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La responsabilità delle imprese

di - 26 Novembre 2020
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Il dato di fondo sulle imprese italiane è confermato dall’ISTAT. E’ il dato della loro produttività.
La produttività, cioè innovazione e progresso tecnico, è uno dei due motori dello sviluppo economico. L’altro motore è l’accumulazione del capitale, il volume del risparmio e dell’investimento. La produttività è il più potente dei due motori. Potrebbe far volare l’aereo anche se l’altro motore fosse inagibile. Fuor di metafora, l’accumulazione spiega il 40% della crescita, la produttività il 60%.
Dal 1999 al 2019, il ventennio dell’euro prima della pandemia, il Pil dell’Italia è aumentato solo dello 0,7% l’anno. A questo ritmo raddoppia in cento anni, tre o quattro generazioni…Troppo poco.
Questa crescita deludente è poi dovuta principalmente al contributo – peraltro modestissimo, pari allo 0,5% l’anno – recato da un qualche aumento del capitale impiegato e in misura ancor minore al contributo, pari allo 0,2% l’anno, recato dall’incremento delle ore lavorate. L’apporto della produttività totale dei fattori – del lavoro e del capitale insieme, cioè dell’innovazione e del progresso tecnico – è stato pari a zero, assolutamente nullo. In particolare la produttività del lavoro è cresciuta di un misero 0,3% l’anno e la produttività del capitale è addirittura diminuita (dello 0,7% l’anno).
In sintesi, il principale motore della crescita – la produttività – è spento. L’altro motore – l’accumulazione di capitale – è semispento. L’aereo stalla, rischia di precipitare.
La conclusione molto amara è che le imprese italiane da vent’anni investono poco e non innovano.
In un arco di tempo così lungo è la peggiore performance dal tempo di Cavour. E’ anche fra le peggiori performance nell’Unione Europea. Sempre nel 1999-2019 il Pil della Ue a 28 paesi è cresciuto dell’1,9% l’anno, quasi tre volte quello italiano, e la produttività del lavoro europea è aumentata dell’1,6% l’anno, cinque volte quella italiana.
Escludo una spiegazione e ne qualifico un’altra.
Alcuni ritengono responsabile l’Europa e/o l’Euro. Ora, è vero che l’Europa poteva crescere di più. La sua dinamica è stata contenuta dalle regole post-Maastricht e, più in generale, dalla impostazione che è stata impressa alle politiche di bilancio, soprattutto dalla Germania e dai suoi satelliti. La ricerca degli equilibri di bilancio e in particolare il taglio degli investimenti pubblici hanno frenato la domanda globale nell’intera area. Di riflesso ne hanno alquanto risentito le esportazioni italiane. Ma il fatto che la crescita del bel paese sia stata pari solo a un terzo di quella europea testimonia che il problema dell’Italia è interno alla sua economia, non nasce dall’Europa.
L’euro, in particolare, non ha colpe. L’euro è stato troppo caricato del disegno geopolitico di condurci a un’Europa anche politicamente unita. Ma è solo…una moneta. Economicamente è una buona moneta. Una moneta è buona quando è domandata. L’euro è molto domandato, anche internazionalmente. Una prova è che ha in parte sostituito il dollaro quale valuta di riserva. In quanto buona moneta, l’euro ha fatto il suo dovere. Ha contribuito ad assicurare all’area monetaria europea prezzi stabili, tassi d’interesse contenuti, integrazione commerciale e finanziaria. E’, questo, il dividendo economico dell’euro, un dividendo potenzialmente prezioso.
Rinunciare a una buona moneta, dopo vent’anni, sarebbe insensato, per tutti costoso. Sarebbe disastroso per l’Italia. La nuova lira si deprezzerebbe, peggiorando le ragioni di scambio; le merci nazionali tuttavia, mancando di competitività per bassa qualità e costi alti, non sarebbero esportate; aumenterebbero i prezzi e il costo della vita; la Banca d’Italia contrasterebbe l’inflazione, provocando recessione e disoccupazione; cadrebbero i valori immobiliari e di Borsa; salirebbero i tassi d’interesse, con ulteriore taglio degli investimenti privati e lo spread dilaterebbe il debito pubblico. Gli italiani perderebbero reddito per centinaia di miliardi e patrimonio per migliaia di miliardi.
La verità è che il dividendo dell’euro è stato dissipato dall’Italia, per responsabilità tutte italiane.
L’altra spiegazione, ricorrente in Confindustria, è quella di chi tiene esclusivamente responsabili i governi, di vario colore, che si sono susseguiti a Palazzo Chigi. Si deve convenire che le politiche economiche e istituzionali necessarie sono rimaste largamente inattuate.
Eppure la chiamata di correo, oltre ai governi, deve coinvolgere soprattutto estendersi alla responsabilità delle imprese. Il contesto, che competeva ai governi, non ha facilitato il loro impegno produttivo. Ma è mancata una loro autonoma risposta alle difficoltà strutturali del paese, solo dopo inasprite dalla pandemia.
Il punto chiave è che sono le imprese italiane – naturalmente nell’aggregato – a non aver accumulato capitale e a non aver innovato. Hanno lucrato lauti profitti e li hanno ampiamente impiegati per togliersi i debiti e in investimenti finanziari. Da produttori si sono quasi trasformate in rentiers.
Mentre ristagnava la produttività – che è in primo luogo affidata alle imprese – dai primi anni Novanta del secolo scorso sino all’antivigilia della recessione del 2008-2009 la quota dei profitti si è attestata su valori superiori a quelli del ventennio precedente. Questa quota toccava il 30% del reddito nazionale nei primi anni Duemila: una punta che non era più stata avvicinata dagli anni Sessanta. Ciò avveniva sebbene dal 1980 la rendita edilizia, oltre a schiacciare la quota dei salari, premesse anche sui profitti. Dopo la recessione “Lehman” i margini di utile nell’industria, in particolare, hanno registrato un recupero nel 2013-2016 per poi attestarsi su livelli superiori a quelli del 2007 fino alla crisi da pandemia.
In parte non piccola gli utili non distribuiti sono stati usati per il rimborso dei debiti e per il consolidamento del controllo dell’azienda. Nella recessione del 1993, in rapporto alla somma del capitale di rischio e del capitale di prestito (la cosiddetta leva finanziaria), i debiti erano saliti sin quasi al 60%. Poi scendevano, tra oscillazioni, sino ad attestarsi sul 40%. Al tempo stesso nei bilanci aziendali aumentavano le attività finanziarie, più o meno liquide. Una ditta di montature per occhiali intende acquisire il controllo di quella che fu la principale merchant bank del paese. Gli oneri finanziari netti diminuivano nel margine operativo lordo. Il primo socio arrivava a detenere, in media, due terzi delle azioni o delle quote societarie: era padrone assoluto.
Naturalmente in questo quadro a tinte fosche si ravvisano anche delle luci. Un manipolo di imprese manifatturiere medie è altamente produttivo, più efficiente delle rivali europee di analoga dimensione. Ma non sono propense a diventare grandi, ad affidarsi a managers piuttosto che all’azionista e a quotarsi in Borsa per poter competere con le maggiori rivali. Persino la Ferrari non vince più, strabattuta dal colosso Mercedes Benz. Soprattutto, nel confronto con le aziende europee di pari dimensione risultano molto meno efficienti sia le poche grandi imprese rimaste sia la sterminata galassia delle ditte con meno di 2 addetti in media: il bar all’angolo o l’edicola di giornali… Si tratta di 4,2 milioni di unità (94% del totale) che danno lavoro a 8 milioni di persone, pari al 45% degli occupati di tutte le imprese.
I pochi investimenti, la carenza di innovazione, la bassa produttività dipendono dalla minuscola dimensione delle imprese italiane e dal loro essere, per usare il linguaggio di Luisa May Alcott, “piccole donne” che non crescono. Ma questo era vero anche nelle fasi del passato quando, nonostante i limiti dimensionali delle imprese di allora, investimenti, innovazione, produttività non mancarono. La modesta dimensione è solo una parte del problema.
La peggiore delle ipotesi è un’altra: nell’ultimo ventennio il grosso delle imprese italiane – piccole, medie e grandi – non ha espresso investimenti, innovazione, produttività perché non era considerato conveniente. Non lo era per la semplice ragione che si facevano comunque profitti, anche in assenza di investimenti, innovazione, produttività. Era squadernata la via facile al profitto, meno rischiosa e costosa della via maestra rappresentata dalla ricerca dell’efficienza, statica e dinamica, attraverso gli investimenti, l’innovazione, la produttività. Le imprese hanno scelto la via facile. Apparsa vincente nell’immediato, era miope e alla lunga perdente, per loro stesse oltre che per l’economia del Paese.
Profitti per loro natura di breve periodo sono stati realizzati per anni. Sono scaturiti dal tasso di cambio, dal salario, dalla finanza pubblica.

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