Intervento del Prof. Angelo Maria Petroni in occasione della cerimonia commemorativa del 50° anniversario della morte di Luigi Einaudi – Dogliani, 8 ottobre 2011

Noi celebriamo oggi il cinquantesimo anniversario della scomparsa di Luigi Einaudi, figlio illustre di questa terra, che per lui non fu soltanto luogo e storia degli affetti ma anche luogo e storia dei suoi valori morali e intellettuali. Nella terra di Langa Einaudi è ancora figura viva per l’esempio di rettitudine e di moralità che egli diede, e per come seppe riconoscere ed esaltare i valori dell’ordinato vivere civile nel quale eccellono da sempre le vostre comunità.
Egli fu uno dei maggiori economisti dell’Italia unita, ed economista rimase sempre nella sua attività di alta amministrazione e di statista, sino alla suprema magistratura della Repubblica nel cui esercizio, come Ella ha recentemente scritto, Signor Presidente, “Einaudi pose le basi per l’affermarsi del ruolo e del prestigio del Presidente della Repubblica”.
Einaudi si formò nella Torino degli anni Novanta dell’Ottocento, nella quale vivissima era ancora l’eredità intellettuale degli economisti del Risorgimento come Francesco Ferrara, patriota siciliano, federalista, maestro di Camillo Benso di Cavour, i quali consideravano l’economia politica come “la scienza dell’amor patrio”.
Einaudi fu liberale e liberista. Come ci si può attendere da un intellettuale vissuto a lungo, il suo liberalismo e il suo liberismo vennero declinati in modo diverso nelle diverse circostanze storiche nelle quali egli visse. E, come spesso avviene nel “ciclo di vita” intellettuale, alla giovanile ricerca di nuove idee e nuove forme sociali si sostituì progressivamente un pensiero maggiormente fondato sulla continuità della tradizione politica ed economica del liberalismo, e più sistematico. Un’evoluzione che dovette molto al fatto che fu soltanto nel secondo dopoguerra che egli ebbe responsabilità politiche e di governo.
Forse il punto archimedeo della eredità intellettuale di Einaudi si situa in quanto egli sostenne nella celebre polemica con Benedetto Croce sui rapporti tra liberalismo e liberismo, ovvero la imprescindibilità della libertà economica per un qualsiasi Paese politicamente libero e insieme per la ricchezza delle Nazioni. La base della sua tesi voleva essere eminentemente scientifica. Il libero mercato, nel duplice senso di mercato interno e di apertura al commercio internazionale, dove non prevalessero monopoli o rendite di posizione, aveva dimostrato la propria superiorità insieme politica ed economica sul piano teorico e su quello storico.
La scienza economica rispecchia la tendenza naturale dell’uomo all’autointeresse ed esprime le leggi oggettive che governano la produzione e lo scambio. Ma per Einaudi autointeresse e necessità nomica andavano sempre visti in connessione con l’elemento morale, che pone l’individuo e le sue facoltà come fine del sistema economico. In questo egli fu profondamente tributario ai filosofi dell’Illuminismo scozzese, e in particolare ad Adamo Smith.
Neanche nei periodi di imperante positivismo Einaudi aderì alla lettura che rendeva la Ricchezza delle nazioni luogo di esaltazione di un egoismo individualistico. Per Einaudi era una “invenzione” degli antiliberisti, “si chiamassero o si chiamino essi protezionisti o socialisti o pianificatori” la tesi secondo la quale “i singoli uomini urtandosi l’un l’altro finiscono per fare l’interesse proprio e quello generale”.
Per Einaudi non riusciremmo a spiegare neppure gli stessi fenomeni economici qualora non considerassimo le credenze morali degli individui, le loro aspirazioni ed il loro rispetto di valori che trascendono la ricchezza ed il benessere materiale. Piero Gobetti sintetizzò mirabilmente la visione di Einaudi, definendola “scienza economica subordinata alla morale”.
È in questa visione che si comprende appieno la critica che egli fece di John Maynard Keynes riguardo alle cause della crisi economica dei primi anni Trenta. Parole profetiche davanti alla crisi di oggi. Per Einaudi essa fu innanzitutto una crisi morale, e pertanto non poteva essere risolta con gli strumenti monetari e di bilancio indicati dall’economista inglese. Così scriveva: “Come si può pretendere che la crisi sia un incanto, e che col manovrare qualche commutatore cartaceo l’incanto svanisca, quando tuttodì, anche ad avere gli occhi mediocremente aperti, si è testimoni della verità del contrario? Si osservano, è vero, casi di disgrazia incolpevoli, di imprese sane travolte dalla bufera. Ma quanti e quanti esempi di meritata punizione. Ogni volta che, cadendo qualche edificio, si appurano i fatti, questi ci parlano di amministratori e imprenditori, o avventati, o disonesti. Le imprese dirette da gente competente e prudente passano attraverso momenti duri, ma resistono. Gran fracasso di rovine invece attorno a chi fece in grande furia di debiti, a chi progettò colossi, dominazioni, controlli e consorzi; a chi, per sostenere l’edificio di carta, fabbrica altra carta e vendette carta a mezzo mondo; a chi invece di frustare l’intelletto per inventare e applicare congegni tecnici nuovi o metodi perfetti di lavorazione e di organizzazione, riscosse plauso e profitti inventando catene di società, propine ad amministratori-comparse, rivalutazioni eleganti di enti patrimoniali”.
Il mercato ha bisogno di istituzioni, di norme di comportamento, il cui orizzonte funzionale e temporale oltrepassa i singoli interessi individuali. Di qui il ruolo che egli attribuiva allo Stato, pur nella forte sua adesione ai principi liberisti per i quali lo Stato medesimo rappresentava una perenne fonte di pericoli. Questi pericoli Einaudi li evocò chiaramente nel 1899 – aveva appena 25 anni – , nel delineare il programma di un partito liberale: “la principale condizione affinché la ricchezza possa aumentare è la mancanza di ostacoli e di impedimenti posti dallo Stato a questo sviluppo e a questo incremento. In Italia lo Stato è uno dei più efficaci strumenti per comprimere lo slancio della iniziativa individuale sotto il peso di imposte irrazionali e vessatorie e per divergere gli scarsi capitali delle industrie che sarebbero naturalmente feconde, per avviarli alle industrie che diventano produttive grazie soltanto ai premi, ai dazi protettivi, alle estorsioni esercitate in guise svariate a danno dei contribuenti”.

La medesima posizione la manterrà più di mezzo secolo dopo, esprimendo il suo pessimismo per “l’irrigidimento della società economica” causato dal proliferare di quelli che egli chiamava “municipalizzatori, statizzatori, socializzatori”. Einaudi giunse a teorizzare l’esistenza di un “punto critico” di non ritorno, diverso per ogni diversa società, eppure esistente per ognuna di esse, oltrepassato il quale il prevalere dello spirito egualitaristico e del dirigismo economico mettevano in pericolo “l’esistenza medesima della libertà dell’uomo”. Einaudi riteneva che quel “punto critico” fosse già stato toccato dall’Italia degli anni Cinquanta.
Nette furono quindi le sue critiche alla onnipervasività di quelle ideologie con le quali veniva rivendicata una crescente eguaglianza materiale svincolata da ogni considerazione sull’apporto dato dagli individui al benessere degli altri, e sui loro meriti morali.
Questa opposizione alle ideologie egualitariste non significa che Einaudi fosse insensibile a quella che, nel periodo della sua gioventù, veniva chiamata “la questione sociale”. Tutt’altro. Il giovane Einaudi ebbe in grande favore le leghe operaie, e la loro funzione di “riscatto” delle classi povere. Egli ebbe gran simpatia per le leghe perché esse esprimevano la concreta volontà di elevare la propria posizione attraverso l’etica del sacrificio e del risparmio. Esaltò sempre il ruolo positivo della dialettica sociale, “la bellezza della lotta”, come egli scrisse nel 1924 in polemica con il sorgere del corporativismo fascista e con le visioni tecnocratiche.
E se fu contrario alle ideologie egualitariste di matrice socialista Einaudi, seguace in questo del radicalismo di John Stuart Mill, considerò che principio fondamentale della concezione liberale della società fosse l’eguaglianza nei punti di partenza tra tutti gli individui. Dal che discendeva, tra le altre cose, il suo essere favorevole a significative imposte di successione.
Allo stesso modo, diversamente da molti economisti liberali, Einaudi non riteneva che il paradigma dell’homo oeconomicus potesse e dovesse escludere ampi e sistematici interventi in materia di politica sociale. Permettetemi di ricordare soltanto un passo del 1944: “in una società di uomini perfetti e previdentissimi in cui lo schema della concorrenza si attuasse perfettamente, i salari delle industrie rischiose sarebbero più alti e i lavoratori accantonerebbero di più. Poiché gli uomini non sono né perfetti, né previdenti, giova che l’assicurazione sia obbligatoria”.
Einaudi liberale e liberista non fu mai contro lo Stato. Non lo fu innanzitutto proprio per ragioni fondate sulla scienza economica. Come egli scrisse nel 1919, “il massimo di produttività è uno solo e questo si raggiunge con una data combinazione dei vari fattori, quella che l’esperienza dimostra la più conveniente.
La teoria economica finanziaria afferma che in quella data combinazione entra anche lo Stato e che quindi il pagamento di una data imposta, quella dimostrata più conveniente dall’esperienza, è condizione necessaria perché lo Stato intervenga nella misura più opportuna, come fattore di quella combinazione complessa, la quale dà luogo al massimo di produttività”.
Non era incoerente che egli, “appartenente alla schiera degli economisti detti volgarmente ‘liberisti’ ”, attribuisse questo ruolo allo Stato, “essendo caratteristica degli economisti dichiarare preferibili certe azioni non perché compiute dagli individui, ma perché più economiche, più feconde, a parità di costi, di altre, sia che esse siano compiute dagli individui o dallo Stato. Questa è la sola e aurea norma di condotta economica. Affermare che gli economisti sono contrari allo Stato è dir cosa altrettanto insensata come chi dicesse che certi astronomi sono nemici del sole, della luna o delle nuvole”.
Lo Stato, e solo lo Stato, poteva fare cose quali “l’illuminazione, il piano regolatore, i giardini e gli edifici pubblici”. Queste “danno luogo a imposte pagate volentieri, perché i contribuenti sentono il vantaggio della spesa pubblica maggiore dei godimenti superflui privati a cui si è dovuto rinunciare”, sebbene non concorrano direttamente alla formazione del reddito individuale. Ma lo Stato ha anche una funzione direttamente produttiva: ferrovie, magazzini generali, ponti, canali di irrigazione – e, diremmo noi oggi, areoporti e reti di telecomunicazione – sono infatti indispensabili per la ricchezza di una nazione.
Attribuire un ruolo produttivo allo Stato non significava affatto che Einaudi fosse a favore della sua espansione nella sfera economica. Da liberale, per lui vi era una netta differenza tra ciò che era di pubblica utilità, e ciò che non lo era. Sedendo sui banchi del governo, così egli replicava nel giugno del 1947 a coloro che vedevano nell’espansione dello Stato imprenditore la soluzione allo sviluppo economico del Paese: “Se l’Iri possiede alberghi, aree fabbricabili, case di affitto, terreni, ghiacciaie e altre imprese di siffatta natura, che non presentano nessun interesse pubblico, non vedo ragione perché l’Iri non abbia gradatamente a spogliarsene, vendendo ai prezzi più alti possibili, facendo oggi buoni affari, in confronto ai prezzi di acquisto; non vedo perché l’Iri non possa, con buoni risultati finanziari, alienare quelle imprese che non rappresentano nessun interesse dal punto di vista pubblico, per facilitare la vita delle altre sue imprese, e cioè per fornire, contribuire a fornire mezzi finanziari alle altre sue imprese le quali abbino veramente interesse pubblico”.

Einaudi economista fu antieconomicista nel negare che la vita sociale e politica possa essere interamente ricondotta alla produzione e alla distribuzione economica. Lo fu nel duplice senso di opporsi alle tesi marxiste nelle loro diverse versioni, e nel negare che il benessere generale fosse la pura somma degli interessi individuali.
I diversi e spesso contrastanti interessi individuali sono resi compatibili dall’esistenza dello Stato, il quale – come Einaudi affermò efficacemente – non è “una mera società per azioni”. Ma lo Stato che Einaudi reputava così necessario era cosa ben diversa dallo Stato come esso si era venuto affermando dalla fine della Belle époque, si era strutturato nel ventennio fascista, ed era per molti aspetti trapassato nell’Italia del dopoguerra: lo Stato neocorporativo. Egli considerava come esiziale il fatto di riconoscere uno statuto politico alle rappresentanze degli interessi: sindacati, ordini professionali, associazioni di categoria. Lo Stato neocorporativo era il regresso al Medioevo. E proprio dalla fine della società e dell’economia corporativa si erano originati i liberi parlamenti, e con essi la libertà politica, di intrapresa e di mercato.
Egli aveva compreso chiaramente sin dagli inizi del Novecento un fenomeno che le democrazie liberali del secondo dopoguerra avrebbero poi manifestato in tutta la sua ampiezza, cioè che l’interesse generale di una nazione non corrisponde affatto alla pura sommatoria ed alla collusione degli interessi delle singole categorie professionali e dei gruppi sociali ed economici. Il vero interesse generale può essere perseguito soltanto attenendosi a principi e a regole universali.
Costante rimase in Einaudi l’idea della irriducibilità della dimensione politica all’accordo corporativo da un lato, e alla gestione tecnocratica della cosa pubblica dall’altro. Riferendosi alle tendenze già evidenti nell’età giolittiana, ovvero di trasferire la legiferazione agli esperti, spesso utilizzando lo strumento dei decreti-legge, egli affermava: “diciamolo alto e forte, senza falsi pudori e senza arrossire: la potestà legislativa deve spettare esclusivamente al corpo ‘generico’. Alla Camera presa nel suo complesso, anche se incompetente nelle singole questioni e nei singoli suoi membri. Legiferare vuol dire stabilire dei principi e delle regole di condotta. A farlo non sono competenti gli specialisti e i ‘competenti’. Costoro hanno un ben diverso compito: quello dell’esecuzione. A legiferare essi sono disadatti, perché guardano a un solo aspetto della questione; mentre, anche nelle questioni minime, bisogna guardare al complesso. Per gli esperti, per la burocrazia, il Paese è materia da manipolare, è carne da macello; non anima da plasmare e da educare”.
Ammiratore della tradizione cosiddetta “realistica” della scienza politica italiana, ed in particolare di Gaetano Mosca, Einaudi condivideva la massima che gli stati non si governano con i paternostri. Ma egli non volle mai condividere le tesi di chi da ciò traeva la conclusione che la morale dovesse essere bandita dalla politica. Erano infatti per lui i valori morali quelli che, a lungo termine, permettevano la libertà e la prosperità delle nazioni.
Ciò è vero anche del principale contributo che alla teoria politica Einaudi abbia apportato, ovvero la sua visione federalista. Egli era federalista nel duplice e coerente senso di volere una struttura federale per lo Stato nazionale italiano, e di volere una struttura federale per l’Europa unita da un autentico pactum foederis, non da meri accordi tra Stati sovrani i quali – come egli scrisse mirabilmente nel 1954 discutendo della Comunità Europea di Difesa, la grande opportunità tragicamente persa dal nostro continente – sono oramai “polvere senza sostanza”.
Non è possibile qui ricordare la ricchezza delle posizioni federaliste di Einaudi. Sia consentito soltanto sottolineare che il suo federalismo aveva due motivazioni fondamentali. La prima era empirica, ovvero l’osservazione che gli assetti federali ovunque nel mondo erano quelli che maggiormente avevano garantito la pace, la democrazia, e la prosperità economica. La seconda era morale, ovvero la considerazione che permettere la sfera più ampia possibile di autogoverno corrispondeva ai principi di libertà e di responsabilità. Quest’ultimo aspetto è illustrato mirabilmente da un passo scritto da Einaudi pochi anni prima della morte: “Se regioni, province, comuni devono ricorrere ad entrate proprie, nasce il controllo dei cittadini sulla spesa pubblica, nasce la speranza di una gestione sensata del danaro pubblico. Se gli enti territoriali minori vivono di proventi ricevuti o rinunciati dallo Stato o vivono, come accade, addirittura di sussidi, manca l’orgoglio del vivere del frutto del proprio sacrificio e nasce la psicologia del vivere a spese altrui”.

Signor Presidente della Repubblica,
Signori partecipanti,
nella storia intellettuale prevalente del nostro Stato repubblicano a Einaudi è stata essenzialmente attribuita la figura del “buon amministratore”, che guidò con saggezza e rigore la moneta e il bilancio nei primi anni della ricostruzione. Allo statista che rivendicò sempre con orgoglio le sue radici piemontesi, e che faceva suo il motto “gouvernè bin”, che – egli ricordava – “nel genuino piemontese della nostra provincia di Cuneo [significa] ‘amministrare’ con tatto, con sapienza, con competenza”, questo ruolo non sarebbe certo dispiaciuto. Ma esso non rende adeguatamente conto del fatto che il liberalismo ed il liberismo di Einaudi non furono, come si è preteso per decenni, una vaga o peggio ancora una antiquata ideologia, residuo del secolo in cui era nato.

Einaudi sotto il fascismo venne pesantemente criticato per il suo liberismo, considerato antiquato rispetto alla pretesa modernità del corporativismo. Per farlo vennero persino citate a riprova le politiche del New Deal rooseveltiano. La visione di rigore nella gestione della moneta che guidò la sua azione di Governatore della Banca d’Italia, senza cedimento alcuno, e la sua opposizione alla continua espansione della mano pubblica in economia fecero poi considerare Einaudi come superato dalla generazione degli economisti italiani che prevalse nel secondo dopoguerra, sostenitori di quelle politiche di nazionalizzazioni e di deficit spending che egli reputava invece tanto errate sul piano scientifico quanto moralmente inaccettabili.
Il risultato è che ad Einaudi è stato riservato il destino di non essere stato ricompreso nella formazione della moderna “ideologia italiana” con il rilievo che egli avrebbe meritato. Dopo la sua morte non si portò a compimento la pubblicazione dell’opera completa secondo il piano pensato dallo stesso Luigi. La gran parte dei sui libri sono esauriti da decenni, talché nella stessa bella biblioteca a lui dedicata nella città che ci ospita non ne è presente, necessariamente, che numero molto limitato. Vi è davvero da augurarsi che proprio nel ricordo del cinquantenario della scomparsa Luigi Einaudi venga onorato di una edizione nazionale delle sue opere.
Nell’Italia che è così fortemente ostacolata nel suo sviluppo civile ed economico dal permanere di un corporativismo diffuso e da una Repubblica che nella sua struttura e nel suo funzionamento non riesce a coniugare adeguatamente autorità e responsabilità ai vari livelli, nell’Europa che ancora oggi non riesce a darsi un assetto autenticamente federale e liberale, la visione di Einaudi rappresenta un riferimento importante.
Lo rappresenta anche, e forse soprattutto, perché essa è costituita da un metodo critico di analisi della realtà e di risoluzione dei problemi più che da una teorizzazione sistematica.
Einaudi rifuggeva infatti, consapevolmente, dalle “grandi narrazioni” che furono così tipiche dei suoi tempi, e che oggi rivelano tutta la loro caducità e fragilità ideologica. Egli seguì sempre la massima richiamata da Cavour, per la quale nella dialettica intellettuale e politica non si devono mai opporre né fatti a principi né principi a fatti, ma si devono opporre principi a principi e fatti a fatti.
Einaudi, come John Maynard Keynes, come Friedrich von Hayek, riteneva che a guidare il mondo finalmente non fossero gli interessi materiali, ma le idee.
In armonia con questa visione, permettetemi di esprimere l’opinione che il modo eminente di rendere oggi omaggio ad Einaudi è di tornare a leggerlo e a farlo leggere, specialmente alle nuove generazioni. Con ciò comprendendo davvero come individui e come comunità non solo il senso e l’attualità delle sue idee e dei suoi ideali, ma anche della sua straordinaria opera al servizio esclusivo dell’Italia che di quelle idee e di quegli ideali fu coerente e coraggiosa applicazione.

Evento collegato:

Dogliani saluta il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione della celebrazione commemorativa nel 50° Anniversario della morte di Luigi Einaudi
8 ottobre 2011