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Dopo Keynes, dopo Sraffa: il pensiero “critico” e l’economia italiana*

di - 24 Aprile 2009
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Il pensiero “di Cambridge” unisce all’apertura alla storia una ulteriore, precisa indicazione di metodo. I due piani – quello dell’analisi in senso stretto economica e quello dell’analisi dello strato sottostante, meta-economico, che per brevità può dirsi “istituzionale” – vanno trattati almeno in un primo momento separatamente. La scansione che li distingue consentirà poi di meglio ricongiungerli in una sintesi compiuta. Pasinetti riconduce il progresso tecnico, motore dello sviluppo moderno, al più generale processo di apprendimento degli uomini riuniti in società, a propria volta connessa, credo, con la dimensione istituzionale e segnatamente con quella culturale.

La crisi in corso
La crisi finanziaria internazionale esplosa negli Stati Uniti, dalla seconda metà del 2008 si è unita a una profonda recessione delle economie avanzate, con rischio serio di deflazione e di una contrazione, nel 2009, dell’attività produttiva su scala mondiale. Analoghe previsioni, non meno incerte in un momento come questo, vengono dette per l’economia italiana.
Nella crisi attuale, davvero non si comprende quale possa essere la “ricetta” specificamente neoclassica, fatte salve ulteriori regole per la finanza. Nuove regole, che facciano tesoro delle esperienze più recenti, possono limitare crisi simili all’attuale in futuro. Al di là degli slogan sulla deregolamentazione, nel mondo banche e soprattutto mercati finanziari non erano mai stati in precedenza tanto regolati. Eppure la crisi finanziaria c’è stata. Le regole possono poco per prevenire l’instabilità che si annida nelle zone innovative e non regolamentate della finanza. A crisi scoppiate la “ricetta” di derivazione keynesiana è, invece, chiara. Occorre agire contemporaneamente – ciò è decisivo – sul fronte monetario e su quello reale: ristabilire la funzionalità della finanza, sostenere la domanda globale. Sul primo fronte gli interventi per evitare l’aggravamento della crisi e per superarla sono efficaci solo se discrezionali. Il crescendo delle azioni possibili verso il sistema bancario e finanziario è il seguente: liquidità; garanzie; acquisizione di titoli rischiosi; ricapitalizzazione con danaro privato; ricapitalizzazione con danaro pubblico; regole diverse, aggiuntive. Sul secondo fronte il crescendo degli interventi è il seguente: detassazione; spesa statale produttiva; socializzazione degli investimenti. Nella impostazione keynesiana, al di là degli atti di politica economica – opportunamente diversi da paese a paese – e della primazia della discrezionalità sulle regole, rileva il governo delle aspettative: l’efficacia degli interventi agli occhi degli autoreferenziali mercati, per il ripristino della fiducia.
Il caso italiano è anche nella presente crisi speciale. L’instabilità finanziaria – meno grave – e la recessione – non meno grave – si sono innestate su un – gravissimo – male risalente: il ristagno della produttività. In questo caso, governare le aspettative equivale a fondare su una corretta diagnosi, che distingua i diversi mali, un programma organico e pluriennale di attacco alle debolezze strutturali dell’economia, avviandone immediatamente l’attuazione. Nella misura in cui imprese, famiglie, mercati finanziari riterranno quel programma persuasivo, la propensione privata alla spesa risalirà con il ritorno della fiducia. Potrà essere anche sostenuta da un deficit spending che nella composizione delle minori entrate e delle maggiori spese pubbliche non contrasti con le linee basilari del programma pluriennale. Ma questo è prioritario.
Non giovano i rinvii. E’ esiziale l’oscillare tra manifestazioni di pessimismo e di ottimismo. Purtroppo è ciò che è accaduto e accade, non solo da noi.

*Versione orale della relazione tenuta al Convegno Convegno internazionale “Gli economisti postkeynesiani di Cambridge e l’Italia”, promosso dall’Accademia Nazionale dei Lincei, Palazzo Corsini – Roma, 11-12 marzo 2009

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