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Sanzioni penali di illeciti amministrativi. Un cattivo diritto per l’economia – e non solo per essa

di - 25 Gennaio 2011
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3. A questo si perviene attraverso un raffinato meccanismo giuridico. La legge che nel 1865 aveva consentito ai cittadini di chiamare in giudizio le amministrazioni, anche in presenza di atti autoritari [3], si era preoccupata del peso che un provvedimento ammini­strativo avrebbe potuto avere nel corso del giudizio civile – e, viceversa, si era preoccu­pata delle conseguenze che avrebbe potuto avere l’annullamento di un provvedimento da parte del giudice civile. Aveva risolto questo difficile problema statuendo che in presenza di un atto o provvedimento, ritenuto illegittimo, il giudice avrebbe potuto dare tutela ai diritti del cittadino, “disapplicando” il provvedimento: avrebbe potuto cioè considerarlo tamquam non esset, e tuttavia lasciarlo in vita. Nel corso degli anni ’80 del XX secolo, si pose, in termini assai forti, il tema degli abusi edilizi: ci si trovava di fronte a costruzioni in pieno contrasto con il piano regolatore, ma regolarmente autorizzate. Il problema era grave: come accertare e punire l’abuso edilizio in presenza di una concessione edilizia (come allora si chiamava)? La soluzione venne trovata nell’art. 5 della legge del 1865, so­stanzialmente con questo ragionamento: come i diritti riconosciuti dalla legge al cittadino possono essere accertati e tutelati dal giudice, “disapplicando” gli atti amministrativi che li ledono, così, in presenza di violazioni della legge, per le quali sono previste sanzioni pe­nali, il giudice penale può perseguirle, ancorché autorizzate con provvedimenti ammini­strativi, “disapplicandoli”. L’esempio più semplice è la costruzione autorizzata e realizzata in zona inedificabile. L’abuso edilizio è evidente; altrettanto evidentemente autorizzato. I giudici penali utilizzarono la disapplicazione della concessione, affermando che una con­cessione illegittima non valeva a legittimare la costruzione, in sé contraria al piano rego­latore o ad altro divieto di costruire [4].
Se a fondamento di queste violazioni della legge edilizia, ambientale, per la sicurezza del lavoro etc. – della legge sostanziale insomma – vi fossero fenomeni di corruzione o di abuso di ufficio sarebbe perfettamente comprensibile la sanzione penale per la violazione della norma sostanziale, e quindi dell’interesse pubblico ad essa sotteso. Sarebbe il tipico caso del concorso di reati. La situazione di cui si va dicendo è diversa: anche se l’ammi­nistrazione ha agito, ha rilasciato l’autorizzazione (o l’atto ad essa equiparato), e quindi tutto è in regola dal punto di vista amministrativo, il reato edilizio può sussistere, a prescindere dalla corruzione. Si svuota il provvedimento dal suo interno; lo si ignora in nome della legge che l’amministrazione aveva applicato. Ed in quanto il reato può sussistere, qualunque pubblico ministero può procedere d’ufficio e disporre ad es. misure cautelari. È noto – lo si è letto in tutti i giornali – che per i campionati del mondo di nuoto svoltisi a Roma nell’estate 2009 la procura della Repubblica ha ritenuto che fossero state commesse infrazioni urbanistiche nella costruzione di piscine da parte di circoli sportivi privati, collegati al CONI; sono stati disposti sequestri penali, alcuni dei quali ancora in essere: e questo, nonostante l’esi­stenza di autorizzazioni comunali e di un piano governativo per la realizzazione di pi­scine.
Sembra di piana evidenza che in sé e per sé una siffatta situazione di diritto sia fonte di grandi perplessità. Si perde la certezza del diritto legata all’agere quotidiano, la sicurezza cioè che, ottenuta un’autorizzazione, si possa fare in piena tranquillità ciò che è stato consentito. Questo non è un problema di poco conto. Le procedure amministrative sono lente, nonostante i grandi sforzi fatti per migliorarle; se la loro conclusione non è una conclusione, perché un terzo estraneo al procedimento, il pubblico ministero, ritiene comunque di poter agire penalmente, si innesca un meccanismo sociale perverso, i cui termini estremi sono la scelta di non fare o di fare aggirando tutto – tacendo, nascondendosi, cercando non far nulla appa­rire.
Questo assetto di rapporti tra il potere e la funzione amministrativa da una parte, il po­tere giudiziario e l’esercizio dell’azione penale dall’altro, con il cittadino al centro, non va bene e deve essere radicalmente modificato, perché in contrasto con l’assetto costituzionale in cui si collocano potere esecutivo e pubblica amministrazione da un lato, potere giudiziario dall’altro. Si consuma infatti una inaccettabile confusione dei poteri, esecutivo e giudiziario.

4. Gli elementi di questa confusione di poteri possono essere fissati con poche parole. Come si accennava sopra, quando il potere giudiziario, nelle due vesti del P.M. requirente e del giudice, interviene in vicende nelle quali già l’amministrazione ha provveduto, questo accade perché si tratta di materie in cui l’interesse privato rileva anche per l’interesse generale: la legge cioè non solo non lascia al privato incondizionata libertà di iniziativa, ma prevede una doppia tutela dell’interesse generale. Una è preventiva, affidata alla pubblica amministrazione, e l’altra repressiva, affidata al giudice penale. Il punto cruciale è che il giudice penale interviene sia accanto, sia contro l’amministrazione. Le è accanto quando ad es. ne utilizza le informazioni per perseguire il reato. Qui ovviamente nulla quaestio [5]. Ma interviene contro l’amministrazione quando ad es. afferma che un dato provvedimento non poteva essere rilasciato, perché illegittimo (di qui il reato, del quale l’amministra­zione diviene strumento), o quando si surroga ad essa nel cercare illeciti nelle materie affidate alla sua cura. Essa viene così colpita nelle sue prerogative: anche a prescindere da qualsiasi ipotesi di corruzione, il suo operato viene sconfessato dal giudice penale che indaga su possibili abusi commessi da un privato grazie ad un titolo rilascia­togli dall’amministrazione – o addirittura grazie alla sua inerzia.
La costruzione di questa doppia tutela da parte della legge con la conseguente sovrapposizione del giudice all’autorità amministrativa non sembra conforme a costituzione.

Note

3.  È la l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E. La norma cui si fa riferimento nel testo è contenuta nell’art. 5.

4.  Oggi si ragiona in termini leggermente diversi: si dice che il giudice penale, quando valuta la legittimità di un provvedimento amministrativo, non procede ad una sua disapplicazione ma verifica la sussistenza degli elementi costitutivi del fatto reato. In altre parole, svuota il provvedimento del suo “contenuto” dall’interno: il giudice si sostituisce all’amministrazione nella valutazione del fatto. Devo al giovane Giacomo Satta, che vivamente ringrazio, questa ed alcune altre osservazioni penalistiche che seguono nel testo.

5.  L’ipotesi tipica è quella di interventi repressivi dell’autorità amministrativa, quando l’attività svolta dal privato costituisce anche reato.

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