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Sanzioni penali di illeciti amministrativi. Un cattivo diritto per l’economia – e non solo per essa

di - 25 Gennaio 2011
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6. Le conseguenze della violazione di questo principio che si è cercato di rappresentare non sono di poco conto. Si è accennato sopra, § 3, alla prima, l’incertezza del diritto, l’insicurezza sull’affidabilità del provvedimento ottenuto. L’azione di ufficio del pubblico ministero, con i provvedimenti cautelari che possono accompagnarla, può paralizzare in qualunque momento un’iniziativa economica, pur ritualmente autorizzata. Questo è un problema gravissimo, perché la società vive di iniziative economiche, che creano benessere e, tra l’altro, consentono lo sviluppo di processi formativi da cui dipende il miglioramento strutturale della società stessa. Se certi valori sono affidati alla cura della pubblica amministrazione, essa sola deve esserne responsabile: se non è così, non ha neppure ragione di esistere. Giustamente si è parlato di “riserva di amministrazione”. Certo il giudice penale deve perseguire i comportamenti che la legge qualifica come reato: ma per nessuna ragione può farlo, scavalcando l’amministrazione e disapplicando i suoi provvedimenti. Come si diceva, se intorno al comportamento dell’amministrazione vi è uno specifico sospetto di dolo, i fatti devono essere indagati ed accertati.
È superfluo dire che l’intervento del giudice penale configura una situazione molto diversa da quella provocata dal ricorso di un terzo, che si assume leso dal provvedimento. Anzitutto deve essere direttamente leso, e deve dimostrarlo; ma sopratutto il terzo chiama in giudizio il beneficiario del provvedimento per discuterne la legittimità su un piano di assoluta parità. La sospensiva, concessa o negata al ricorrente, è un messaggio inequivoco che entro poche settimane giunge a entrambe le parti. Nessuno può agire d’ufficio, a sorpresa, ed indagare coperto dal segreto per un tempo non determinabile a priori.
Serie conseguenze negative vi sono però anche per i pubblici ministeri. È pacifico che le amministrazioni siano organizzate per materie (anche se, forse, con troppe sovrapposizioni tra loro), e che all’interno di ciascuna ci siano le competenze specifiche necessarie per curare gli interessi pubblici affidati. Del resto, esistono per questo. È parimenti pacifico che anche all’esterno della pubblica amministrazione vi siano competenze elevatissime; ma la struttura globale della conoscenza è tipicamente dell’amministrazione.
Anche la magistratura, quale “ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere”, ha un complesso di conoscenze globali che nessun altro potere possiede. Si tratta di quel valore ineffabile, che è la giustizia al tempo stesso del caso singolo e dei grandi numeri. Tizio e Caio litigano ed hanno diritto alla loro giustizia, sotto forma di sentenza, resa tra loro, che tra loro passa in giudicato; così Mevio, Sempronio, Tito cercano di resistere all’accusa ed all’imputazione di furto, omicidio, corruzione. Non importa se in Italia ci sono contemporaneamente mille, cinquemila, centomila casi simili – o se non ve ne è alcuno, come rarissimamente capita. Ognuno viene deciso; e tutti secondo la stessa logica: non fare diritto astratto (come accade con le c.d. massime), ma rendere giustizia. È superfluo dire che rendere giustizia non significa optare per una tra due o più interpretazioni della norma, ma cogliere e fissare ciò che le carte dicono per trarne l’ineffabile, che l’esperienza insegna: vale a dire, ciò che appare giusto.
Sembra ictu oculi palese che questo patrimonio non ha nulla in comune con quello delle altre amministrazioni. Certo ha tecnicità sue proprie; ma non è questo ciò che rileva. Rileva la funzione cui assolve la magistratura: unicuique suum tribuere, razionalizzando e spezzando le tensioni, reprimendo e punendo. Sembra affondata nel passato; ma nel ricondurlo al presente con la sentenza che finalmente giunge, si proietta nel futuro, solo perché la sentenza è giunta e potrà giungere ancora.
Ad un sistema di questo genere non si possono dare compiti di vera e propria amministrazione attiva – o di supplenza amministrativa, se si vuole. Non ne ha gli strumenti. Non può dire in pochi minuti o in poche ore che siano se uno scarico è a norma o è tossico, se le costruzioni avevano o non avevano adeguate fondamenta antisismiche, etc. etc.. Per dare una risposta a queste domande il giudice deve chiamare la polizia giudiziaria, sequestrare quel che c’è da sottrarre a manipolazioni, disporre gli accertamenti e la consulenza tecnica, aprire il contraddittorio. Deve insomma fermare la vita, perché intervenire su uno scarico o su una zona terremotata non è il suo compito.
In termini generali, si può certamente dire che il giudice penale dovrebbe fare una cosa diversa, anche a legislazione invariata. Quando giungono notizie di reato del genere di cui si è detto fin qui – in cui la tutela di certi interessi pubblici è affidata tanto alla pubblica amministrazione attiva quanto al giudice penale – questi dovrebbe anzitutto chiedere relazioni all’amministrazione e da queste muovere, assumendole per vere, se così si può dire. Solo se questa “verità” dovesse essere smentita, dovrebbe proseguire le indagini. Esse però dovrebbero essere rivolte ad accertare non l’illecito penale ad onta del provvedimento amministrativo, ma, visti i fatti, l’illiceità – penale – della condotta da cui il provvedimento è scaturito. Dovrebbe insomma cessare l’uso della disapplicazione del provvedimento contro il cittadino.
È ovvio che se venisse sollevata la questione di illegittimità costituzionale delle norme che consentono al giudice penale di procedere anche in concorso o in contrasto con l’amministrazione per lo stesso fatto, in quanto tali norme sembrano violare il principio della separazione dei poteri, il percorso sarebbe più agevole.

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