La responsabilità delle imprese

Il dato di fondo sulle imprese italiane è confermato dall’ISTAT. E’ il dato della loro produttività.
La produttività, cioè innovazione e progresso tecnico, è uno dei due motori dello sviluppo economico. L’altro motore è l’accumulazione del capitale, il volume del risparmio e dell’investimento. La produttività è il più potente dei due motori. Potrebbe far volare l’aereo anche se l’altro motore fosse inagibile. Fuor di metafora, l’accumulazione spiega il 40% della crescita, la produttività il 60%.
Dal 1999 al 2019, il ventennio dell’euro prima della pandemia, il Pil dell’Italia è aumentato solo dello 0,7% l’anno. A questo ritmo raddoppia in cento anni, tre o quattro generazioni…Troppo poco.
Questa crescita deludente è poi dovuta principalmente al contributo – peraltro modestissimo, pari allo 0,5% l’anno – recato da un qualche aumento del capitale impiegato e in misura ancor minore al contributo, pari allo 0,2% l’anno, recato dall’incremento delle ore lavorate. L’apporto della produttività totale dei fattori – del lavoro e del capitale insieme, cioè dell’innovazione e del progresso tecnico – è stato pari a zero, assolutamente nullo. In particolare la produttività del lavoro è cresciuta di un misero 0,3% l’anno e la produttività del capitale è addirittura diminuita (dello 0,7% l’anno).
In sintesi, il principale motore della crescita – la produttività – è spento. L’altro motore – l’accumulazione di capitale – è semispento. L’aereo stalla, rischia di precipitare.
La conclusione molto amara è che le imprese italiane da vent’anni investono poco e non innovano.
In un arco di tempo così lungo è la peggiore performance dal tempo di Cavour. E’ anche fra le peggiori performance nell’Unione Europea. Sempre nel 1999-2019 il Pil della Ue a 28 paesi è cresciuto dell’1,9% l’anno, quasi tre volte quello italiano, e la produttività del lavoro europea è aumentata dell’1,6% l’anno, cinque volte quella italiana.
Escludo una spiegazione e ne qualifico un’altra.
Alcuni ritengono responsabile l’Europa e/o l’Euro. Ora, è vero che l’Europa poteva crescere di più. La sua dinamica è stata contenuta dalle regole post-Maastricht e, più in generale, dalla impostazione che è stata impressa alle politiche di bilancio, soprattutto dalla Germania e dai suoi satelliti. La ricerca degli equilibri di bilancio e in particolare il taglio degli investimenti pubblici hanno frenato la domanda globale nell’intera area. Di riflesso ne hanno alquanto risentito le esportazioni italiane. Ma il fatto che la crescita del bel paese sia stata pari solo a un terzo di quella europea testimonia che il problema dell’Italia è interno alla sua economia, non nasce dall’Europa.
L’euro, in particolare, non ha colpe. L’euro è stato troppo caricato del disegno geopolitico di condurci a un’Europa anche politicamente unita. Ma è solo…una moneta. Economicamente è una buona moneta. Una moneta è buona quando è domandata. L’euro è molto domandato, anche internazionalmente. Una prova è che ha in parte sostituito il dollaro quale valuta di riserva. In quanto buona moneta, l’euro ha fatto il suo dovere. Ha contribuito ad assicurare all’area monetaria europea prezzi stabili, tassi d’interesse contenuti, integrazione commerciale e finanziaria. E’, questo, il dividendo economico dell’euro, un dividendo potenzialmente prezioso.
Rinunciare a una buona moneta, dopo vent’anni, sarebbe insensato, per tutti costoso. Sarebbe disastroso per l’Italia. La nuova lira si deprezzerebbe, peggiorando le ragioni di scambio; le merci nazionali tuttavia, mancando di competitività per bassa qualità e costi alti, non sarebbero esportate; aumenterebbero i prezzi e il costo della vita; la Banca d’Italia contrasterebbe l’inflazione, provocando recessione e disoccupazione; cadrebbero i valori immobiliari e di Borsa; salirebbero i tassi d’interesse, con ulteriore taglio degli investimenti privati e lo spread dilaterebbe il debito pubblico. Gli italiani perderebbero reddito per centinaia di miliardi e patrimonio per migliaia di miliardi.
La verità è che il dividendo dell’euro è stato dissipato dall’Italia, per responsabilità tutte italiane.
L’altra spiegazione, ricorrente in Confindustria, è quella di chi tiene esclusivamente responsabili i governi, di vario colore, che si sono susseguiti a Palazzo Chigi. Si deve convenire che le politiche economiche e istituzionali necessarie sono rimaste largamente inattuate.
Eppure la chiamata di correo, oltre ai governi, deve coinvolgere soprattutto estendersi alla responsabilità delle imprese. Il contesto, che competeva ai governi, non ha facilitato il loro impegno produttivo. Ma è mancata una loro autonoma risposta alle difficoltà strutturali del paese, solo dopo inasprite dalla pandemia.
Il punto chiave è che sono le imprese italiane – naturalmente nell’aggregato – a non aver accumulato capitale e a non aver innovato. Hanno lucrato lauti profitti e li hanno ampiamente impiegati per togliersi i debiti e in investimenti finanziari. Da produttori si sono quasi trasformate in rentiers.
Mentre ristagnava la produttività – che è in primo luogo affidata alle imprese – dai primi anni Novanta del secolo scorso sino all’antivigilia della recessione del 2008-2009 la quota dei profitti si è attestata su valori superiori a quelli del ventennio precedente. Questa quota toccava il 30% del reddito nazionale nei primi anni Duemila: una punta che non era più stata avvicinata dagli anni Sessanta. Ciò avveniva sebbene dal 1980 la rendita edilizia, oltre a schiacciare la quota dei salari, premesse anche sui profitti. Dopo la recessione “Lehman” i margini di utile nell’industria, in particolare, hanno registrato un recupero nel 2013-2016 per poi attestarsi su livelli superiori a quelli del 2007 fino alla crisi da pandemia.
In parte non piccola gli utili non distribuiti sono stati usati per il rimborso dei debiti e per il consolidamento del controllo dell’azienda. Nella recessione del 1993, in rapporto alla somma del capitale di rischio e del capitale di prestito (la cosiddetta leva finanziaria), i debiti erano saliti sin quasi al 60%. Poi scendevano, tra oscillazioni, sino ad attestarsi sul 40%. Al tempo stesso nei bilanci aziendali aumentavano le attività finanziarie, più o meno liquide. Una ditta di montature per occhiali intende acquisire il controllo di quella che fu la principale merchant bank del paese. Gli oneri finanziari netti diminuivano nel margine operativo lordo. Il primo socio arrivava a detenere, in media, due terzi delle azioni o delle quote societarie: era padrone assoluto.
Naturalmente in questo quadro a tinte fosche si ravvisano anche delle luci. Un manipolo di imprese manifatturiere medie è altamente produttivo, più efficiente delle rivali europee di analoga dimensione. Ma non sono propense a diventare grandi, ad affidarsi a managers piuttosto che all’azionista e a quotarsi in Borsa per poter competere con le maggiori rivali. Persino la Ferrari non vince più, strabattuta dal colosso Mercedes Benz. Soprattutto, nel confronto con le aziende europee di pari dimensione risultano molto meno efficienti sia le poche grandi imprese rimaste sia la sterminata galassia delle ditte con meno di 2 addetti in media: il bar all’angolo o l’edicola di giornali… Si tratta di 4,2 milioni di unità (94% del totale) che danno lavoro a 8 milioni di persone, pari al 45% degli occupati di tutte le imprese.
I pochi investimenti, la carenza di innovazione, la bassa produttività dipendono dalla minuscola dimensione delle imprese italiane e dal loro essere, per usare il linguaggio di Luisa May Alcott, “piccole donne” che non crescono. Ma questo era vero anche nelle fasi del passato quando, nonostante i limiti dimensionali delle imprese di allora, investimenti, innovazione, produttività non mancarono. La modesta dimensione è solo una parte del problema.
La peggiore delle ipotesi è un’altra: nell’ultimo ventennio il grosso delle imprese italiane – piccole, medie e grandi – non ha espresso investimenti, innovazione, produttività perché non era considerato conveniente. Non lo era per la semplice ragione che si facevano comunque profitti, anche in assenza di investimenti, innovazione, produttività. Era squadernata la via facile al profitto, meno rischiosa e costosa della via maestra rappresentata dalla ricerca dell’efficienza, statica e dinamica, attraverso gli investimenti, l’innovazione, la produttività. Le imprese hanno scelto la via facile. Apparsa vincente nell’immediato, era miope e alla lunga perdente, per loro stesse oltre che per l’economia del Paese.
Profitti per loro natura di breve periodo sono stati realizzati per anni. Sono scaturiti dal tasso di cambio, dal salario, dalla finanza pubblica.

a) Il tasso di cambio era fortemente sottovalutato, dopo le svalutazioni della lira del 1992 e del 1995 e dopo il suo rientro nello SME, a novembre del 1996, con la parità prudenziale di 990 lire per marco: nell’insieme, un deprezzamento del 30% rispetto a una quotazione nel 1991 di 750 lire per marco. Anche l’euro si è deprezzato fino al 2002. Si è di nuovo indebolito negli ultimi anni, quando lo ha intenzionalmente depresso il cosiddetto quantitative easing della BCE: una politica monetaria che non rilanciava la domanda in Europa ma ricercava smaccatamente la svalutazione competitiva della moneta. Un dumping valutario siffatto non poteva non eccitare la reazione protezionistica degli Stati Uniti di Trump. Il cambio lasco aveva tuttavia l’effetto di favorire i profitti degli esportatori e l’attesa della sua debolezza sconsigliava la ricerca dell’efficienza produttiva ne settore dei beni commerciabili internazionalmente.
b) Altrettanto avveniva col costo del lavoro. Dopo le follie del salario “variabile indipendente” post-1969 i sindacati si sono moderati con l’accordo “Ciampi-Trentin” del 1993. Si sono tanto moderati che i salari nominali per addetto sono cresciuti solo del 2-3% l’anno fino alla recessione del 2009, per poi salire meno dell’1% l’anno fino a ieri. Una pur blanda inflazione li ha congelati in termini reali. Se ne sono avvantaggiati i profitti e non è stata stimolato l’impegno per la produttività.
c) Infine, la spesa pubblica si è attestata sulla metà del Pil. Kalecki diceva che i capitalisti guadagnano quello che essi stessi spendono, ma anche quanto lo stato spende per loro. I prezzi e i termini delle commesse, degli appalti, delle concessioni sono stati gonfiati a favore di fornitori, appaltatori, concessionari. Lo Stato ha sopportato oneri che spettava alle imprese di sostenere. Gli aiuti diretti alle imprese – contributi alla produzione e agli investimenti, trasferimenti vari – hanno oscillato sul 3% del Pil. Le imprese e le partite IVA sono i principali beneficiari di una elusione ed evasione delle imposte che tende a 120/150 miliardi. Profitti facili e, ciò che è più grave per la ricerca dell’efficienza nelle imprese, l’aspettativa di facili profitti sono così derivati anche dalle pubbliche finanze.
Ora urge che il governo Conte, avendo mancato di farlo sin da quando si presentò alle Camere ormai più di un anno fa, disegni e attui un vero e proprio piano per la crescita dell’economia.
Il Piano deve prendere avvio con risorse raccolte nel mercato finanziario, dove la Repubblica colloca senza difficoltà i propri titoli a tassi d’interesse bassi, sui Btp decennali scesi sino allo 0,6% (sfioravano il 4% a ottobre 2019). Non si può rinviare il Piano ulteriormente aspettando Godot, le donazioni europee. Se e quando arriveranno, queste potranno servire a consolidare la copertura e la robustezza del Piano. Inoltre la crescita non è solo questione di soldi.
Il Piano dovrebbe articolarsi lungo sette direttrici [1] :
– Investimenti pubblici. A differenza dei pur necessari ammortizzatori sociali moltiplicano la domanda, favoriscono la produttività, si autofinanziano grazie al reddito e al gettito fiscale che nel tempo generano. Vanno scanditi secondo priorità, sociali oltre che economiche: sanità, messa in sicurezza del territorio, infrastrutture fisiche e immateriali, cura dell’ambiente, istruzione e ricerca.
– Mezzogiorno. Non si può affidare l’economia del Sud ai “ras” regionali che hanno dato pessima prova nella sanità. I sussidi non risolvono. Vanno concentrati al Sud gli investimenti pubblici. Va innalzata la funzionalità dei pubblici servizi. Poi, tutto dipenderà dalle imprese meridionali e dai cittadini del Meridione.
– Rientro del debito pubblico. Mentre si effettuano gli investimenti pubblici che si autofinanziano, è cruciale tagliare spesa pubblica corrente ed evasione fiscale. Lo spazio per minori uscite correnti e maggiori entrate correnti c’è, eccome. L’effetto negativo sulla domanda globale di questo risparmio sarebbe quattro volte inferiore a quello fortemente moltiplicativo degli investimenti pubblici. Il pareggio del bilancio sarebbe favorito dal calo dello spread, che è in corso. Il debito smetterebbe allora di aumentare. Il ritorno dell’economia alla crescita farebbe nel medio periodo il resto, abbattendo il rapporto debito/Pil.
– Nuovo diritto dell’economia. Il diritto italiano dell’economia collide col ritorno alla crescita. Vanno riscritte con una semantica chiara le parti dell’ordinamento che maggiormente svantaggiano le imprese sui fronti societario, amministrativo, fallimentare, del processo civile.
– Concorrenza. Nei mercati va imposta la concorrenza. Devono ridimensionarsi le imprese che si affidano a oligopoli, lucrose commesse e concessioni, bassi salari, sussidi, evasione di imposte e contributi. La riallocazione delle risorse postula addestramento e sostegno ai lavoratori costretti a cambiare occupazione.
– Distribuzione del reddito. E’ altamente sperequata. Frena la crescita perché impedisce ai meno abbienti – nel Meridione soprattutto – di investire su se stessi e quindi di recare il massimo apporto al progresso del Paese.
– Europa. Nei Trattati, nella politica fiscale, nell’asfittico Statuto della banca centrale, nella cultura di chi governa l’Europa – Germania in testa – deve affermarsi un semplice principio: senza domanda globale non c’è crescita e senza crescita non v’è stabilità, monetaria, finanziaria, produttiva, sociale, geopolitica.
L’economia italiana non tornerà alla crescita se lo Stato non avvierà con urgenza quanto ha mancato di fare in vent’anni. Ma non vi tornerà nemmeno se lo Stato dovesse agire, qualora le imprese non riscoprissero la via maestra al profitto. Devono capire che la via facile non è ulteriormente percorribile. Se anche lo fosse, non assicurerebbe la loro sopravvivenza nel mondo globalizzato, competitivo, segnato da nuovi paradigmi tecnologici e da nuovi equilibri geo-politici, con l’America perdente e la Cina vincente.
Fa sperare che almeno in due occasioni del passato i produttori italiani hanno capito. In quella che chiamo la primavera economica giolittiana tra il 1900 e il 1913 fu Giolitti – sommo statista – a chiarire che nella dialettica capitale-lavoro lo Stato sarebbe diventato neutrale, e i carabinieri avrebbero smesso di sparare a operai e contadini in sciopero; che il cambio sarebbe stato fisso; che il bilancio sarebbe rimasto in pareggio; che non ci sarebbero stati pasti gratis per nessuno; che le concessioni ferroviarie, telefoniche, assicurative, navali ai privati inefficienti sarebbero state revocate[2]. Nella seconda occasione – il miracolo economico postbellico – le imprese risposero quando si resero conto che sarebbe fallito il loro tentativo di tornare all’autarchia, di chiudersi alla concorrenza estera, di eludere la sfida del Mercato Comune Europeo[3].
Non resta che confidare che anche questa volta, finalmente, le imprese italiane si rendano conto. Ne va della loro sorte, della sorte del Paese. Lo Stato deve smetterla di rendere difficile la loro vita, ma anche di rendergliela troppo facile.

Note

1.  P. Ciocca, Tornare alla crescita. Perché l’economia italiana è in crisi e cosa fare per rifondarla, Donzelli, Roma 2018.

2.  P. Ciocca, Giovanni Giolitti, vittima incolpevole degli economisti, in P. Barucci-L. Costabile-M. Di Matteo, Gli archivi e la storia del pensiero economico, il Mulino, Bologna 2008.

3. P. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2020), Bollati Boringhieri, Torino 2020.