Rileggendo Fausto Vicarelli, per “tornare a Keynes”
Sono stati appena pubblicati tre volumi a cura di Claudio Gnesutta dal titolo “Fausto Vicarelli, Tornare a Keynes, Scritti scientifici”; la pubblicazione è avvenuta a cure della Banca d’Italia, della quale Vicarelli è stato stimatissimo consulente per quasi vent’anni fino alla prematura scomparsa a soli 51 anni nel 1986.
I tre volumi documentano l’importanza di Fausto Vicarelli come economista per la vastità dei suoi contributi scientifici che vi sono riportati, questi contributi vanno dall’analisi critica del progresso tecnico nelle funzioni di produzione, all’apporto all’economia internazionale con una originale integrazione tra aspetti reali e finanziari, ad una approfondita analisi, sia teoria che empirica, della struttura monetaria e finanziaria e del loro rapporto con l’accumulazione di capitale e lo sviluppo economico, ad un modo del tutto originale di affrontare i problemi del rapporto tra disoccupazione e inflazione; in tutti questi campi i contributi scientifici di Vicarelli non hanno mai ceduto alla tentazione dell’astrazione, ma sono sempre stati caratterizzati da importanti riferimenti costruttivi ai sistemi economici reali, in particolare alla realtà italiana.
Ma i tre volumi documentano soprattutto l’originale e determinante lettura che Fausto Vicarelli ha saputo dare del pensiero di John Maynard Keynes, ragione questa per la quale appare del tutto appropriato aver qualificato il titolo dei tre volumi con la dizione “Tornare a Keynes”.
Rileggendo oggi, pur a distanza di così tanti anni, in particolare alcuni contributi, pubblicati soprattutto nel secondo e nel terzo volume dell’opera curata da Gnesutta, ci si rende conto di quanto Vicarelli sia stato un precursore in una interpretazione corretta del pensiero di Keynes; corretta sia nel senso di aver saputo cogliere la inappropriatezza di tante interpretazioni e divulgazioni poi divenute conosciute con il termine “economia keynesiana”, sia nel senso di aver saputo mettere in evidenza la sostanza innovatrice del complesso pensiero teorico di Keynes, specialmente, ma non solo, nella sua opera più famosa, la “Teoria Generale dell’Occupazione, dell’Interesse e della Moneta”.
Vicarelli non è arrivato subito a Keynes quando ha iniziato le sue pubblicazioni scientifiche; lo dimostrano le oltre 330 pagine di lavori scritti a partire dal 1964 che occupano l’intero primo volume dell’opera; è solo nel 1974 che Vicarelli scrive su Keynes, in particolare nel primo capitolo del libro “La controversia keynesiana”; sono gli anni, appunto, della “controversia” tra keynesiani e monetaristi in un clima economico particolare e, in qualche misura, nuovo, caratterizzato dall’inflazione ma dalla coesistenza di questa con la disoccupazione; sono gli anni nei quali questa nuova situazione aveva creato le condizioni per il successo del rilancio della teoria monetarista contro l’allora prevalente “pensiero keynesiano”.
E’ probabile che, di fronte alla insoddisfazione provata dalle letture prevalenti di Keynes, da quella della “sintesi neoclassica” a quella dei sostenitori del “disequilibrio” entrambe accumunate dall’idea di considerare Keynes come una espressione di ipotesi particolari del modello walrasiano dell’equilibrio economico generale, Fausto Vicarelli sia stato spinto ad accostarsi senza mediazioni direttamente agli scritti di Keynes.
Il risultato di questa lettura, che ha allontanato il pensiero i Vicarelli sia dal pensiero pre-keynesiano sia da quello keynesiano tradizionale, si può leggere nel suo libro “Keynes. L’instabilità del capitalismo” del 1977; questo libro non è ovviamente riportato in questi tre volumi, ma nel secondo volume sono invece riportate, dopo un meticoloso lavoro di ricostruzione, le lezioni di macroeconomia keynesiana tenute da Vicarelli agli studenti dell’Università “La Sapienza di Roma” l’anno prima della sua scomparsa.
Queste lezioni danno un quadro completo e nitido dell’evoluzione del pensiero di Keynes fino alla Teoria Generale; la loro pubblicazione è un contributo fondamentale perché la loro lettura consente una comprensione sintetica, e però al tempo stesso completa, dell’evoluzione del pensiero del grande economista di Cambridge.
Nei tre volumi a cura di Claudio Gnesutta, tre lavori scientifici di Fausto Vicarelli (due nel secondo e una nel terzo) ripropongono, a mio parere, le caratteristiche essenziali dell’interpretazione data da Vicarelli al pensiero di Keynes nella Teoria generale.
Si tratta del saggio introduttivo a “La controversia keynesiana” sopra richiamato, dell’articolo “Moneta e valore nella Teoria Generale: verso una nuova interpretazione di Keynes” pubblicato nel 1977 in un volume a cura di Riccardo Faucci, e del capitolo “Dall’equilibrio alla probabilità: una rilettura del metodo della Teoria Generale” nel libro “Attualità di Keynes”, curato dello stesso Vicarelli e pubblicato nel 1983.
Il punto centrale della critica di Vicarelli alla lettura di Keynes fatta sia dei neoclassici sia dai teorici del disequilibrio, (ben richiamato in una post-fazione di Claudio Gnesutta da p. 153 a p.169 del secondo volume) sta nella identificazione della domanda effettiva introdotta da Keynes attraverso una funzione dell’investimento sostanzialmente dipendente dalle aspettative degli imprenditori.
Questa funzione non può essere identificata, proprio per le sue caratteristiche, con la funzione di domanda di capitale della teoria neoclassica dell’equilibrio economico generale che non dipende per nulla dalle aspettative, ma solo dai prezzi relativi; perciò l’inserimento della funzione keynesiana dell’investimento nel modello neoclassico dell’equilibrio generale, lo sovra-determina.
Nella corretta lettura di Vicarelli nella Teoria Generale gli investimenti sono determinati dalla “efficienza marginale del capitale” che, nel capitolo undicesimo della Teoria Generale, Keynes definisce come “il tasso di rendimento che ci si aspetta di ottenere” da un nuovo investimento, e “non dal risultato storico che un investimento ha ottenuto”.
E’ chiarissimo come per Keynes nelle decisioni di investimento contino le aspettative di rendimento, che peraltro dovranno essere poi confrontate con i dati reali; questo è il senso dell’affermazione di Keynes che gli investimenti dovranno essere spinti fino al punto in cui l’efficienza marginale del capitale (che dipende dalle aspettative) diventerà uguale al tasso di rendimento del capitale livellato sul saggio di interesse.
Ma quello che Keynes sottolinea, e lo fa anche Vicarelli nella sua lettura di Keynes, efficienza marginale del capitale e tasso di rendimento del capitale sono due cose diverse: la prima tenderà alla seconda, ma non ne è determinata.
La conseguenza importante è che il fatto che gli investimenti siano determinati dalla domanda effettiva e non dalle condizioni di equilibrio generale sui mercati dei fattori, e specificamente del mercato del capitale, rende del tutto non automatico il raggiungimento della piena occupazione.
Il contributo teorico più significativo di Vicarelli, che mostra l’incompatibilità della teoria di Keynes con quella neoclassica, e che acquista un ruolo di grande attualità, riguarda dunque l’accentuazione del ruolo delle aspettative nelle scelte reali e finanziarie, una caratteristica fondamentale e distintiva dell’intero pensiero di John Maynard Keynes, ignorato da molta parte del successivo pensiero “keynesiano”.
Vicarelli coglie il punto importante di come Keynes vede le aspettative nel suo contributo del 1983 (riportato nel terzo volume da p.44 a p.60) sul ruolo della teoria della probabilità, sviluppata da Keynes nel suo trattato sulla probabilità del 1921.
Vicarelli mette in evidenza quali sono, secondo Keynes, i principi di una scelta razionale quando il futuro è incerto.
Giova ricordare come il pensiero “filosofico” di Keynes sia derivato dall’influenza avuta su di lui dai “Principia Ethica” di G.E.Moore pubblicati quando era ancora uno studente universitario; More metteva in evidenza il ruolo non tanto deduttivo della metafisica, ma induttivo dell’intuizione nella individuazione dei “principia ethica”.
Keynes applica questo insegnamento sostenendo che l’incertezza sul futuro viene tradotta in probabilità attraverso, appunto, l’intuizione che alcuni risultati siano appunto più o meno probabili di altri; la probabilità come intuizione logica non si esaurisce quindi per Keynes con la frequenza statistica.
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