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Dopo Keynes, dopo Sraffa: il pensiero “critico” e l’economia italiana*

di - 24 Aprile 2009
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Il caso positivo segue di pochi anni. Dopo i risultati solo parziali delle restrizioni creditizie del 1974 e del 1976, la Banca d’Italia dal 1979 guidata da Carlo Ciampi maturò il convincimento che l’inflazione era perpetuata da carenze nei meccanismi allocativi prima richiamati e da asimmetrie nelle variazioni dei prezzi assoluti. Vi corrispose un mutamento di strategia, basato sul freno imposto dai tassi d’interesse al deprezzamento della lira. Preclusa la scorciatoia alla competitività attraverso il cambio, le imprese industriali dovettero contenere i costi. L’inflazione scese, dal 21 per cento del 1980 a meno del 5 nel 1987. La politica della moneta e del cambio mutò le aspettative, la convenzione psicologica dominante: convention nel senso della pagina 152 della General Theory.
Il colpo definitivo all’inflazione fu pur esso inferto da un governo della moneta rigoroso, di stampo keynesiano. Nell’estate del 1994 l’inflazione aveva preso a risalire, verso il 6 per cento, movendo da livelli (3,7 per cento) già doppi rispetto a quello dei paesi europei più stabili. La Banca d’Italia diretta da Antonio Fazio attuò una stretta monetaria d’anticipo, la cui efficacia e credibilità ebbero pieno esito. L’inflazione ridiscese nel 1996 per situarsi al di sotto del 2 per cento nel 1997, entro il limite di Maastricht. Vennero abbattute le aspettative sui prezzi, ridotta la domanda di moneta, rilanciata la domanda di titoli. Al rialzo dei tassi a breve corrispose, non l’aumento, ma la flessione dei tassi a lunga.
L’episodio costituisce conferma del duplice convincimento espresso da Keynes nella General Theory: che il tasso a lunga dipende dalla moneta e dalle attese, non da produttività e parsimonia, e che una politica monetaria accorta – Keynes diceva “safe” – può controllarlo se controlla la moneta e le attese.

Dopo il 1992: una produttività spenta
Dalla crisi valutaria del 1992, l’economia italiana in un certo senso non è fuoruscita. Non ha più saputo essere produttiva. Un problema di instabilità è sfociato in un problema di crescita – di progresso tecnico – tuttora irrisolto.
Il ristagno non è prima facie riconducibile ai paradigmi “di Cambridge”. Non si configura come carenza strutturale di domanda effettiva. Inoltre, l’applicazione, anche solo per analogia, di uno schema ricardiano contrasta con almeno tre fatti. Mentre la crescita dell’economia rallentava, la profittabilità risaliva, anche nella industria. Il tasso di accumulazione si manteneva sui livelli pre-1992. La progressione della produttività nella manifattura scemava su ritmi, non solo prossimi allo zero, ma inferiori a quelli del terziario, privato e financo pubblico.
Nondimeno, di fronte alle difficoltà analitiche ancor più serie in cui incorre la ipotesi neoclassica è dal pensiero critico che possono desumersi spunti utili a sciogliere il “mistero” della produttività spenta nell’economia italiana. Mi riferisco alle teorie dell’impresa, della concorrenza in senso dinamico, del progresso tecnico.
Il pensiero critico opportunamente rifiuta l’idea neoclassica dell’azienda non monopolistica quale “scatola nera” ottimizzante. Nella funzione di comportamento delle imprese entrano, con diverso peso, sollecitazioni diverse, oltre al profitto di breve termine. Sul comportamento dei produttori influisce il contesto, al di là delle stesse forme di mercato. E’ quindi potenzialmente fruttuoso il riferimento alla visione dell’impresa e della funzione imprenditoriale più larga, articolata, storicizzante, secondo una linea che va da Downie all’ultimo Baumol.
Dinamicamente, la concorrenza costringe le imprese -in specie le grandi, oligopolistiche – a riallocare le risorse, a investirle nella ricerca sistematica delle innovazioni e nella loro profittevole diffusione. Oltre che per l’assenza di rivalità fra imprese, la sollecitazione può mancare se il tasso di cambio si deprezza, se il salario è cedevole, se la spesa pubblica è copiosa e gli aiuti di Stato disponibili. In sintesi, la sollecitazione manca se prevalgono certezze di agevole profitto, in alternativa alla sua più ardua ricerca attraverso efficienza e progresso tecnico.
Le spinte lato sensu concorrenziali possono essere variamente attive. Determinano le capacità potenziali dei produttori di dimostrarsi efficienti e innovativi. Al tempo stesso, il contesto esterno in diversa misura facilita, ovvero ostacola, l’espressione delle potenzialità dei produttori. Spesa pubblica corrente eccessiva, servizi della P.A. inefficaci, tassazione onerosa, infrastrutture fisiche carenti, diritto dell’economia inadeguato possono spegnere la propensione delle imprese alla produttività, renderne vana la ricerca.
Dalla interazione nella diade capacità/possibilità di produrre più e meglio dipende lo sviluppo economico. Applicando questo schema al caso dell’Italia post-1992 l’interazione è stata perversa. La crescita non è stata favorita dall’ambiente esterno all’impresa. Non lo è stata nella struttura dei conti pubblici e nella funzionalità dell’amministrazione statale, come pure nelle infrastrutture fisiche e giuridiche. Contemporaneamente, è scemata la concorrenza, e con essa il dinamismo d’impresa. Interagendo in negativo, questi quattro fasci di forze – Stato, infrastrutture, concorrenza, dimensione d’impresa – hanno ridotto alla stagnazione il sistema produttivo del Paese.
Il pensiero critico, peraltro, invita ad andare oltre questo stesso, pur utile schema. Invita a chiedersi perché i quattro fasci di forze che abbiamo enucleato hanno agito da freno alla crescita. Invita altresì a interrogarsi sulle condizioni – a questo punto meta-economiche – che potrebbero orientare quelle stesse forze nel senso opposto, di interagire promuovendo la crescita.

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