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Per una macrostoria del diritto

di - 2 Luglio 2011
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7. – Importanti regioni del mondo attuale praticano sistemi giuridici – o frazioni di essi – le cui strutture sono quelle che dominavano incontrastate seimila anni fa.
Secondo tanti osservatori occidentali, le regole dei rapporti privati fino a ieri operanti in Cina e Giappone sarebbero regole non giuridiche, e dovrebbero invece discendere direttamente dalla filosofia, dalla tradizione e dalla convenienza sociale, perché vengono gestite senza corti, senza giuristi professionali, senza intervento dell’autorità, senza regole scritte.
Ma non si va lontano dal vero se si congettura che le regole dei rapporti privati operanti in Cina e Giappone fossero invece regole giuridiche, gestite senza che il potere centralizzato se ne interessasse[8]. Lo Stato si curava del diritto pubblico (l’accesso al potere, gli eventuali contropoteri, l’amministrazione, la pena afflittiva pubblica, ossia il diritto costituzionale, amministrativo e penale pubblico). Al resto provvedevano i gradini inferiori del tessuto sociale, con regole note a tutti, capaci di indicare una via d’uscita per ogni conflitto d’interessi, e capaci altresì di costringere il contendente riottoso, mediante sanzioni sociali irresistibili, a rispettare la soluzione elaborata per il suo caso.
Secondo la ricostruzione di maniera di cui parlo, il diritto cinese tradizionale non avrebbe regolato né la famiglia né la proprietà, mentre il diritto penale cinese avrebbe regolato i reati contro la famiglia e il furto. Se le cose erano poste così, il diritto penale cinese recepiva regole di famiglia e proprietà tratte da un altro sistema di fonti, cioè da quel diritto consuetudinario che gli occidentali scambiano per una etica filosofica.
In altre parole: in Estremo Oriente sono convissute fino a ieri su un solo territorio più sezioni di un unico ordine giuridico; tra queste la più arcaica postulava un potere non centralizzato e si annodava al diritto dell’età della pietra; quella successiva aveva caratteri più moderni, e postulava il potere centralizzato, pur facendo a meno del giurista e del legislatore; la più recente (calco euro-americano evidente) conosceva giurista e legislatore. E il «giurista» costruito sul modello europeo parla solo del diritto a modello europeo.
Nel 1980, nel corso di un colloquio di studii giuridici africanistici, si conclamava che tutta la vita giuridica dell’Africa subsahariana si svolge sotto la copertura del sacrale: capi di Stato sono stati divinizzati; altri capi di Stato hanno fatto scaturire decisioni politiche dai loro sogni; e così via[9]. Nello stesso anno una circolare della Corte suprema dello Zambia indicava come istruire cause in cui venga allegata l’opera o l’effetto dell’opera del mago[10].
In varii Paesi africani è praticata alla luce del sole una giustizia che ricostruisce il fatto con procedimenti magici[11].
In altre parole, diritto europeo introdotto al tempo coloniale e diritto che fa i conti con la magia possono convivere in paesi africani subsahariani.
I rilievi svolti fin qui debbono essere generalizzati.
In ogni ordinamento dotato di legislatore e di giurista culto sopravvivono elementi giuridici appartenenti alle fasi più primitive. Naturalmente questi elementi possono esistere nella devianza e nell’antidiritto (la vendetta ritualizzata sarda o siciliana, tipiche di una società a potere diffuso, costituiscono antidiritto in Italia). Ma possono invece essere integrati all’interno dell’ordinamento culto.

8. Una commistione di elementi può operare anche fra elementi muti ed elementi parlati.
Il nostro diritto positivo conosce la fonte parlata (le norme scritte, splendide per contenuto e per forma, che elaborano il parlamento e il governo) e la fonte muta (consuetudine, usi, contenuto che l’interprete assegna ad espressioni vaghe e indeterminate, quali «colpa», «malafede»). Conosce l’atto parlato (il negozio giuridico) e l’atto muto (l’atto semplice, o non negoziale, il fatto concludente). Talune categorie abbracciano nel loro seno ipotesi di atti parlati e di atti muti: così il contratto, che può constare di dichiarazioni, ma può constare di fatti concludenti (art. 1327, rapporti di fatto); così le conferme e le convalide, così l’accettazione d’eredità, che possono essere espresse o tacite.
Ma l’interesse del giurista è attratto in prima linea dalla fonte parlata e dall’atto parlato, e non sa avvicinarsi in modo appropriato alla fonte muta e all’atto muto.
Farò al proposito tre constatazioni.
A) Se una categoria abbraccia atti parlati e atti muti, la definizione della categoria si modella guardando al solo atto parlante. Il contratto è visto come coppia di dichiarazioni, come negozio bilaterale, come sequenza di una proposta (che giunge all’oblato) seguita da un’accettazione (che giunge al proponente). Il discorso sui contratti muti viene condotto frettolosamente, in modo incidentale. Dal punto di vista dogmatico, la sottocategoria dei contratti muti viene sbriciolata: l’art. 1327 viene presentato come norma speciale; il contratto muto di lavoro viene presentato come contratto nullo ma operante; il codice rifiuta di ricordare la società di fatto; la categoria generale dei contratti di fatto si è finalmente aperta un varco, ma non è ancora completamente accettata.
B) Quando si deve definire il fatto muto, esso si definisce ricorrendo all’analogia con l’atto parlato. Si spiega che il soggetto vuole un certo effetto giuridico, che egli deve dunque manifestare la volontà corrispondente, che a questo fine può essere sufficiente l’esecuzione dell’atto in questione; e l’esecuzione funzionerà qui come una (tacita) dichiarazione. Il soggetto silente consegna un frutto colto dal proprio albero, cioè dona. Il giurista della parola vede qui un incontro di dichiarazioni (proposta e accettazione di donazione tacite), seguite dal perfezionarsi della conditio iuris rappresentata dalla consegna[12].
C) Il diritto muto non poté battezzare gli istituti giuridici che, già allora, sorreggevano la società e ne condizionavano la sopravvivenza. Non poté battezzarli proprio perché era muto. Ma andò di pari passo con la mancata verbalizzazione la mancata concettualizzazione, e la nascita del linguaggio non suggerì di dare nomi ad istituti che funzionavano senza bisogno della parola. Beninteso, non conosco le prime lingue parlate dall’uomo. Ma constato, a grande distanza dal giorno in cui l’uomo ha parlato, che gli istituti più risalenti nel tempo, gli istituti «quae natura omnia animalia docuit», e che perciò non hanno bisogno, per esistere, di una parola che li esprima, non sono stati ben definiti nemmeno quando il vocabolario giuridico divenne ricco. Gli antichi Romani non definirono la proprietà, perché la trovavano ovvia di per sé; non definirono il potere familiare, per la stessa ragione; diedero definizioni malaccorte e retoriche del diritto di natura, ossia della consuetudine.
In chiave macrostorica, l’uomo parlante conosce concettualmente in modo diretto il diritto parlato, ch’egli ha fatto nascere e visto nascere. Non ha sentito il bisogno di guardare indietro al diritto muto, troppo ovvio per meritare una spiegazione. Quando per ragioni di sistema ha poi dovuto farlo, ha adottato ad esso figure proprie del diritto parlato, estendendo al diritto muto categorie che gli si adattano con sforzo e che, in qualche caso, non gli si adattano affatto.

Note

8.  SACCO, Cina, cit.

9.  Si tratta del 4º colloquio del Centre d’études juridiques comparatives dell’Università di parigi I, dedicato al tema Sacralité, pouvoir et droit en Afrique. Di esso fu pubblicata nel 1978, a cura del C.N.R.S., la tavola rotonda preparatoria. Maggiori notizie in SACCO, Di alcune convergenze, cit., ; e ID., Il diritto africano, Torino, 1995, 193 ss.

10.  La circolare, 28 aprile 1980, è stata spiccata dall’Office of the local Courts officer, sottoscritta da D.F. Zulu, e indirizzata a tutti i Court Clerks. Io l’ho trovata presso la local Court di Kawambwa. La circolare reagiva a precedenti disposizioni britanniche che proibivano alle corti di istruire accuse di magia.

11.  SACCO, Il diritto africano, cit., p. 199 e ivi nota 59.

12.  SACCO, Il fatto, l’atto, il negozio, Torino, 2005, pp. 134-199.

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