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La politica della ricerca: le prospettive per l’area giuridica

di - 5 Novembre 2010
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Sommario:

  1. Confronti internazionali
  2. Dati e interpretazioni
  3. La valutazione della ricerca: requisiti fondamentali
  4. Il contributo del CEPR alla determinazione degli indicatori di produttività scientifica
  5. Una scelta di fondo: la valorizzazione del merito
  6. L’area giuridica: progressi, problemi
  7. L’equilibrio tra i criteri generali e le peculiarità dell’area giuridica
  8. Le prospettive. Il ruolo delle associazioni di studiosi

Relazione all’incontro di studio organizzato dalla SPISA sulla “Valutazione della ricerca nelle scienze giuridiche”, Bologna, 22 ottobre 2010. Le osservazioni espresse sono strettamente personali e non impegnano in alcun modo il CEPR – Comitato di esperti per le politiche della ricerca

1. Confronti internazionali
Le valutazioni critiche circa lo stato della ricerca in Italia si sono dispiegate con frequenza, soprattutto dal Duemila. Oggi più che in passato, quelle valutazioni prendono spunto dai confronti internazionali [1]. Da quei confronti emerge che, se il nostro sistema è stato esposto più o meno alle medesime sollecitazioni che si riscontrano altrove, ha reagito con modi che hanno accentuato i non pochi punti di debolezza, senza dare maggior nerbo ai punti di forza, che pure esistono, per esempio nel campo della fisica e dell’archeologia. Da diversi anni, le statistiche indicano con chiarezza che poche università italiane occupano posizioni di prestigio tra le research universities [2].
I dati sui quali quei confronti si basano possono essere, ovviamente, valutati in modo diverso. Chi confida nelle risultanze di tipo statistico sosterrà che l’unico modo per “salvare la scienza italiana” [3] consista nel rettificare gli indirizzi seguiti nelle politiche di bilancio dell’ultimo decennio. Chi, invece, è convinto dell’intrinseca fondatezza dell’adagio inglese “lies, damn lies, and then statistics“, affermerà che quelle risultanze statistiche sono tutte da interpretare.
Tra queste posizioni estreme, vi è spazio per una varietà di posizioni intermedie. Si può sostenere, segnatamente, che le statistiche disponibili in ambito internazionale colgano quanto meno variazioni relative, sotto il profilo diacronico, nella posizione di ciascun Paese; che la diversità degli atenei e degli enti di ricerca costituisca non semplicemente un dato di fatto, ma un asset, da preservare, senza che ciò sia d’impedimento alla realizzazione di confronti, sulla base di adeguati benchmarks. Proverò a sviluppare questa linea di ragionamento, distinguendo i dati dalle interpretazioni, per poi dare conto degli orientamenti ai quali si è attenuto il CEPR nel presentare al Ministro dell’università e della ricerca scientifica un parere sulla valutazione della produttività scientifica, e infine di alcune implicazioni che ne derivano per gli studiosi e le associazioni delle quali essi fanno parte.

2. Dati e interpretazioni
I dati da cui muovere sono noti. Quanto al rapporto tra la spesa pubblica per l’istruzione e la formazione e il prodotto interno lordo l’Italia si colloca al trentesimo posto tra i trentatré presi in considerazione dall’OCSE [4]. Considerando, invece, la spesa per la ricerca e sviluppo in rapporto al prodotto interno lordo, raggiungiamo una posizione migliore (la ventitreesima), mentre è ben peggiore quella all’interno del Global Competitivenees Index redatto annualmente dal World Economic Forum [5].
Ne trae spunto la prima ipotesi, tanto banale quanto doverosa, cioè che, se non tutto funziona a meraviglia nel complesso mondo della ricerca (che nello specifico contesto italiano è contrassegnato da un rilievo delle università maggiore rispetto ai maggiori Paesi dell’Europa unita), ciò dipende anzitutto dall’inadeguatezza delle risorse. La linea di condotta che discende da questa analisi è semplice: affinché il nostro Paese possa mettersi al passo dei partners europei, per poi cercare di recuperare il tempo perduto, deve investire di più nella ricerca [6].
Si tratta d’una ipotesi suggestiva. Essa sconta, però, un duplice difetto: la sopravvalutazione del dato finanziario, che ha un indubbio rilievo ma certamente non è l’unico ad averne, e la sottovalutazione della performance. Nel vagliare la spesa pubblica per l’istruzione superiore e la ricerca, infatti, la Commissione tecnica per la finanza pubblica ha riscontrato la “sostanziale assenza di qualsiasi meccanismo che premi gli atenei meglio in grado di rispondere alle domande delle famiglie e delle imprese” [7].

Note

1.  Da ultimo, Scimago Institutions Ranking, World Report 2010. Research Institution Ranking, 2010.

2.  Le cause sono ben illustrate da Andrea Graziosi, L’università per tutti, Bologna, Il Mulino, 2010.

3.  Alison Abbott, Saving Italian science, Nature, Volume 440, Issue 7082, pp. 264-265 (2006).

4.  OECD, Education at a Glance 2010: OECD Indicators, 2010.

5.  Per un’analisi critica delle norme che hanno comportato una riduzione degli investimenti nella ricerca, Francesco Sylos Labini, Stefano Zapperi, I ricercatori non crescono sugli alberi, Laterza, 2010.

6.  Questa corrente di pensiero non segue necessariamente la logica del tax & spend: vi è anche chi propugna la revisione della distribuzione delle risorse all’interno della spesa sociale.

7.  Commissione tecnica per la finanza pubblica, Libro verde sulla spesa pubblica, 2007, enfasi nell’originale.

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