Addio Burma, o arrivederci?

Conoscevo la capacità espressiva e la bravura di Marilù Gaetani, nelle sue testimonianze fotografiche sul Cammino di Santiago e sull’India. Quando Marilù mi ha chiesto di presentare Addio Burma. Un viaggio in Birmania – che nel frattempo avevo letto; perché si può leggere una fotografia, al pari di una pagina scritta – ho accettato con entusiasmo, per due ragioni ben precise: perchè nel 2002 avevo compiuto un viaggio in Birmania, rimanendone affascinato e perplesso; perchè per nove anni mi sono occupato di diritti umani fondamentali, come giudice costituzionale. L’impegno culturale, civile ed umano, ad approfondire questo tema mi è rimasto anche dopo e mi appassiona tuttora.
Di fronte alle novità, ai cambiamenti, alla globalizzazione e al post-globale, ai suoi aspetti positivi e negativi, sento – come molti – sempre di più il bisogno di guardare a qualcosa di immutabile, di fondamentale per tutti e in tutte le situazioni. Il bisogno di guardare – nell’incertezza del presente e del futuro – a una serie di valori, fra i quali vi è il DNA della nostra identità di uomini e donne: i diritti fondamentali e la dignità umana, come punto di riferimento costante e immutabile dell’esperienza umana.
Sotto questo aspetto, la Birmania è emblematica. È una terra tanto splendida per la natura, la spiritualità, la religiosità, la serenità; quanto drammatica per le condizioni di povertà, di pressoché totale disprezzo dei diritti umani, di vera e propria schiavitù. Penso al lavoro forzato, eufemisticamente definito “volontario” dalla Giunta militare che da venti anni governa il paese con il pugno di ferro, dopo che venne azzerato nel 1990 il risultato delle elezioni libere con cui avrebbe dovuto concludersi il precedente trentennio di dittatura militare.

Andai in Birmania nel 2002. Festeggiammo con mia moglie e alcuni amici il Capodanno europeo al freddo di Pindaya, visitando la grotta degli 8000 Budda, in un viaggio organizzato nel consueto quadrilatero: Yangoon, Mandalay, Bagan e il lago Jnle. Il governo aveva da poco riaperto le frontiere ai viaggi turistici, inaugurando la stagione del benvenuto: sia per acquisire valuta pregiata; sia per presentare all’esterno un’immagine rassicurante del paese.
Era forte la spinta a vedere quello che – dalle descrizioni dei pochi che vi erano stati e dalle immagini – sembrava un vero e proprio paradiso terrestre, ben diverso dalla confinante Thailandia, che in poco tempo si era trasformata in una Disneyland di pessimo gusto (se non peggio, quando si pensa al turismo del sesso e della pedofilia). Ad andarvi presto, prima che il virus della globalizzazione corrompesse anche quella terra, rendendola uguale agli altri paradisi artificiali del turismo collettivo.
Tuttavia, era una spinta controbilanciata da quanto si sapeva sulle condizioni di dittatura della Birmania: la repressione sanguinosa del 1988, che aveva provocato migliaia di vittime fra i dimostranti pacifici e disarmati; l’annullamento delle elezioni del 1990; il ripristino della dittatura, con l’arresto dell’emblema dell’indipendenza birmana, Aung San Suu Kyi (figlia del protagonista e padre di quella indipendenza), vincitrice a grande maggioranza di quelle elezioni. Essa venne messa da allora agli arresti domiciliari a Yangoon, sino al 13 novembre scorso; ma ricevette il premio Nobel per la pace nel 1991, «per la sua lotta non violenta in favore della democrazia e dei diritti umani…uno degli esempi più straordinari di coraggio civile in Asia degli ultimi decenni» (così la motivazione).
Rimasi affascinato dalla bellezza del paese. Cercai di tranquillizzare la mia coscienza parlando con il nostro ambasciatore e con alcuni funzionari delle Nazioni Unite, che egli mi aveva fatto incontrare, per documentarmi in qualche modo sulle condizioni reali della Birmania; per affiancare al piacere del turismo il pretesto (che non era solo tale) della conoscenza e della documentazione.
Il clima di repressione si respirava come un odore dolciastro, un’atmosfera incombente e subdola: niente telefonini; qualche cauto commento della guida, di fronte ai nostri facili entusiasmi e al fatto di non vedere quelli che siamo abituati a considerare i segni distintivi della dittatura e dell’oppressione: i soldati agli angoli delle strade, nelle città. Soprattutto, tanta povertà, estremamente dignitosa, e rassegnazione: quella che si coglie nei volti degli anziani, dalle splendide fotografie di Marilù, accanto alla luminosità, alla speranza e alla gioia dei volti dei giovani, ed accanto alla serenità dei volti dei bonzi.
Percepivo un sottile disagio. Mi ritornavano in mente l’invito di Aung San Suu Kyi a boicottare non tanto il viaggio in Birmania di per sé, quanto l’adesione alle iniziative turistiche governative; il suo ammonimento a renderci conto che quelle belle strutture (strade, alberghi) erano state realizzate con la sofferenza del popolo birmano; il suo invito ai turisti «a non voler comperare il proprio piacere a spese della gente comune» ed a non limitarsi a venire in Birmania per soddisfare una vanità o curiosità personale.
In effetti, la Giunta militare ha investito parecchio nel turismo. I turisti, come gli investimenti stranieri e gli scambi commerciali (penso ad esempio al commercio del teak), sono accolti a braccia aperte. Tuttavia, dei benefici conseguenti hanno goduto soltanto pochi ricchi e potenti; mentre per i sudditi – costretti al lavoro “volontario” per preparare l’accoglienza e farvi fronte – non è cambiato nulla in meglio. La Birmania è rimasta uno dei paesi più poveri dell’Asia, prima soltanto dell’Afghanistan.

La Birmania ha sempre pagato amaramente la sua condizione di paradiso naturale. Penso (come Marilù ricorda nella introduzione al libro) alla testimonianza di Orwell, in Giorni in Birmania. È un romanzo pubblicato nel 1934 eludendo la censura, nato dall’esperienza personale dell’autore, allora membro della polizia coloniale inglese, ma insofferente dei codici di comportamento dei sahib bianchi; attratto dalla cultura orientale e consapevole dell’ingiustizia su cui si fondavano i rapporti politici, sociali ed economici nelle colonie.
Giorni in Birmania è un atto d’accusa lucido e spietato del colonialismo, dell’imperialismo, del dominio dell’uomo sull’uomo; in filigrana vi si colgono le premesse dei successivi La fattoria degli animali e 1984. La descrizione del paesino birmano – in cui la vicenda amorosa del protagonista si intreccia con quella del razzismo dei sahib nei confronti dei “neri puzzolenti, mangiatori d’aglio” (come i birmani vengono descritti dai primi) – riassume con efficacia l’atmosfera e la realtà del quasi secolo di dominazione inglese, conclusa con la concessione dell’autonomia alla Birmania nel 1937 e con l’indipendenza nel 1948.
Accanto a Orwell, mi sembra significativa un’altra testimonianza della storia e della sofferenza della Birmania, come premessa alla “lettura” delle fotografie di Marilù. Mi riferisco alla vicenda del sergente giapponese Mizushima nell’Arpa birmana, il capolavoro del 1956 del regista Ichikawa, che riassume ed esprime il dramma della guerra, in cui i giapponesi lasciarono duecentomila morti nella lotta con gli angloamericani, dopo aver invaso la Birmania nel 1942. Mizushima, sopravvive ad un assalto inglese e viene salvato da un monaco. Decide allora di non tornare in patria e di abbandonare i compagni per dare sepoltura ai connazionali caduti e lasciati in pasto agli avvoltoi, perché “rossi come il sangue sono i monti e le terre della Birmania”. Vede però che la gente continua la propria vita, in pace con il mondo e se stessa; ed il monaco lo ammonisce che “La Birmania è e resta la Birmania, un paese che rimane vivo. Tutto è vano: inglesi e giapponesi”.
Nelle immagini in bianco e nero dell’Arpa birmana; nel peregrinare di Mizushima fra i morti insepolti e la quotidianità della vita, tra campagne e pagode, mi sembra di ritrovare il DNA della rassegnazione e della serenità che Marilù coglie nella espressione dei volti degli anziani e dei giovani da lei fotografati.
È quanto osservava Tiziano Terzani nel suo libro Asia. In Birmania – lo cito testualmente – “il potere è sempre stato visto come espressione della volontà divina; per questo i misfatti commessi dai regnanti non hanno mai eccessivamente scandalizzato la gente. Stranamente è così anche oggi. La dittatura militare che tiene in pugno il paese continua ad arrestare, torturare e uccidere i suoi oppositori, ma la massa della popolazione sembra accettare tutto questo come un malanno mandato dal cielo contro il quale c’è poco da fare. La storia si ripete ancora oggi. Le masse sono rassegnate a sentire che il loro destino è nelle mani dei potenti, che di solito sono crudeli e spesso semplicemente matti”.
Di fronte all’oppressione e alla rassegnazione, si comprende l’importanza della forza morale, dell’esempio, del messaggio di Aung San Suu Kyi: «abbiamo scelto la strada della non violenza perché riteniamo che diversamente non renderemmo un buon servizio al nostro paese…Procediamo con piccole cose, comunque nel segno della non violenza…La forza della dittatura è anche nel silenzio, nell’ignoranza. Bisogna farla conoscere per indebolirla».

Le fotografie di Marilù sono efficaci, per rompere il silenzio e l’ignoranza.
Nella introduzione, Demetrio Paparoni, Ax Panepinto e Marina Cicogna offrono dei codici utili per decifrare il messaggio proposto dalle immagini: l’uomo al centro di una “foto umanista”, con le sue contraddizioni fra il benessere di pochi e la povertà di molti; la stridente assenza di contrasti in una situazione stagnante di povertà e di mancanza di libertà, che non ha manifestazioni eclatanti, ma si sente nell’aria; la crudeltà di un regime poco visibile, che non salta agli occhi, in un luogo miracolosamente poetico per la gentilezza della gente, il poco turismo, l’assenza della volgarità occidentale.
La Birmania è un paese ricco di risorse naturali tra cui il teak, il riso (è uno dei maggiori produttori mondiali), gli idrocarburi, l’oro e le pietre preziose, oltre al turismo che si afferma sempre di più. Eppure ha una storia consolidata di violazione dei princìpi di democrazia, di libertà e di giustizia.
É la storia del lavoro forzato e della povertà; dei bambini-soldato, nell’esercito (più di cinquantamila, su quattrocentomila circa) e nelle milizie private dei signorotti locali; la storia dell’emarginazione delle donne, di fronte alla quale spicca la forza di Aung San Suu Kyi. É la storia della corruzione endemica, nei rapporti fra il suddito e l’autorità; dello sfruttamento della droga nel triangolo d’oro fra Birmania, Thailandia e Laos, prima con l’oppio e poi con la droga sintetica, grazie al coinvolgimento di esponenti del gruppo etnico dei Shan e alla complicità delle autorità birmane.
Tutto questo vale a sporcare e inquinare, forse irrimediabilmente, una realtà affascinante di etnie, di natura e paesaggio, di storia, di religiosità di antica tradizione e di forte impatto, come osserva Marco Buemi in un altro percorso fotografico del 2007, anch’esso appassionante – e espressivamente diverso – sulla realtà birmana. Anch’esso volto, al pari del libro di Marilù, a raccogliere l’invito di Aung San Suu Kyi a vincere il silenzio, e a usare la nostra libertà per promuovere quella del popolo birmano.

Le immagini che Marilù ci propone sono essenziali per vincere il silenzio, a condizione di guardarle insieme ad altre immagini: molto diverse, forti, drammatiche, prive della qualità estetica, ma indispensabili per capire fino in fondo il bianco e nero, il contrasto della Birmania.
Sono le immagini dei media e delle televisioni del settembre 2007, quando i monaci, gli studenti, i cittadini, la gente, scesero in folla in piazza, in una protesta pacifica di massa per chiedere la libertà. Quando la dittatura – dopo un primo momento di incertezza – reagì sparando, uccidendo, incarcerando, torturando i manifestanti con un ingente numero di vittime, rimasto sconosciuto; e provocando lo sdegno e la reazione – forse soltanto a parole – di tutta la comunità internazionale.
Sono le immagini del maggio 2008, quando il ciclone Nargis devastò la regione del delta dell’Irawaddy: uno dei peggiori disastri naturali nella storia del paese, con 134.000 vittime e oltre un milione e mezzo di senzatetto. Eppure il regime militare cercò, prima, di impedire agli aiuti umanitari di entrare nel paese; poi, di appropriarsi di quegli aiuti che a malincuore aveva infine lasciato entrare parzialmente, sotto la pressione internazionale.
Il 18 giugno 2008 la commissione dei diritti umani dell’ONU aveva adottato una risoluzione – la diciottesima, a partire dal 1992 – per condannare «le sistematiche violazioni dei diritti umani» del regime militare e per chiedere che esso desse seguito agli appelli e risoluzioni dell’ONU. La risoluzione deplorava il mancato rispetto degli standard di libertà e giustizia nel referendum elettorale sulla nuova costituzione, del maggio precedente. Chiedeva alla giunta militare di avviare un reale processo di riconciliazione nazionale; di consentire l’accesso degli aiuti internazionali alle zone colpite dal ciclone Nargis e alle comunità coinvolte; di condannare il reclutamento e l’impiego dei soldati bambini.
Aung San Suu Kyi – che il giorno dopo compiva sessantatré anni e il 4619° giorno dall’inizio della sua detenzione – nella conclusione di una sua efficace intervista a Carmen Lasorella nel 2008 (Verde e Zafferano. A voce alta per la Birmania) ci ricorda che «i problemi di una nazione possono influenzare i destini di tanti altri paesi, anche molto distanti fra di loro. Aiutando lo sviluppo della democrazia nel nostro paese (la Birmania), contribuirete anche al rafforzamento della democrazia nel vostro».
Raccogliere questo invito è importante. Le immagini – di grande dignità, di rassegnazione, ma anche di speranza, di serenità dei volti – nel libro di Marilù ci aiutano a farlo, se pensiamo che valga la pena di non limitarsi a un “turismo gradevole” e senza interrogativi; o ad un momento emotivo di indignazione, sventolando una bandiera davanti ad un’ambasciata.
Quelle immagini sono attuali soprattutto oggi, dopo l’ultima tappa dell’arduo e lungo percorso della Birmania verso la democrazia e la libertà: il 9 novembre 2010. Quel giorno la dittatura militare consentì – anzi, impose – delle elezioni concordemente definite in tutto il mondo una vera e propria farsa; “né libere, né giuste”, come disse Barak Obama.
Furono elezioni nelle quali il partito dei militari al potere riportò, naturalmente, l’80% dei voti; nelle quali non fu ammessa a partecipare la Lega Nazionale per la Democrazia, di cui è leader Aung San Suu Kyi.
Quest’ultima fu finalmente liberata dagli arresti domiciliari, se pure con diverse restrizioni; ma si considera tuttora “prigioniera”, nonostante la libertà di movimento. Aung San Suu Kyi denunzia che la “parodia di democrazia è peggio della dittatura”; che gli altri paesi sono “più interessati a fare business con il governo che ascoltare la propria coscienza e aiutare la gente”, nonostante le sanzioni degli USA e della Unione Europea; che il popolo birmano è tuttora prigioniero della paura, al di là dei più di duemiladuecento detenuti politici tuttora in cella, nonostante le promesse di amnistia.
Fra quei detenuti c’è anche Su Su Nway, la “sindacalista” trentottenne di Aung San Suu Kyi; meno nota alle cronache ma non meno pericolosa per il regime. Condannata a 12 anni e mezzo di prigione (poi ridotti ad otto), li sta scontando – malata – dal 2007 nel nord del paese, a 2000 km dalla sua famiglia, per aver esposto uno striscione antigovernativo a Yangoon.

Conoscere la realtà birmana in tema di diritti umani – cercando di approfondire con gli strumenti (e sono molti) a disposizione – è importante per confrontarla con la nostra: una realtà cui siamo talmente abituati, da farcela sembrare ovvia e naturale per tutti. Ma non è così; come italiani ed europei, siamo molto fortunati.
Come italiani, abbiamo il privilegio di una costituzione che – nelle sue premesse e nella sua prima parte; al di là delle polemiche e delle indicazioni a modificare alcuni punti della seconda parte – garantisce il riconoscimento di tutti i diritti fondamentali, riassumendoli efficacemente nella pari dignità sociale e nella laicità. La dignità è il valore cardine del nostro sistema costituzionale; sintetizza quei diritti civili, politici, economici e sociali, che la Costituzione italiana sviluppa attraverso il riferimento ai valori – della democrazia, della solidarietà, dell’eguaglianza, della libertà, del pluralismo, della diversità – che sono alla base della nostra convivenza.
Come europei abbiamo il privilegio di vivere in una regione che ha posto i diritti umani al centro del proprio sviluppo e del percorso verso l’unificazione e l’integrazione: dalla Dichiarazione universale delle Nazioni Unite sui diritti dell’uomo del 1948, alla Convenzione europea sui diritti umani del 1950, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (richiamata dal Trattato di Lisbona del 2007), con i suoi valori di dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia, ed i diritti che ne derivano.
Siamo certamente dei privilegiati; ma la realtà dei diritti umani in gran parte del mondo – nonostante la loro proclamata universalità – è ben diversa. La Birmania è un’occasione forte per ricordarcelo: anche con le immagini che Marilù ci propone, sulle quali vale la pena di meditare, per ciò che dicono esplicitamente, ma anche per ciò che lasciano intendere.
Addio Burma, dunque (come dice il titolo del libro)? No; arrivederci piuttosto, nella speranza di un suo futuro diverso e nell’impegno a cercare – nel piccolo delle nostre possibilità – di cooperare in qualche modo alla costruzione di quel futuro, per la Birmania ma anche per tutti noi, come ci ricorda Aung San Suu Kyi; e come ci impone di fare la detenzione inaccettabile di Su Su Nway e degli altri più di duemila detenuti politici birmani.