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Per una macrostoria del diritto

di - 2 Luglio 2011
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6. – Le relazioni di fatto tra gli uomini condizionano in modo evidente gli strumenti del diritto.
La società degli uomini muti conosce sicuramente modi di subalternazione degli individui; il loro prototipo è dato dall’obbedienza del bambino all’adulto, in ragione della forza fisica di quest’ultimo, e del bisogno di protezione del primo.
Varie forme di selezione servono a indicare quale, fra gli adulti del gruppo, avrà maggiori poteri. Presso numerose specie animali, la forza dei candidati al comando è saggiata in appositi tornei, e legittima la posizione sociale.
La magia istituisce rapporti di subalternazione di origine soprannaturale, ma non avrà motivo di scardinare in un solo colpo l’ordine naturale originario.
La cultura agricolo-pastorale che caratterizza il neolitico consente di giovarsi del lavoro (servile) altrui senza bisogno di armare il lavoratore, e senza affidargli la diretta presa di possesso del bene di consumo (era vero il contrario nella società paleolitica, che viveva di caccia e raccolta). Ciò può aver creato le condizioni ottimali per una subalternazione a base e con funzione economica (schiavitù o forme successive di servaggio privato).
La cultura del bronzo ha creato la subalternazione politica del cittadino al sovrano ossia allo Stato. E la subalternazione allo Stato è convissuta (rivaleggiando con essa, e preparandone solo in forma molto indiretta e lontana il deperimento e l’agonia) con la subalternazione fondata sulla filiazione, sulla prestanza fisica e sul prestigio, sul sacro, sul servaggio privato.
La nascita di una scienza giuridica non ha mutato i rapporti operativi, ha solo migliorato la conoscenza del rapporto fra chi comanda e chi ubbidisce. La nascita di un legislatore onnipotente non ha stravolto il quadro fissato in precedenza: anche se, verosimilmente, il legislatore avrà vocazione a occuparsi soprattutto della subalternazione del cittadino allo Stato.
La subalternazione ha come corollario la fedeltà, in virtù della quale il soggetto obbediente si astiene da ogni aggressione alla persona e ai beni del suo superiore. La fedeltà è qualcosa di diverso dall’obbedienza. Chi comanda ha normalmente modo di constatare se l’obbedienza è stata prestata. L’infedeltà, viceversa, si consuma essenzialmente nell’ombra. Ne segue che chi ubbidisce perché accetta convinto il suo ruolo subalterno è fedele, chi ubbidisce coatto è incline all’infedeltà; del pari, chi pensa di dovere un certo grado di obbedienza, e non più di quel certo grado, sarà incline all’infedeltà.
Fedeltà significa agire sistematicamente in modo non «naturale», operando contro il proprio interesse, per fare invece la volontà o l’interesse del proprio padrone. Ogni forma sociale suscita ovviamente vincoli di fedeltà in coloro che accettano pienamente la propria subordinazione. Possiamo immaginare giovani accoliti devotissimi ad un celebre sciamano, e disposti a non derubarlo e a gestire con dedizione i suoi ben avviati negozii (la percezione di un’offerta per ogni fattuccheria operata). Possiamo pensare al servo molto beneficato dal padrone (Giuseppe fatto ministro dal Faraone) che si vota alla volontà del suo benefattore. Possiamo immaginare collettività ove i partecipi si immedesimano intimamente nel gruppo: fratrie, confraternite religiose, comunità politiche claniche religiose o territoriali.
Possiamo immaginare tutte queste ipotesi. E all’interno di esse la fedeltà al gruppo presenta il carattere della piena razionalità. Ma, fuori da tutte le ipotesi tipiche fatte sopra, la realtà «naturale» non conosce la fedeltà, la quale si basa sulla contraddittoria posposizione di tutti i proprii bisogni alla volontà e all’interesse del padrone e del gruppo.
Nella chefferie pre-Stato il potere è assegnato nell’esclusivo interesse e per l’esclusivo tornaconto del soggetto del potere. Bisogna giungere alle grandi culture del bronzo per trovare il prete che non usa il suo potere per rubare il tesoro del dio, il ministro (concepito come schiavo dell’imperatore) che non usa il suo potere per derubare a proprio profitto i suoi amministrati, sudditi del suo padrone. I monaci non derubavano l’ordine, e non derubavano a proprio profitto chi sottostava al potere dell’ordine (è tutta un’altra questione se rubassero a pro dell’ordine). A poco  a poco, si sono diffusi modelli di vincoli fraterni estesi a cugini sempre più lontani, e poi riprodotti, fuori della famiglia, fra tutti i vicini, fedeli al bene collettivo; di qui l’origine di villaggi, di città e di comuni (e poi di repubbliche); la fedeltà al sovrano ha potuto diventare la fedeltà allo Stato; la fedeltà all’ordine monastico ha potuto generalizzarsi in una fedeltà alla comunità (laica) di appartenenza, tutta permeata di valori etici. Si tratta di conquiste preziose e parziali; si tratta di singole pagine dell’Atlante geografico che si riempiono di una realtà che ha pochi secoli o pochi millenni di vita.
Alla base dell’impalcatura di una società «naturale» la fedeltà non va al di là della famiglia. E poiché oramai esiste ovunque lo Stato, in una società vicina alla natura chi ha un potere conferitogli dallo Stato, se non teme la sanzione penale, lo gestisce nell’antidiritto. Questa gestione risponde a nomi ben noti: «corruzione, concussione». Una letteratura importante tratta della corruzione come elemento importante della vita sociale in Africa[7].

Note

7.  Si veda SACCO, Il diritto africano, cit., p. 184, nota 11.

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