Crisi e istituzioni. Una “nuova” interpretazione della Grande Depressione
1. I forti parallelismi tra la presente crisi e la molto evocata “crisi del ‘29” (squilibri macroeconomici preesistenti, fattori speculativi alimentati da eccesso di credito, politica economica di riferimento – monetaria e fiscale – inadeguata a prevenire, e contrastare, la crisi) sono stati, e sono, ampiamente discussi. Vengono anche sottolineati elementi nuovi della crisi attuale: strumenti finanziari innovativi, nuove categorie di intermediari finanziari poco o per nulla regolati, che operano con alta leva finanziaria, talora indicati nel loro complesso come “sistema bancario ombra”. Secondo alcuni, questi elementi bastano a configurare un modello untested di crisi, non riconducibile a precedenti schemi; secondo altri, la crisi corrente è riconducibile in ultima analisi a uno schema quasi standardizzato, divulgato da Galbraith[1], cioè alla instabilità intrinseca dell’economia di mercato capitalistica: eccesso di credito; gonfiamento delle attività, finanziarie e reali; svendita e crollo dei loro prezzi; ritorno della fiducia – accelerato, o ritardato, dalle politiche macroeconomiche – e poi ripresa del ciclo economico.
Sembra così che i primi, coerentemente, vedano il punto critico da affrontare nell’innovazione finanziaria in senso lato (strumenti e attori): non necessariamente per cancellare l’innovazione, della quale anzi si riconoscono gli effetti positivi in termini di disponibilità di capitale, efficienza nel suo uso, e maggiore crescita economica, ampiamente sperimentata su scala globale almeno nel passato decennio, bensì per correggerne le distorsioni con la regolazione. I secondi, altrettanto coerentemente con la loro diagnosi, vedono nelle iniziative non tempestivamente adottate nella “crisi del ‘29” la principale via d’uscita per impedire che la recessione si trasformi in depressione: la “lezione” di quella crisi dovrebbe essere ben appresa, e idonee politiche macroeconomiche – monetarie e fiscali – dovrebbero impedire che i picchi dell’attuale crisi diventino paragonabili a quelli, drammatici, della precedente (il prodotto reale degli SU, ad es., scese complessivamente di circa il 30 per cento tra il 1930 e il ’33; dopo alcuni anni di risalita, una nuova severa contrazione del 3,4 per cento si ebbe nel 1938).
Questa divisione nella diagnosi è ovviamente da intendersi come una schematizzazione, e i tipi di iniziativa da intraprendere non si escludono reciprocamente. Il clean up dei bilanci degli intermediari è invocato assieme al sostegno della domanda aggregata.
Tuttavia, un aspetto della Grande Depressione che oggi appare pretermesso, certamente non enfatizzato, è quello “istituzionale”. Vi sono buoni motivi per dedicargli qualche attenzione.
2. Gli Stati Uniti, e non solo essi, tentarono di uscire dalla crisi con importanti riforme, in genere con un più ampio ruolo attribuito alla mano pubblica nella conduzione dell’economia. Si ricordano alcune tappe fondamentali: il Glass-Steagall Act 1932 (presidenza Hoover) consentì un ampliamento della gamma di titoli (debito pubblico e privato) che la banca centrale poteva acquisire contro creazione di moneta. Ciò dette luogo a quello che va oggi sotto l’esoterico nome di qualitative and quantitative easing, che portò in pochi mesi a un raddoppio dei titoli di Stato nel suo portafoglio e a un gonfiamento del proprio bilancio. L’operazione fu interrotta quando si constatò che le banche, anziché incrementare l’attività di prestito, accrescevano le loro riserve presso la banca centrale [2]: excess reserves come conseguenza del credit crunch. Oggi, in modo non dissimile, il bilancio della Riserva Federale è più che raddoppiato in pochi mesi, per un enorme incremento dell’attività di prestito contro un’ampia e non convenzionale gamma di titoli.
Note
1. Galbraith J.K., A Short History of Financial Euphoria, Whittle Books, 1993↑
2. Friedman M., Schwartz A.J., The Great Contraction 1929-1933, Princeton University Press, 1965, pp. 25, 51-52↑