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Intervento del Prof. Angelo Maria Petroni in occasione della cerimonia commemorativa del 50° anniversario della morte di Luigi Einaudi – Dogliani, 8 ottobre 2011

di - 14 Ottobre 2011
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Einaudi economista fu antieconomicista nel negare che la vita sociale e politica possa essere interamente ricondotta alla produzione e alla distribuzione economica. Lo fu nel duplice senso di opporsi alle tesi marxiste nelle loro diverse versioni, e nel negare che il benessere generale fosse la pura somma degli interessi individuali.
I diversi e spesso contrastanti interessi individuali sono resi compatibili dall’esistenza dello Stato, il quale – come Einaudi affermò efficacemente – non è “una mera società per azioni”. Ma lo Stato che Einaudi reputava così necessario era cosa ben diversa dallo Stato come esso si era venuto affermando dalla fine della Belle époque, si era strutturato nel ventennio fascista, ed era per molti aspetti trapassato nell’Italia del dopoguerra: lo Stato neocorporativo. Egli considerava come esiziale il fatto di riconoscere uno statuto politico alle rappresentanze degli interessi: sindacati, ordini professionali, associazioni di categoria. Lo Stato neocorporativo era il regresso al Medioevo. E proprio dalla fine della società e dell’economia corporativa si erano originati i liberi parlamenti, e con essi la libertà politica, di intrapresa e di mercato.
Egli aveva compreso chiaramente sin dagli inizi del Novecento un fenomeno che le democrazie liberali del secondo dopoguerra avrebbero poi manifestato in tutta la sua ampiezza, cioè che l’interesse generale di una nazione non corrisponde affatto alla pura sommatoria ed alla collusione degli interessi delle singole categorie professionali e dei gruppi sociali ed economici. Il vero interesse generale può essere perseguito soltanto attenendosi a principi e a regole universali.
Costante rimase in Einaudi l’idea della irriducibilità della dimensione politica all’accordo corporativo da un lato, e alla gestione tecnocratica della cosa pubblica dall’altro. Riferendosi alle tendenze già evidenti nell’età giolittiana, ovvero di trasferire la legiferazione agli esperti, spesso utilizzando lo strumento dei decreti-legge, egli affermava: “diciamolo alto e forte, senza falsi pudori e senza arrossire: la potestà legislativa deve spettare esclusivamente al corpo ‘generico’. Alla Camera presa nel suo complesso, anche se incompetente nelle singole questioni e nei singoli suoi membri. Legiferare vuol dire stabilire dei principi e delle regole di condotta. A farlo non sono competenti gli specialisti e i ‘competenti’. Costoro hanno un ben diverso compito: quello dell’esecuzione. A legiferare essi sono disadatti, perché guardano a un solo aspetto della questione; mentre, anche nelle questioni minime, bisogna guardare al complesso. Per gli esperti, per la burocrazia, il Paese è materia da manipolare, è carne da macello; non anima da plasmare e da educare”.
Ammiratore della tradizione cosiddetta “realistica” della scienza politica italiana, ed in particolare di Gaetano Mosca, Einaudi condivideva la massima che gli stati non si governano con i paternostri. Ma egli non volle mai condividere le tesi di chi da ciò traeva la conclusione che la morale dovesse essere bandita dalla politica. Erano infatti per lui i valori morali quelli che, a lungo termine, permettevano la libertà e la prosperità delle nazioni.
Ciò è vero anche del principale contributo che alla teoria politica Einaudi abbia apportato, ovvero la sua visione federalista. Egli era federalista nel duplice e coerente senso di volere una struttura federale per lo Stato nazionale italiano, e di volere una struttura federale per l’Europa unita da un autentico pactum foederis, non da meri accordi tra Stati sovrani i quali – come egli scrisse mirabilmente nel 1954 discutendo della Comunità Europea di Difesa, la grande opportunità tragicamente persa dal nostro continente – sono oramai “polvere senza sostanza”.
Non è possibile qui ricordare la ricchezza delle posizioni federaliste di Einaudi. Sia consentito soltanto sottolineare che il suo federalismo aveva due motivazioni fondamentali. La prima era empirica, ovvero l’osservazione che gli assetti federali ovunque nel mondo erano quelli che maggiormente avevano garantito la pace, la democrazia, e la prosperità economica. La seconda era morale, ovvero la considerazione che permettere la sfera più ampia possibile di autogoverno corrispondeva ai principi di libertà e di responsabilità. Quest’ultimo aspetto è illustrato mirabilmente da un passo scritto da Einaudi pochi anni prima della morte: “Se regioni, province, comuni devono ricorrere ad entrate proprie, nasce il controllo dei cittadini sulla spesa pubblica, nasce la speranza di una gestione sensata del danaro pubblico. Se gli enti territoriali minori vivono di proventi ricevuti o rinunciati dallo Stato o vivono, come accade, addirittura di sussidi, manca l’orgoglio del vivere del frutto del proprio sacrificio e nasce la psicologia del vivere a spese altrui”.

Signor Presidente della Repubblica,
Signori partecipanti,
nella storia intellettuale prevalente del nostro Stato repubblicano a Einaudi è stata essenzialmente attribuita la figura del “buon amministratore”, che guidò con saggezza e rigore la moneta e il bilancio nei primi anni della ricostruzione. Allo statista che rivendicò sempre con orgoglio le sue radici piemontesi, e che faceva suo il motto “gouvernè bin”, che – egli ricordava – “nel genuino piemontese della nostra provincia di Cuneo [significa] ‘amministrare’ con tatto, con sapienza, con competenza”, questo ruolo non sarebbe certo dispiaciuto. Ma esso non rende adeguatamente conto del fatto che il liberalismo ed il liberismo di Einaudi non furono, come si è preteso per decenni, una vaga o peggio ancora una antiquata ideologia, residuo del secolo in cui era nato.

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