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La responsabilità delle imprese

di - 26 Novembre 2020
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a) Il tasso di cambio era fortemente sottovalutato, dopo le svalutazioni della lira del 1992 e del 1995 e dopo il suo rientro nello SME, a novembre del 1996, con la parità prudenziale di 990 lire per marco: nell’insieme, un deprezzamento del 30% rispetto a una quotazione nel 1991 di 750 lire per marco. Anche l’euro si è deprezzato fino al 2002. Si è di nuovo indebolito negli ultimi anni, quando lo ha intenzionalmente depresso il cosiddetto quantitative easing della BCE: una politica monetaria che non rilanciava la domanda in Europa ma ricercava smaccatamente la svalutazione competitiva della moneta. Un dumping valutario siffatto non poteva non eccitare la reazione protezionistica degli Stati Uniti di Trump. Il cambio lasco aveva tuttavia l’effetto di favorire i profitti degli esportatori e l’attesa della sua debolezza sconsigliava la ricerca dell’efficienza produttiva ne settore dei beni commerciabili internazionalmente.
b) Altrettanto avveniva col costo del lavoro. Dopo le follie del salario “variabile indipendente” post-1969 i sindacati si sono moderati con l’accordo “Ciampi-Trentin” del 1993. Si sono tanto moderati che i salari nominali per addetto sono cresciuti solo del 2-3% l’anno fino alla recessione del 2009, per poi salire meno dell’1% l’anno fino a ieri. Una pur blanda inflazione li ha congelati in termini reali. Se ne sono avvantaggiati i profitti e non è stata stimolato l’impegno per la produttività.
c) Infine, la spesa pubblica si è attestata sulla metà del Pil. Kalecki diceva che i capitalisti guadagnano quello che essi stessi spendono, ma anche quanto lo stato spende per loro. I prezzi e i termini delle commesse, degli appalti, delle concessioni sono stati gonfiati a favore di fornitori, appaltatori, concessionari. Lo Stato ha sopportato oneri che spettava alle imprese di sostenere. Gli aiuti diretti alle imprese – contributi alla produzione e agli investimenti, trasferimenti vari – hanno oscillato sul 3% del Pil. Le imprese e le partite IVA sono i principali beneficiari di una elusione ed evasione delle imposte che tende a 120/150 miliardi. Profitti facili e, ciò che è più grave per la ricerca dell’efficienza nelle imprese, l’aspettativa di facili profitti sono così derivati anche dalle pubbliche finanze.
Ora urge che il governo Conte, avendo mancato di farlo sin da quando si presentò alle Camere ormai più di un anno fa, disegni e attui un vero e proprio piano per la crescita dell’economia.
Il Piano deve prendere avvio con risorse raccolte nel mercato finanziario, dove la Repubblica colloca senza difficoltà i propri titoli a tassi d’interesse bassi, sui Btp decennali scesi sino allo 0,6% (sfioravano il 4% a ottobre 2019). Non si può rinviare il Piano ulteriormente aspettando Godot, le donazioni europee. Se e quando arriveranno, queste potranno servire a consolidare la copertura e la robustezza del Piano. Inoltre la crescita non è solo questione di soldi.
Il Piano dovrebbe articolarsi lungo sette direttrici [1] :
– Investimenti pubblici. A differenza dei pur necessari ammortizzatori sociali moltiplicano la domanda, favoriscono la produttività, si autofinanziano grazie al reddito e al gettito fiscale che nel tempo generano. Vanno scanditi secondo priorità, sociali oltre che economiche: sanità, messa in sicurezza del territorio, infrastrutture fisiche e immateriali, cura dell’ambiente, istruzione e ricerca.
– Mezzogiorno. Non si può affidare l’economia del Sud ai “ras” regionali che hanno dato pessima prova nella sanità. I sussidi non risolvono. Vanno concentrati al Sud gli investimenti pubblici. Va innalzata la funzionalità dei pubblici servizi. Poi, tutto dipenderà dalle imprese meridionali e dai cittadini del Meridione.
– Rientro del debito pubblico. Mentre si effettuano gli investimenti pubblici che si autofinanziano, è cruciale tagliare spesa pubblica corrente ed evasione fiscale. Lo spazio per minori uscite correnti e maggiori entrate correnti c’è, eccome. L’effetto negativo sulla domanda globale di questo risparmio sarebbe quattro volte inferiore a quello fortemente moltiplicativo degli investimenti pubblici. Il pareggio del bilancio sarebbe favorito dal calo dello spread, che è in corso. Il debito smetterebbe allora di aumentare. Il ritorno dell’economia alla crescita farebbe nel medio periodo il resto, abbattendo il rapporto debito/Pil.
– Nuovo diritto dell’economia. Il diritto italiano dell’economia collide col ritorno alla crescita. Vanno riscritte con una semantica chiara le parti dell’ordinamento che maggiormente svantaggiano le imprese sui fronti societario, amministrativo, fallimentare, del processo civile.
– Concorrenza. Nei mercati va imposta la concorrenza. Devono ridimensionarsi le imprese che si affidano a oligopoli, lucrose commesse e concessioni, bassi salari, sussidi, evasione di imposte e contributi. La riallocazione delle risorse postula addestramento e sostegno ai lavoratori costretti a cambiare occupazione.
– Distribuzione del reddito. E’ altamente sperequata. Frena la crescita perché impedisce ai meno abbienti – nel Meridione soprattutto – di investire su se stessi e quindi di recare il massimo apporto al progresso del Paese.
– Europa. Nei Trattati, nella politica fiscale, nell’asfittico Statuto della banca centrale, nella cultura di chi governa l’Europa – Germania in testa – deve affermarsi un semplice principio: senza domanda globale non c’è crescita e senza crescita non v’è stabilità, monetaria, finanziaria, produttiva, sociale, geopolitica.
L’economia italiana non tornerà alla crescita se lo Stato non avvierà con urgenza quanto ha mancato di fare in vent’anni. Ma non vi tornerà nemmeno se lo Stato dovesse agire, qualora le imprese non riscoprissero la via maestra al profitto. Devono capire che la via facile non è ulteriormente percorribile. Se anche lo fosse, non assicurerebbe la loro sopravvivenza nel mondo globalizzato, competitivo, segnato da nuovi paradigmi tecnologici e da nuovi equilibri geo-politici, con l’America perdente e la Cina vincente.
Fa sperare che almeno in due occasioni del passato i produttori italiani hanno capito. In quella che chiamo la primavera economica giolittiana tra il 1900 e il 1913 fu Giolitti – sommo statista – a chiarire che nella dialettica capitale-lavoro lo Stato sarebbe diventato neutrale, e i carabinieri avrebbero smesso di sparare a operai e contadini in sciopero; che il cambio sarebbe stato fisso; che il bilancio sarebbe rimasto in pareggio; che non ci sarebbero stati pasti gratis per nessuno; che le concessioni ferroviarie, telefoniche, assicurative, navali ai privati inefficienti sarebbero state revocate[2]. Nella seconda occasione – il miracolo economico postbellico – le imprese risposero quando si resero conto che sarebbe fallito il loro tentativo di tornare all’autarchia, di chiudersi alla concorrenza estera, di eludere la sfida del Mercato Comune Europeo[3].
Non resta che confidare che anche questa volta, finalmente, le imprese italiane si rendano conto. Ne va della loro sorte, della sorte del Paese. Lo Stato deve smetterla di rendere difficile la loro vita, ma anche di rendergliela troppo facile.

Note

1.  P. Ciocca, Tornare alla crescita. Perché l’economia italiana è in crisi e cosa fare per rifondarla, Donzelli, Roma 2018.

2.  P. Ciocca, Giovanni Giolitti, vittima incolpevole degli economisti, in P. Barucci-L. Costabile-M. Di Matteo, Gli archivi e la storia del pensiero economico, il Mulino, Bologna 2008.

3. P. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2020), Bollati Boringhieri, Torino 2020.

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