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Addio Burma, o arrivederci?

di - 10 Giugno 2011
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Le immagini che Marilù ci propone sono essenziali per vincere il silenzio, a condizione di guardarle insieme ad altre immagini: molto diverse, forti, drammatiche, prive della qualità estetica, ma indispensabili per capire fino in fondo il bianco e nero, il contrasto della Birmania.
Sono le immagini dei media e delle televisioni del settembre 2007, quando i monaci, gli studenti, i cittadini, la gente, scesero in folla in piazza, in una protesta pacifica di massa per chiedere la libertà. Quando la dittatura – dopo un primo momento di incertezza – reagì sparando, uccidendo, incarcerando, torturando i manifestanti con un ingente numero di vittime, rimasto sconosciuto; e provocando lo sdegno e la reazione – forse soltanto a parole – di tutta la comunità internazionale.
Sono le immagini del maggio 2008, quando il ciclone Nargis devastò la regione del delta dell’Irawaddy: uno dei peggiori disastri naturali nella storia del paese, con 134.000 vittime e oltre un milione e mezzo di senzatetto. Eppure il regime militare cercò, prima, di impedire agli aiuti umanitari di entrare nel paese; poi, di appropriarsi di quegli aiuti che a malincuore aveva infine lasciato entrare parzialmente, sotto la pressione internazionale.
Il 18 giugno 2008 la commissione dei diritti umani dell’ONU aveva adottato una risoluzione – la diciottesima, a partire dal 1992 – per condannare «le sistematiche violazioni dei diritti umani» del regime militare e per chiedere che esso desse seguito agli appelli e risoluzioni dell’ONU. La risoluzione deplorava il mancato rispetto degli standard di libertà e giustizia nel referendum elettorale sulla nuova costituzione, del maggio precedente. Chiedeva alla giunta militare di avviare un reale processo di riconciliazione nazionale; di consentire l’accesso degli aiuti internazionali alle zone colpite dal ciclone Nargis e alle comunità coinvolte; di condannare il reclutamento e l’impiego dei soldati bambini.
Aung San Suu Kyi – che il giorno dopo compiva sessantatré anni e il 4619° giorno dall’inizio della sua detenzione – nella conclusione di una sua efficace intervista a Carmen Lasorella nel 2008 (Verde e Zafferano. A voce alta per la Birmania) ci ricorda che «i problemi di una nazione possono influenzare i destini di tanti altri paesi, anche molto distanti fra di loro. Aiutando lo sviluppo della democrazia nel nostro paese (la Birmania), contribuirete anche al rafforzamento della democrazia nel vostro».
Raccogliere questo invito è importante. Le immagini – di grande dignità, di rassegnazione, ma anche di speranza, di serenità dei volti – nel libro di Marilù ci aiutano a farlo, se pensiamo che valga la pena di non limitarsi a un “turismo gradevole” e senza interrogativi; o ad un momento emotivo di indignazione, sventolando una bandiera davanti ad un’ambasciata.
Quelle immagini sono attuali soprattutto oggi, dopo l’ultima tappa dell’arduo e lungo percorso della Birmania verso la democrazia e la libertà: il 9 novembre 2010. Quel giorno la dittatura militare consentì – anzi, impose – delle elezioni concordemente definite in tutto il mondo una vera e propria farsa; “né libere, né giuste”, come disse Barak Obama.
Furono elezioni nelle quali il partito dei militari al potere riportò, naturalmente, l’80% dei voti; nelle quali non fu ammessa a partecipare la Lega Nazionale per la Democrazia, di cui è leader Aung San Suu Kyi.
Quest’ultima fu finalmente liberata dagli arresti domiciliari, se pure con diverse restrizioni; ma si considera tuttora “prigioniera”, nonostante la libertà di movimento. Aung San Suu Kyi denunzia che la “parodia di democrazia è peggio della dittatura”; che gli altri paesi sono “più interessati a fare business con il governo che ascoltare la propria coscienza e aiutare la gente”, nonostante le sanzioni degli USA e della Unione Europea; che il popolo birmano è tuttora prigioniero della paura, al di là dei più di duemiladuecento detenuti politici tuttora in cella, nonostante le promesse di amnistia.
Fra quei detenuti c’è anche Su Su Nway, la “sindacalista” trentottenne di Aung San Suu Kyi; meno nota alle cronache ma non meno pericolosa per il regime. Condannata a 12 anni e mezzo di prigione (poi ridotti ad otto), li sta scontando – malata – dal 2007 nel nord del paese, a 2000 km dalla sua famiglia, per aver esposto uno striscione antigovernativo a Yangoon.

Conoscere la realtà birmana in tema di diritti umani – cercando di approfondire con gli strumenti (e sono molti) a disposizione – è importante per confrontarla con la nostra: una realtà cui siamo talmente abituati, da farcela sembrare ovvia e naturale per tutti. Ma non è così; come italiani ed europei, siamo molto fortunati.
Come italiani, abbiamo il privilegio di una costituzione che – nelle sue premesse e nella sua prima parte; al di là delle polemiche e delle indicazioni a modificare alcuni punti della seconda parte – garantisce il riconoscimento di tutti i diritti fondamentali, riassumendoli efficacemente nella pari dignità sociale e nella laicità. La dignità è il valore cardine del nostro sistema costituzionale; sintetizza quei diritti civili, politici, economici e sociali, che la Costituzione italiana sviluppa attraverso il riferimento ai valori – della democrazia, della solidarietà, dell’eguaglianza, della libertà, del pluralismo, della diversità – che sono alla base della nostra convivenza.
Come europei abbiamo il privilegio di vivere in una regione che ha posto i diritti umani al centro del proprio sviluppo e del percorso verso l’unificazione e l’integrazione: dalla Dichiarazione universale delle Nazioni Unite sui diritti dell’uomo del 1948, alla Convenzione europea sui diritti umani del 1950, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (richiamata dal Trattato di Lisbona del 2007), con i suoi valori di dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia, ed i diritti che ne derivano.
Siamo certamente dei privilegiati; ma la realtà dei diritti umani in gran parte del mondo – nonostante la loro proclamata universalità – è ben diversa. La Birmania è un’occasione forte per ricordarcelo: anche con le immagini che Marilù ci propone, sulle quali vale la pena di meditare, per ciò che dicono esplicitamente, ma anche per ciò che lasciano intendere.
Addio Burma, dunque (come dice il titolo del libro)? No; arrivederci piuttosto, nella speranza di un suo futuro diverso e nell’impegno a cercare – nel piccolo delle nostre possibilità – di cooperare in qualche modo alla costruzione di quel futuro, per la Birmania ma anche per tutti noi, come ci ricorda Aung San Suu Kyi; e come ci impone di fare la detenzione inaccettabile di Su Su Nway e degli altri più di duemila detenuti politici birmani.

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