritti in un sistema impositivo, nella misura in cui sia de facto possibile accrescere volumetria contro il pagamento di qualche balzello.
Un ulteriore elemento di preoccupazione è originato dalla vicinanza tra l’area pianificata e il suo governo: la logica del governo del territorio (così come i provvedimenti di giustizia sociale) può funzionare solo se riferita a livelli di rango più elevato dell’amministrazione locale.
Affidare pressoché totalmente la perequazione a un livello di regolazione e di pianificazione sostanzialmente locale non rischia solo di produrre iniquità. In effetti, non tiene nemmeno conto del fatto che una data regione non è pro­prietà solo dei cittadini residenti, ma di tutti gli individui che popolano una nazione, persino di quelli che devono ancora venire[9]. Tale ampiezza di obiettivi difficilmente può essere colta da istituzioni locali.
Infine, benché il mercato abbia la capacità in talune situazioni di promuove­re l’efficienza, esso non può essere interpretato come una panacea utilizzata per trattare qualsiasi obiettivo, magari più di uno al contempo. Il mercato, quando funziona (e ciò avviene quando i diritti sono ben definiti e delimitati, i costi d’uso sono contenuti e non sono possibili comportamenti strategici), ha un’uni­ca virtù: promuovere l’allocazione efficiente delle risorse. Eventuali altri bene­fici non stanno nel suo patrimonio genetico e se si verificano, questo avviene sostanzialmente per caso.
Pertanto, ogni forzatura nell’estendere le capacità del mercato rischia di diventare uno slogan vuoto, volto a rafforzare la legittimazione di date scelte politiche, non a certificare la volontà di perseguire l’ottimalità nelle scelte tecniche.

Riferimenti bibliografici

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Note

1.  L’art., 5 del d.1. 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla L. 12 luglio 2011, n. 106, introduce numerose misure: fra queste, al fine di liberalizzare le costruzioni edilizie, la «tipizzazione di un nuovo schema contrattuale diffuso nella prassi: la cessione di cubatura» (co. 1, lett. e); nonché, al fine di garantire certezza nella circolazione dei diritti edificatori, l’obbligo di trascrivere nei registri immobiliari, ai sensi dell’art. 2643 c.c., «i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale» (co. 3).

2. Per esempio, la creazione di una “dotazione” di aree pubbliche per standard aggiuntivi. Secondo Bartolini (2008), la perequazione troverebbe fondamento costituzionale nel principio di uguaglianza formale (art. 3 Cost.); le compensazioni in quello di indennizzabilità delle espropriazioni (art. 42 Cost.), mentre le premialità andrebbero ricondotte alle funzioni dello «stato del benessere e, quindi, al principio di eguaglianza sostan­ziale» (art. 3, co. 2, Cost.).

3. Le sentenze sul Prgc di Roma sono numerose. Per gli istituti di perequazione si v., in particolare, Tar Lazio, II, 04.02.2010, n. 1514, annullata da Cons. St., IV, 13.07.2010, n. 4545, in Foro amministrativo – CdS, 2011, 1, 125, con nota di commento.

4. L’indicazione è tratta dal quinto emendamento della Co­stituzione degli Stati Uniti, che recita appunto: «Nor shall private property be taken for public use, without just compensation». L’applicazione della compensazione ha una lunga storia giudiziaria tra cui, per esempio, il celebre caso Pennsylvania Coal Co. v. Mahon, 260 U.S. 393 (1922).

5. Questo utilizzo dello strumento perequativo sembra essere preso in considerazione dallo stesso legislatore statale. In effetti, nelle more delle vicende giudiziarie del Prgc di Roma, di cui si è detto sopra, il contributo straordinario previsto dal Piano, e annullato dal Tar Lazio, è stato “sana­to” dall’art. 14, comma 16, lettera f), del Decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, c.d. Decreto sviluppo, nell’ambito di alcune disposizioni volte alla stabilizzazione della finanza pubblica e dettate per Roma Capitale.

6. Sotto quest’ultimo profilo, la soluzione italiana è stata ritenuta dalla Corte di Giustizia in contrasto con l’ordinamento comunitario nella misura in cui autorizzava l’affidamento diretto di opere pubbliche, in violazione delle direttive comunitarie sugli appalti pubblici di lavori.

7. Coase (1959) medesimo afferma chiaramente la necessità di questo requisito.

8. E dalle tecniche classiche di pianificazione, fondate sulla c.d. “zonizzazione”: Sandulli (1968), Bartolini (2008).

9. In alcuni casi quali, per esempio la conservazione di risorse naturali o culturali, il concetto di equità ha una dimensione necessariamente intergenerazionale (Sax, 2001).