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Addio Burma, o arrivederci?

di - 10 Giugno 2011
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La Birmania ha sempre pagato amaramente la sua condizione di paradiso naturale. Penso (come Marilù ricorda nella introduzione al libro) alla testimonianza di Orwell, in Giorni in Birmania. È un romanzo pubblicato nel 1934 eludendo la censura, nato dall’esperienza personale dell’autore, allora membro della polizia coloniale inglese, ma insofferente dei codici di comportamento dei sahib bianchi; attratto dalla cultura orientale e consapevole dell’ingiustizia su cui si fondavano i rapporti politici, sociali ed economici nelle colonie.
Giorni in Birmania è un atto d’accusa lucido e spietato del colonialismo, dell’imperialismo, del dominio dell’uomo sull’uomo; in filigrana vi si colgono le premesse dei successivi La fattoria degli animali e 1984. La descrizione del paesino birmano – in cui la vicenda amorosa del protagonista si intreccia con quella del razzismo dei sahib nei confronti dei “neri puzzolenti, mangiatori d’aglio” (come i birmani vengono descritti dai primi) – riassume con efficacia l’atmosfera e la realtà del quasi secolo di dominazione inglese, conclusa con la concessione dell’autonomia alla Birmania nel 1937 e con l’indipendenza nel 1948.
Accanto a Orwell, mi sembra significativa un’altra testimonianza della storia e della sofferenza della Birmania, come premessa alla “lettura” delle fotografie di Marilù. Mi riferisco alla vicenda del sergente giapponese Mizushima nell’Arpa birmana, il capolavoro del 1956 del regista Ichikawa, che riassume ed esprime il dramma della guerra, in cui i giapponesi lasciarono duecentomila morti nella lotta con gli angloamericani, dopo aver invaso la Birmania nel 1942. Mizushima, sopravvive ad un assalto inglese e viene salvato da un monaco. Decide allora di non tornare in patria e di abbandonare i compagni per dare sepoltura ai connazionali caduti e lasciati in pasto agli avvoltoi, perché “rossi come il sangue sono i monti e le terre della Birmania”. Vede però che la gente continua la propria vita, in pace con il mondo e se stessa; ed il monaco lo ammonisce che “La Birmania è e resta la Birmania, un paese che rimane vivo. Tutto è vano: inglesi e giapponesi”.
Nelle immagini in bianco e nero dell’Arpa birmana; nel peregrinare di Mizushima fra i morti insepolti e la quotidianità della vita, tra campagne e pagode, mi sembra di ritrovare il DNA della rassegnazione e della serenità che Marilù coglie nella espressione dei volti degli anziani e dei giovani da lei fotografati.
È quanto osservava Tiziano Terzani nel suo libro Asia. In Birmania – lo cito testualmente – “il potere è sempre stato visto come espressione della volontà divina; per questo i misfatti commessi dai regnanti non hanno mai eccessivamente scandalizzato la gente. Stranamente è così anche oggi. La dittatura militare che tiene in pugno il paese continua ad arrestare, torturare e uccidere i suoi oppositori, ma la massa della popolazione sembra accettare tutto questo come un malanno mandato dal cielo contro il quale c’è poco da fare. La storia si ripete ancora oggi. Le masse sono rassegnate a sentire che il loro destino è nelle mani dei potenti, che di solito sono crudeli e spesso semplicemente matti”.
Di fronte all’oppressione e alla rassegnazione, si comprende l’importanza della forza morale, dell’esempio, del messaggio di Aung San Suu Kyi: «abbiamo scelto la strada della non violenza perché riteniamo che diversamente non renderemmo un buon servizio al nostro paese…Procediamo con piccole cose, comunque nel segno della non violenza…La forza della dittatura è anche nel silenzio, nell’ignoranza. Bisogna farla conoscere per indebolirla».

Le fotografie di Marilù sono efficaci, per rompere il silenzio e l’ignoranza.
Nella introduzione, Demetrio Paparoni, Ax Panepinto e Marina Cicogna offrono dei codici utili per decifrare il messaggio proposto dalle immagini: l’uomo al centro di una “foto umanista”, con le sue contraddizioni fra il benessere di pochi e la povertà di molti; la stridente assenza di contrasti in una situazione stagnante di povertà e di mancanza di libertà, che non ha manifestazioni eclatanti, ma si sente nell’aria; la crudeltà di un regime poco visibile, che non salta agli occhi, in un luogo miracolosamente poetico per la gentilezza della gente, il poco turismo, l’assenza della volgarità occidentale.
La Birmania è un paese ricco di risorse naturali tra cui il teak, il riso (è uno dei maggiori produttori mondiali), gli idrocarburi, l’oro e le pietre preziose, oltre al turismo che si afferma sempre di più. Eppure ha una storia consolidata di violazione dei princìpi di democrazia, di libertà e di giustizia.
É la storia del lavoro forzato e della povertà; dei bambini-soldato, nell’esercito (più di cinquantamila, su quattrocentomila circa) e nelle milizie private dei signorotti locali; la storia dell’emarginazione delle donne, di fronte alla quale spicca la forza di Aung San Suu Kyi. É la storia della corruzione endemica, nei rapporti fra il suddito e l’autorità; dello sfruttamento della droga nel triangolo d’oro fra Birmania, Thailandia e Laos, prima con l’oppio e poi con la droga sintetica, grazie al coinvolgimento di esponenti del gruppo etnico dei Shan e alla complicità delle autorità birmane.
Tutto questo vale a sporcare e inquinare, forse irrimediabilmente, una realtà affascinante di etnie, di natura e paesaggio, di storia, di religiosità di antica tradizione e di forte impatto, come osserva Marco Buemi in un altro percorso fotografico del 2007, anch’esso appassionante – e espressivamente diverso – sulla realtà birmana. Anch’esso volto, al pari del libro di Marilù, a raccogliere l’invito di Aung San Suu Kyi a vincere il silenzio, e a usare la nostra libertà per promuovere quella del popolo birmano.

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