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Intervento del Prof. Angelo Maria Petroni in occasione della cerimonia commemorativa del 50° anniversario della morte di Luigi Einaudi – Dogliani, 8 ottobre 2011

di - 14 Ottobre 2011
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La medesima posizione la manterrà più di mezzo secolo dopo, esprimendo il suo pessimismo per “l’irrigidimento della società economica” causato dal proliferare di quelli che egli chiamava “municipalizzatori, statizzatori, socializzatori”. Einaudi giunse a teorizzare l’esistenza di un “punto critico” di non ritorno, diverso per ogni diversa società, eppure esistente per ognuna di esse, oltrepassato il quale il prevalere dello spirito egualitaristico e del dirigismo economico mettevano in pericolo “l’esistenza medesima della libertà dell’uomo”. Einaudi riteneva che quel “punto critico” fosse già stato toccato dall’Italia degli anni Cinquanta.
Nette furono quindi le sue critiche alla onnipervasività di quelle ideologie con le quali veniva rivendicata una crescente eguaglianza materiale svincolata da ogni considerazione sull’apporto dato dagli individui al benessere degli altri, e sui loro meriti morali.
Questa opposizione alle ideologie egualitariste non significa che Einaudi fosse insensibile a quella che, nel periodo della sua gioventù, veniva chiamata “la questione sociale”. Tutt’altro. Il giovane Einaudi ebbe in grande favore le leghe operaie, e la loro funzione di “riscatto” delle classi povere. Egli ebbe gran simpatia per le leghe perché esse esprimevano la concreta volontà di elevare la propria posizione attraverso l’etica del sacrificio e del risparmio. Esaltò sempre il ruolo positivo della dialettica sociale, “la bellezza della lotta”, come egli scrisse nel 1924 in polemica con il sorgere del corporativismo fascista e con le visioni tecnocratiche.
E se fu contrario alle ideologie egualitariste di matrice socialista Einaudi, seguace in questo del radicalismo di John Stuart Mill, considerò che principio fondamentale della concezione liberale della società fosse l’eguaglianza nei punti di partenza tra tutti gli individui. Dal che discendeva, tra le altre cose, il suo essere favorevole a significative imposte di successione.
Allo stesso modo, diversamente da molti economisti liberali, Einaudi non riteneva che il paradigma dell’homo oeconomicus potesse e dovesse escludere ampi e sistematici interventi in materia di politica sociale. Permettetemi di ricordare soltanto un passo del 1944: “in una società di uomini perfetti e previdentissimi in cui lo schema della concorrenza si attuasse perfettamente, i salari delle industrie rischiose sarebbero più alti e i lavoratori accantonerebbero di più. Poiché gli uomini non sono né perfetti, né previdenti, giova che l’assicurazione sia obbligatoria”.
Einaudi liberale e liberista non fu mai contro lo Stato. Non lo fu innanzitutto proprio per ragioni fondate sulla scienza economica. Come egli scrisse nel 1919, “il massimo di produttività è uno solo e questo si raggiunge con una data combinazione dei vari fattori, quella che l’esperienza dimostra la più conveniente.
La teoria economica finanziaria afferma che in quella data combinazione entra anche lo Stato e che quindi il pagamento di una data imposta, quella dimostrata più conveniente dall’esperienza, è condizione necessaria perché lo Stato intervenga nella misura più opportuna, come fattore di quella combinazione complessa, la quale dà luogo al massimo di produttività”.
Non era incoerente che egli, “appartenente alla schiera degli economisti detti volgarmente ‘liberisti’ ”, attribuisse questo ruolo allo Stato, “essendo caratteristica degli economisti dichiarare preferibili certe azioni non perché compiute dagli individui, ma perché più economiche, più feconde, a parità di costi, di altre, sia che esse siano compiute dagli individui o dallo Stato. Questa è la sola e aurea norma di condotta economica. Affermare che gli economisti sono contrari allo Stato è dir cosa altrettanto insensata come chi dicesse che certi astronomi sono nemici del sole, della luna o delle nuvole”.
Lo Stato, e solo lo Stato, poteva fare cose quali “l’illuminazione, il piano regolatore, i giardini e gli edifici pubblici”. Queste “danno luogo a imposte pagate volentieri, perché i contribuenti sentono il vantaggio della spesa pubblica maggiore dei godimenti superflui privati a cui si è dovuto rinunciare”, sebbene non concorrano direttamente alla formazione del reddito individuale. Ma lo Stato ha anche una funzione direttamente produttiva: ferrovie, magazzini generali, ponti, canali di irrigazione – e, diremmo noi oggi, areoporti e reti di telecomunicazione – sono infatti indispensabili per la ricchezza di una nazione.
Attribuire un ruolo produttivo allo Stato non significava affatto che Einaudi fosse a favore della sua espansione nella sfera economica. Da liberale, per lui vi era una netta differenza tra ciò che era di pubblica utilità, e ciò che non lo era. Sedendo sui banchi del governo, così egli replicava nel giugno del 1947 a coloro che vedevano nell’espansione dello Stato imprenditore la soluzione allo sviluppo economico del Paese: “Se l’Iri possiede alberghi, aree fabbricabili, case di affitto, terreni, ghiacciaie e altre imprese di siffatta natura, che non presentano nessun interesse pubblico, non vedo ragione perché l’Iri non abbia gradatamente a spogliarsene, vendendo ai prezzi più alti possibili, facendo oggi buoni affari, in confronto ai prezzi di acquisto; non vedo perché l’Iri non possa, con buoni risultati finanziari, alienare quelle imprese che non rappresentano nessun interesse dal punto di vista pubblico, per facilitare la vita delle altre sue imprese, e cioè per fornire, contribuire a fornire mezzi finanziari alle altre sue imprese le quali abbino veramente interesse pubblico”.

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